VICO ACITILLO 124 - POETRY WAVE
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Direttore: Emilio Piccolo



Sans passion il n'y a pas d'art

Calamus
Xenia


Ballata folle
di Ruggiero Giovanni Maria


I

Cerco di mettere ordine 
Nella mia vita
Buttando tutto all'aria, 
Gli impegni, gli stretti orari
E gli appuntamenti più urgenti 
Che mi attendono nella giornata 
Passo stancamente in rassegna 
Nella mia mente acciaccata
Sperando di dimenticarli per sempre, 
E ogni mattina mi rammarico, 
Andando al lavoro con lena ed impegno,
Che nell’infanzia lontana
Io mai appresi a memoria 
I nomi di tutti gli uccelli dell'aria 
E degli alberi che vedo fuggire 
Inafferrabili nei finestrini
Ai bordi dell'autostrada.
Oggi, inoltre, un po' più folle del solito,
Mi illudo ed immagino che il cielo impassibile
Rifletta una casta e composta benevolenza
Verso i miei poveri sforzi
E che il sole mi accompagni
Al lavoro con un sorriso senza rimproveri.
Poiché da tempo ho compreso
Che spesso nel cielo gli uomini 
hanno visto e vedono le loro passioni.
Oh non andate via, dolci amiche,
Io chiedo poco all'angolo della strada, non lasciatemi solo
Povero me che vendo accendini e sigarette
E fazzoletti di carta a pacchetti.

Giunto al chilometro quarantasette
Sono già più prossimo ad attingere
Una più piena e più compiuta follia 
E cado in un deliquio senza ritegno:
Arrivo a immaginare che milioni di flauti 
Cantino lodi in mio onore (povero Giovanni!)
Con tersa furia in un cielo accecante,
E che una estate lucente e senza sudore 
Mi lavi il viso e la pelle e i lunghi capelli
Con menta verde, buon shampoo e freschissima crema,
E che la semplice allodola mattutina
Canti acutissima il suo oboe sfrenato 
Ed il cuculo il suo corno inglese tra le verdi siepi
Della grande pianura del Nord.
Come se ancora trionfassero antichissime ere,
In cui la natura circondava benigna 
Un uomo felice e assorto in assedi 
E amori cortesi e castelli
Come un bambino. Oh, non andate via, dolci sorelle
Io chiedo poco all'angolo della strada, non lasciatemi solo
Povero me che vendo accendini e sigarette
E fazzoletti di carta a pacchetti.

Ormai evidentemente impazzito,
Abbandono il carro argentato
E i fissati orari e la strada asfaltata
E mi avvio in processione nel bosco 
Seguito da un battaglione di sogni,
Scelti con cura certamente non degna
Di più apprezzabile impiego
tra quelli più bizzarri e inspiegabili,
Fastosamente annunciati dalle ombre rullanti
Di Lorenzo il magnifico bifolco 
Al guinzaglio di un maiale,
Di Antonio mezzafaccia
(Il tenero porcospino!), di Basilio il semplice
E di Roberto il rosso, triste amico di un tempo,
Con le tasche gonfie di tutte le migliori pastiglie 
Portatrici di felicità. Poi ripongo a terra
L'elmo e il pennacchio e mi sogno 
Vestito da prete che raglio come un asino
E corro insensatamente felice
Su un oceano di erba, tuttavia inseguito 
Da un rabbioso reggimento di rimpianti incappucciati 
Che mi volgono piangenti la schiena
Ma di cui sono pur sempre 
Il più disperato dei capitani.
Oh fuggite, andate via, frettolose visioni,
Orribili sogni senza prezzo,
Io chiedo poco all'angolo della strada, non lasciatemi solo
Povero me che vendo accendini e sigarette
E fazzoletti di carta a pacchetti.

