Lambiase, Sergio: Ricordo
di Glauco Viazzi
Mastropasqua, Aldo: Glauco
Viazzi, un maestro della ricerca letteraria
Nazzaro, G.
Battista: Glauco, un maestro, un
amico
Verdino,
Stefano: I progetti di Glauco
Viazzi
I
poeti di Glauco Viazzi, vol. I (Giaconi, Lucini, Sinadinò)
Ricordo
di Glauco Viazzi
Venti
anni
fa moriva Glauco Viazzi.
Viazzi
si chiamava in realtà Jusik Achrafian ed era nato nel 1920 in
Armenia,
in quella che fu per un breve periodo (siamo negli anni turbinosi della
guerra civile) la Repubblica Bianca del Kuban. (Ma c’è chi giura
che Jusik-Glauco sia nato ad Istanbul, dopo la fuga della famiglia
dall’Armenia
in fiamme; dunque prendiamo per buona anche quest’ipotesi).
Dalla
Russia
(o da Istanbul) la famiglia Achrafian approda in Italia, dove Jusik
frequenta
il collegio armeno (e cattolico) di Venezia, per poi vivere
successivamente
a Roma, Genova, Roma (e scrollandosi di dosso a fatica lo statuto
d’apolide).
A Genova
Jusik assume il nom de plume di Glauco Viazzi (dal filosofo Pio Viazzi,
le cui opere ammira; secondo altri il nuovo cognome fu scelto a caso,
sfogliando
l’elenco telefonico, mentre il nome gli deriverebbe dal titolo di un
dramma
di Luigi Ercole Morselli). I primi interessi di Viazzi vanno direzione
della letteratura armena tra ‘800 e ‘900 (con saggi pubblicati sulla
rivista
“Him”), poi c’è la scoperta del cinema, da quello francese
(Vigo,
Renoir, Clair) a quello americano (Chaplin, ma anche Hitchcock e infine
Jerry Lewis). Va da sé l’attenzione al cinema italiano, a
cominciare
da Ossessione, e in generale alla stagione del neorealismo.
Non
sapremo
mai con esattezza perché ad un certo punto Viazzi volti le
spalle
al cinema. (Con Ugo Casiraghi aveva dato corpo ad una delle più
belle collane di cinema mai apparse in Italia, “Il Poligono”). Forse
per
una sorta di stanchezza nei confronti di una critica militante,
costretta
a fare lo slalom tra Lucaks e i problemi spinosi (e irrisolti) del
realismo
in arte.
Ora i
suoi
interessi si spostano verso il futurismo e movimenti coevi, ma con un
occhio
di riguardo al simbolismo. Nascono le piccole antologie sui poeti
simbolisti
e futuristi (veri e propri gioielli editoriali compilati con l’amico
Vanni
Scheiwiller, con la riscoperta di straordinari poeti sovente
dimenticati.
Un nome per tutti: Agostino J. Sinadinò). Seguono (cito alla
rinfusa)
gli studi su Gian Pietro Lucini, Paolo Valera, Felice Cameroni, mentre,
a cominciare dal 1974, collabora proficuamente alla rivista “ES.” con
saggi
di straordinaria intensità sul futurismo e sulla letteratura
italiana
tra ‘800 e ‘900 e curando traduzioni di poeti dell’avanguardia
francese,
da Desnos a René Char.
Nel 1980,
improvvisa, la morte. Le sue carte sono ancora oggi un patrimonio tutto
da indagare, tra saggi inediti e quaderni di traduzioni che Viazzi non
ebbe il tempo a pubblicare. Nel 1891 escono postumi, nelle Edizioni
Einaudi,
i due densi volumi dell’antologia Dal simbolismo al Déco, vera e
propria summa (ragionata) della poesia italiana post-mallarmeana.
Anche il
fittissimo epistolario di Viazzi chiede ancora una sistemazione.
Glauco,
un maestro, un amico
Il
10 marzo del 1980, a San Remo, inaspettatamente, veniva a mancare
Glauco
Viazzi. Lo venni a sapere il giorno successivo, di pomeriggio. Mi
telefonò
un amico per dirmelo. Mi ero appena seduto alla scrivania per ritoccare
e ricopiare il mio saggio sulla poetica di d’Annunzio destinato ad un
numero
speciale di “Es.” dedicato al vate d’Abruzzo. Glauco aveva già
inviato
il suo da tempo, quello con cui poi aprimmo il fascicolo 12-13 della
rivista.
Ci eravamo sentiti due o tre giorni prima, ci disse che aveva avuti dei
problemi, che era stato in clinica per accertamenti, che tutti i valori
erano usciti sballati, ma né Sergio né io avevamo dato
eccessiva
importanza a quei fatti, ché anzi, al telefono, lo esortai a non
pensarci troppo, a lasciar correre. Sta di fatto che, nonostante tutto,
lui smise quasi subito di lagnarsi; e prese di nuovo a tessere le fila
del suo futuro, a fare progetti anche per noi, per me e per Sergio.
Era un amico Glauco, un vero amico, aperto e disinteressato, prodigo e
generoso, pronto a farti complice e a farsi complice, a darti in caso
di
bisogno aiuto e soccorso con i libri o una messa di dati raccolti e
tenuti
da parte apposta per te. “Vieni, ti aspetto, ho preparato per te un po’
di libri da vedere nel caso volessi affrontare l’argomento di cui ti
dicevo
sulla rivista […]”. Ma tutte le sue lettere pullulavano di indicazioni
bibliografiche, di rimandi a questo o quel testo, di suggerimenti.