Poi, rotolando sempre più in basso
E senza vergogna alcuna, credetemi, 
Mi vedo addirittura amato 
Da tutte le donne del mondo (sic!)
Le vedo occupare acclamanti 
Un intero stadio di calcio, 
Una splendida candida rosa. 
Esse ridono, parendo davvero felici 
(Povero me, perdonatemi!)
Di attendermi giulive, pazienti e adoranti,
Che io torni dal diuturno impiego, fatica di Sisifo.
Così mi aspettano presso il focolare
Intente nelle solite faccende di casa,
Senza inganni, senza timori e rammarichi 
Dimentiche delle delusioni
Imperdonabili e numerose
Da me goffamente perpetrate
Ogni giorno, in un tempo lontano e senza riposo.
Esse dimenticarono perfino
La spazzatura lasciata a muffire 
In tutti gli angoli possibili
E immaginabili del loro cuore.
Oh, non andate via, dolci ninfe
Io chiedo sempre di meno ogni giorno che passa
E dimentico sempre più cose e più nomi
All'angolo della strada, non lasciatemi solo
Povero me che vendo accendini e sigarette
E fazzoletti di carta a pacchetti.

Lo so, salto di palo in frasca 
Senza preavviso, ma ora vi dico 
E qui seduta stante dichiaro
Che un giorno mio padre mi regalò un falco,
Le cui piume avevano giocato con il vento del Nord
Sette volte cento non so quanti
Anni prima, in un cortile Andaluso
Nel cui centro giaceva un libro perduto di favole.
Oh, di certo voi non sapete quanto mi amava
Mio padre, e io, al pari di voi,
Ancora non so esattamente
Quanto lo abbia amato.
Mia sorella lavorava per me in piena notte,
Vergando con folli segni uno schermo magico,
Mentre io raccontavo favole antiche
A una miriade di festanti nipoti acquisiti,
E mia madre mi salutava dall'orizzonte,
Dall'alto di una scala scintillante
Circondata da tutti gli angeli del cielo di Abramo,
Di Isacco il triste e del furbo Giacobbe,
Piangendo, io non saprei dirlo ancora adesso,
Non so se di eterno dolore 
O di durevole serenità.
Ella si asciugava diligentemente 
La fronte e le guance,
E la manica della sua camicia
Si bagnava di sudore e di lagrime. 
Oh non andate via, amate megere, passanti spietate,
Io chiedo veramente così poco
All'angolo della strada, non lasciatemi solo
Povero me che vendo accendini, sigarette
E fazzoletti di carta a pacchetti.

E non mi mancava il suon di Lei,
Gradito come il sorriso di un mare 
Disteso e mai turbato dal vento.
Stoltamente mi pareva di ricordare
Che non fosse mai salita sulle navi Frigie 
Con il principe giudice scoccatore di frecce,
Volgendo la prua ad oriente, e i buoni scalmi
A Nord e a Sud, ma che pietosa e nata da uova,
Fosse ancora con me, che ancora
Mi accompagnasse ogni giorno con pensieri insondabili
Lungo la riva risonante del mare canuto e infecondo,
Mi accompagnasse al lavoro, me Re e Sacerdote,
A sacrificare cosce grasse di buoi gambestorte
All'arco d'argento e all'occhiazzurra 
E allo Zoppo divino. In quello stesso preciso momento,
Io sapevo che il mio amico migliore 
Viveva nella città ben costruita
Che gli avevo donato dopo la guerra
Per tenermelo per sempre vicino,
Per tenerlo con me in serena vecchiaia,
Per trascorrere con lui interminabili notti
Dispersi in rievocazioni infinite
Di giovani giorni passati. Ma tutto questo 
Ben presto dileguava come un’illusione,
E sfuggiva al mio braccio. La mia casa
Era vuota e la mia ninfa era svanita.
Io, amici, io non ero stato
Che un passante goffo e importuno
Un breve momento nella sua inafferrabile vita, 
E sebbene avessi provato entrambi i piaceri,
E sebbene avessi già previsto e presofferto tutto
Non avevo trovato risposta alla sua domanda.
Chi bussa ancora alla mia porta? 
Tu, ignoto visitatore
non andar via, tu che ancora
non mi hai detto il tuo nome,
Credimi: io ti aprirò sempre gentilmente il portone,
Ogni giorno che passi
Perfino se non sei un amico dimenticato da tempo,
Ma solo un venditore ansioso
Di rifornirmi a dovere di accendini e sigarette
E fazzoletti di carta a pacchetti.

Pochi giorni dopo raccontai le mie sventure
A tavola ai miei colleghi affettuosi: 
Ricevevo in cambio pacche e manate scherzose
E sgabelli e robuste seggiolate di sincera amicizia
Sulla mia schiena di ferro che meditava vendetta.
Ma non per questo diventavo ogni giorno più saggio
Mentre assorto osservavo l'arco
E la frecce e le aste di bronzo accecante
E assetato di sangue scorrevole,
Appoggiate sui muri della mia casa.
Oh, non andate via, ombre di cui ho dimenticato
Perfino il nome, io chiedo poco 
All'angolo della strada, non lasciatemi solo
Povero me che vendo accendini e sigarette
E fazzoletti di carta a pacchetti.

Ma ora mi appresto al congedo, 
Ascolto la voce dei merli più infreddoliti,
E accumulo appunti senza memoria. 
Prima che ci lasciamo, 
Lasciate che vi dica ancora una cosa: 
La pelle dei sogni distesa ad asciugare 
Sul comodino, rivestitela con cura ogni sera,
Lodate la Morte che ogni mattina 
Vi incontra e vi saluta,
E ascoltate della buona musica,
Ma non siate troppo esigenti 
In cucina e in camera da letto. 
Ricordate che Maometto e San Pietro
Portano ogni giorno torme di pecore, 
Di agnelli bianchi, e mucche e cavalli innocenti 
Ai fumanti mattatoi di Brescia, 
Mentre la nonna prepara la carne
E i dolci e trascura Beniamino 
A favore del penultimo e del primo. 
Siate buoni e generosi, 
Ma affilate e tenete basso e pronto
Il vostro corno di rinoceronte 
Contro il gatto e la volpe, 
E non dimenticate mai di carezzarmi 
All'angolo di strada, non lasciatemi solo
Povero me che vendo accendini e sigarette
E fazzoletti di carta a pacchetti.

I

Tra le creature che sulla terra camminano
Ve ne sono alcune che, misere,
Amano solo quel che vorrebbero fosse
L'amato o l'amata. Come scimmie che cerchino
Cibo negli inganni riflessi da specchi,
Così esse si offrono al sorriso pietoso del saggio.
Io, invece, amai la tua semplice esistenza
Accanto a me, e ora la canto.

Eppure
Non potrebbe mai arrogarsi
Del nome desiderato di uomo sapiente
Colui che in amore non sappia
Mai cadere in inganni
Nuovi, vari e mutevoli
Ogni giorno nuovo che passi.

Per questo io non mi pento
Di quello che ho fatto, dell'affetto 
Pieno e delicato che ancora ti porto,
Delle lagrime amorose spuntate
Senza riposo ogni quattro notti.
Ma fu quando sopravvenne il timore
Amaro e inatteso che l'amore morisse, 
Fu allora, amici, che io imparai a odiare 
In lei l'inganno e in me il disinganno: 
Io vidi me stesso come un fantasma
Futuro e non più sofferente,
Come un cieco veggente
Mi vidi e mi temetti e mi odiai 
Troppo saggio e dimentico.

Così, alunno del cielo ingannevole
E della perdita amara,
Io dimenticai, come al mattino
I portinai, le segretarie o i banchieri 
Dimenticano i sogni che più dolci o affannosi
Hanno popolato la loro notte infinita. 
Spettinati e seduti sui solidi letti,
Sulla riva del giorno sonoro  
Essi li vedono svanire come massi 
Nell'acqua fangosa del risveglio 
Ricco di impegni e promesse.

Così fu un breve sogno quel tempo
In cui io desiderai una vita intera
In tua compagnia, e disegnai
Progetti e promesse. Tutto apparve
Facile come facili sono solo gli inganni
Perché un attimo era filato  
Liscio come l'olio, e tu mi avevi amato.
Ma non fu che la gratificazione di un momento,
Una promessa che non tenne,
Un'esca gettata a pescare
Tra tante debolezze.

E quanta e quale fu l'oscurità
Che, calata sullo sguardo,
Ne interruppe il raggio,
Io non lo saprei ancora oggi
Ricordare. Io non saprei dire come
Si allontanò da me il messaggio
Affettuoso, il fantasma
desiderato e bello.
E nemmeno conosco il nome
Dei venti che ne dispersero
L'odore per la pianura.

Ho cercato una traccia per giorni
E non ho trovato nulla, chiedendo
A me stesso e ai passanti impazienti
Se fu autentico il dolore, e grande
O breve come il sorso
D'acqua di un bicchiere,
Sufficiente ad innaffiare
I fiori del giardino
Della tua casa.

II

Non ti ho insegnato
Forse a mentire
Soprattutto a te stesso? 
Sii tuo alleato, immaginati
Cavalcatore di tutte le glorie
Più infantili, delle fantasie
Più furiose, inseguito
Da un esercito di trombe
Dorate, che celebrino
A tutta forza le tue lodi 
Da un tempo infinito. 
Sognati senza vergogna
Un Napoleone, sebbene tu sia
Imbottegato tra i libri di conti
Le parcelle e i registri
E sbeffeggia le Parche.

Non affannarti a fissare
Ogni ridicolo ricordo,
Che punteggi la tua
Dimenticabile esistenza,
Compilando diari e fogliacci
Di carta che saggiamente
Nessuno verrà mai a sbirciare.
La vita non va ricordata,
Piuttosto dimenticata
Accuratamente e in ogni dettaglio.
Questo ti consiglia
Il pensiero incoronato dei saggi
Barbuti, quando alla sera
Lasciano marcire i ricordi
Più amari e più vaghi,
Attorno al braciere, 
E godono piuttosto
L'amichevole luce 
Dello stupido sonno,
Il gradito carcere
Delle palpebre immemori.

Non rimuginare per ore
Sugli impegni irrisolti:
Parcheggia piuttosto
La mente in luoghi
A te ignoti, finora.
Taglia l'erba e le siepi
Che ti impediscono il volo
Sopra il tetto e i comignoli,  
Gioca con le mani
Nell'aria, mostra
Orgoglioso e impunito
Il tuo ultimo acquisto
Quando al mattino, attraversando
Il mercato, incontri gli amici,
Offri il tuo sguardo sereno
All'eterna invidia dei venti
E racconta i tuoi desideri
Più sciocchi e più vergognosi
A ogni albero che crebbe
Fecondato di pioggia 
Nell'ampia di messi pianura del Nord.

Poi, non dimenticarti di me:
Portami un cappotto
E scarpe di buona tomaia
E un cappello di lana
D'Inghilterra, e stracci
Tra i più raffinati che trovi
E augurami la buona notte.
Io che ogni notte dormo
Sugli interminabili
Marciapiedi della città,
Accarezzato dalla luce dei lampioni,
Sotto il portone della tua casa.

29 luglio 2001

IV

Non vi è nulla di peggio
Che un pomeriggio buttato
Tra il fango e la sabbia
Tra la timidezza e l'arroganza
del disinganno e del compiacimento.

Così passeggiavo sui marciapiedi,
Seguivo solitario
Le orme dei poveri nella neve,
Affaccendato in una città lontana
Dispersa oltre le montagne,
Tra uomini e paesi sconosciuti,
Meditando sui loro nasi arrossati,
Le pareti calde e vestite di barbaro legno
E gli avventori ai tavolini accanto.

Quando sei solo e circondato da gente
Che nulla sa di Roberto o Lorenzo
Spesso riassapori i peggiori ricordi,
Li centellini contraendo i muscoli
Tesi tra mascella e mandibola
E ti vesti di loro, della loro tristezza
E del loro disfacimento come di una maschera
Che ti dia un tono, un senso,
Una parte. Di solito non fumi
Ma puoi usare anche lo sfumacchiare di sigarette
Arroganti come segretarie straniere
Che parlino pettegole un inglese perfetto
Alla reception.

Così puoi scopriti ospite nuovo a te stesso.
E possono essere strani i messaggi della memoria. 
Alcuni calano improvvisi e neri come la notte,
Poi ti scaldano come un mantello 
Steso da un passante pietoso sulle tue spalle. 

Ricordai allora una notte 
Che credevo dimenticata per sempre.
Essa mi lanciò una freccia acuta sulla schiena,
Scese silenziosa e rapida come un Apollo.
Trasalendo lasciai le usate faccende,
E le questioni e le barbare guerre,
Ed ogni altra carta,
Che mi occupava in quel paese lontano,
E mi fermai.

Fermai il corso eterno delle cose
E pensai a te, e a quell'altro
Me stesso, e vidi le ombre di voi due,
Te e me stesso, giovani innocenti
Ma coperti di sangue come scampati a un massacro, 
Venuti a discorrere con me, 
Intorno al mio cuore.

Signore, io ti chiedo aiuto e perdono!
Quale tristezza non incontrai nei loro visi!
La faccia di lei soprattutto,
Era piena di lagrime e di riso amaro,
Tra i suoi occhi si piegava l'abbandono.
Come vorrei dirla tutta, quella immagine,
E amaramente piangerla, ma non lo saprei.
E io, che ero lì, che ero presente e vivo,
E non ombra, mi rimproverai,
E rimproverai quell'ombra passata
Quel me stesso che non seppe amarla.
Che importava se ancora poco ti conoscevo?
Che importavano i mille e mille
Altri ostacoli e le giustificazioni?
Avrei dovuto semplicemente amarti,
E sottrarre al caso, ai molteplici calcoli
E premure e stanchezze,
L'amore.

Io non sapevo più dove eravamo.
Mi pareva di percorrere il ponte
Di una nave in tempesta, e temevo
L'ingannevole amico che, inevitabile come il destino,
Mi avrebbe offerto effimero appoggio
Per poi gettarmi fuoribordo.

Raccolsi allora da terra le mie cose
E abbracciai l'ombra di lei passata 
E la mia, che misteriosamente piangeva
Di noi tre astanti la più ignorante
Delle circostanze di quello strano incontro,
L'unica che non aveva bevuto sangue e latte e miele.
Mi allungai, ma il mio braccio
Si perse nell'aria grave e morta
Come un grande uccello accecato.

Come un commerciante dubbioso
Tra due decisioni,
Ancora oggi mi chiedo 
Chi di loro due, chi di noi,
Meritasse più consolazione.
Poiché io non conoscevo quale fosse
Il maggior dolore: se non essere
Amati, o non amare.

V
Poesie giapponesi, ovvero messaggi al telefonino

Ti ho incontrato attraversando il ponte dei sogni,
Ma dall'altra parte del fiume appassivano i gigli.

La luna pallida d'agosto illumina 
Tutti gli angoli della mia casa,
Ma io non sono che un cieco che cammina 
Tastando la tavola, le sedie, i muri.

Sullo schermo si agitano le ombre colorate e i suoni pettegoli,
Ma tace la tua voce all'altro capo del telefono, stasera.

Perfino se tu fossi un maligno genio 
O qualsiasi altra creatura infernale,
Io sceglierei di essere un'anima dannata, 
Che preferisca volarti intorno eternamente,
Piuttosto che oltrepassare le porte del cielo.

Uscito di casa, la luna è una boccia nel fioco azzurro
Della sera, che mi ricorda i vicoli solitari 
Dove tu la contemplavi in mia compagnia
Promettendomi di popolare la mia casa.

Dal sentiero delle montagne,
Vedo le luci brillare in fondo alla valle.
Esse sono i miei anni solitari, 
Durante i quali non ho mai rimpianto di averti amato.

I miei passi che scendono i sentieri
Sono rapidi come gli anni, i pensieri, gli amori.

Il sole illumina le piante del mio giardino.
Perché invidiare Mercurio:
Il pianeta che più da vicino lo gode?

Ogni minuto che passa
Di questa mia tenue
E piccola vita
Si nutre della consolazione
Che un giorno ti amai

Davanti alla porta della tua casa
Hai posato vasi di ortensie.
Il vicino ti incontra che li innaffi
Nel pianerottolo, osservandoti
Mentre scende le scale.

Perché mi hai chiamato Sole del tuo giorno
Se già coloravi di rosso i raggi
Che ti regalavo? Era il tramonto,
E io non lo sapevo. 
 

Traduzione (dall’inglese):

Perfino una felicità lunga una intera vita 
Non è altro che una tazza di sake;
Un'intera esistenza di quarantanove anni è già svanita in un sogno;
Io non so cosa sia la vita, né la morte.
Anno dopo anno, nient'altro che un'ombra. 
Ma ora mi lascio alle spalle i Superi e gli Inferi
E mi godo la luce della Luna che sorge,
Libero dalle nuvole degli affetti terreni.

Uesugi Kenshin (1530-1578), daimio (grande feudatario giapponese).
 

VI 

Se un dio del passato
Mi apparisse improvviso
Dal profondo del fuoco,
O dai reami del tempo,
O dall’ombra di Dio,
E mi proponesse di affidare 
Ogni mio più caro ricordo
E tutte le cose che ho nella mente 
E quelle che ho faticosamente imparato
In anni di studio affaticato e costante
Alla dimenticanza, per in cambio ottenere
Illimitata e brunita bellezza, fascino
Assoluto, oscura e zingaresca superbia,
Statuaria improntitudine, nobiltà senza vergogna,
Odore irresistibile, splendidi occhi 
Di cavallo e pelle luminosa,
E un mento privo di umiltà,
E una voce sonora e mai macchiata
Da esitazioni e incrinature,
Ebbene, io non esiterei un solo istante.
 

VI

Sono morti da tempo
tutti i poeti che hanno popolato di musica
I miei anni migliori. Non mi rimane 
Che imparare a cantare.

VII

Ti ho comprato questi fiori
Perché ti amo.
Amore mi morde il fianco
Come un cane rabbioso, 
E io goffamente imbarazzato
Mi tampono la ferita
Con la mano tutto il giorno.
Il fioraio, il ragazzo 
Del negozio e la donna
Delle pulizie mi guardano
Stupiti, domandandosi
Dubbiosi se sia scelta più saggia
Compatirmi o invidiarmi.

E dalla strada mi indicano
E mi osservano i passanti
E il loro sguardo fino a me
Danza tra i fiori e le ginestre
Attraverso le vetrine
E gli addobbi di Natale.
Essi mi indicano
Ai loro figlioletti
Che tengono per mano
E raccontano loro
Commossi e inteneriti
Cosa sia e cosa 
Debbano attendersi
Di buono e di cattivo
Da ogni tenero affetto
Da ogni futuro amore.

La camicia bianca
Che stamattina mi hai comprato
Arrossisce di sangue
Ogni giorno cha passa,
Ma il tenero giornalaio
Il compratore di notizie
E l’amico incontrato
Per caso all’angolo
Della strada tante volte
Attraversata
Si complimentano felici
E innocenti
E non intimoriti
Dal sangue che si espande
Sui bianchi e stirati lini.

Così i cani, compagni
Dell’uomo e della donna
Abbaiano a me
Che sono innamorato,
E mi salutano i fruscii
Delle foglie del Platano
Lungo la riva del fiume
Che scorre placido al limitare 
Della città degli uomini.

IX

Quando il tuo cuore ti chiama
E tu non sai cosa rispondere,
Allora ricordati di me 
E non dimenticarmi
Io che ti insegnai nel passato
Che sono quindici gli anni
Che è giusto assegnare
Ai sogni migliori,
Mentre i primi e gli ultimi
Dieci giorni che attorniano
La luna sono il tempo
Che invece riserverai
Diligente ed astuto
Ai deliri e alle fantasie
Più sfrenate.


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