Sulla
sue scrivania c’erano mazzette di fogli con appunti destinati a tutti i
suoi amici, secondo gli interessi di ognuno. Ed era anche un maestro,
un
vero maestro. Uno che ti apriva gli occhi innanzi ai problemi che
l’avventura
novecentesca poneva e ti indicava la via da seguire; che, di fronte ai
luoghi comuni della critica ufficiale escogitava i suoi rigorosi
sistemi
di rovesciamento per offrirti il capo, l’imbocco della strada da
percorrere
e aiutarti a sbrogliare la matassa. Sempre rispettoso, però,
degli
altrui metodi e delle altrui convinzioni. “Si da il caso”, mi diceva
nella
sua seconda o terza lettera, quella relativa al mio Introduzione al
futurismo,
“che io sia assertore di libertà, rispettoso delle altrui
convinzioni.
Ma i fatti sono fatti, sono le cose realmente accadute e che non si
possono
ignorare” e ciò per giustificare i suoi sparsi interventi
bibliografici
e alcuni suoi suggerimenti di tessitura per lumeggiare giudizi e
deduzioni.
“I fatti sono fatti”, sono le cose realmente accadute che determinano
la
complessità degli eventi, e cioè della storia, e di cui
bisognava
far conto. Ignorarli era colpevole. Era questo il suo pensiero, il
principio
da cui partiva. Ecco perché, lui per primo, ha sempre rispettato
i fatti, belli o brutti che fossero, che piacessero o meno ai critici,
perché la storia, diceva, c’è, “esiste”, e gli eventi che
rappresenta sono multiformi, intrecciati tra loro, spesso
inestricabili,
quelli grandi, ma anche i minimi, quelli che noi siamo portati ad
ignorare
per comodità d’esemplificazione o per non disturbare il sistema
delle generalità, gli schemi dai quali siamo partiti. Ecco
perché
le sue antologie sono affollatissime di nomi, quelli noti e quelli
ignoti,
quelli sopravvissuti e quelli cancellati dal tempo, quelli già
incasellati
in un modo e che lui, solerte, toglieva dalla casella prestabilita per
servirsene il più liberamente possibile, secondo coscienza e
verità
– sono antologie, quelle sue, esemplari proprio per questo, e per
coloro
che vogliono capire come le “cose” letterarie sono effettivamente
accadute
nel nostro paese nel secolo appena trascorso, e quante e quali persone
sono state implicate nel determinarle. Da ciò pure quel suo
affaticarsi
continuo a cercare libri, a seguire tracce, a scavare in biblioteche,
in
lasciti nascosti, tra mucchi di carte consunte o in vecchi fascicoli
dimenticati
da tutti – a tenere aperti ogni varco possibile all’indagine. Non era
soltanto
una mania da bibliofilo questa, ma una esigenza vera, una
necessità
per rintracciare i fili di un discorso sul Novecento che fosse
storicamente
rispettoso di quanto era accaduto e, nel contempo, il più
pervaso
possibile. Pertanto, colmo di sfaccettature diverse e ricco di
sorprese.
E’ questo il messaggio che Glauco ci ha lasciato, quello che noi, suoi
amici e discepoli, abbiamo cercato di conservare gelosamente e di non
tradire
– un messaggio prezioso e ricco di conseguenze, e che va oltre la pura
e semplice indagine svolta su questo o quel movimento, in questo o quel
campo, simbolismo, liberty o futurismo che fosse. L’esemplarità
dell’indagine non cancella l’assunto di “verità”, il punto da
cui
lui partiva per dar forma ai suoi complessi organismi. Che poi piacesse
o non piacesse ai critici, agli incasellatori dei fenomeni letterari,
ai
detentori della verità rivelata una per tutte, era per lui poco
importante – e lo è tuttora anche per noi.
Quando discutevamo di queste cose o ci comunicavamo le scoperte fatte,
si facevano le ore piccole. Insonne, erano quelle le sue ore migliori.
A Roma, nel suo appartamento di via Salaria, a casa mia, quando veniva
a trovarmi, o a casa di Sergio. Gli bastavano uno o due caffè e
tante, tante sigarette per reggere fino all’alba. Talvolta, durante
queste
discussioni, Glauco si accalorava nel difendere la sua posizione, e si
risentiva per coloro che, sotto sotto, non gli perdonavano l’invasione
di un campo che non ritenevano di sua pertinenza. Oltre a sentirsi
mortificati
per ciò che loro avrebbero dovuto fare e non facevano, costoro
finivano
anche per sentirsi in colpa di fronte all’acume che lui metteva nel
ricostruire
una diversa linea novecentesca della letteratura.
Ho ricevuto l’ultima sua lettera il giorno successivo alla notizia
della
sua scomparsa. Glauco l’aveva scritta la mattina stessa in cui
cessò
di vivere. Mi fu detto, poi, che, come era suo costume, aveva lavorato
fino a notte molto inoltrata, si era alzato tardi e si era messo alla
macchina
da scrivere per scrivere alcune lettere. Quindi si era preparato per
uscire;
fuori, aveva comprato le sigarette e imbucato le lettere ed era tornato
a casa per il pranzo. Già per strada aveva accusato alcuni
disturbi
che divennero gravi prima ancora di mettersi a tavola. Se ne
andò
quasi subito, forse senza neppure accorgersi del trapasso.
Un ultimo ricordo a chiusura di questa breve rievocazione. Glauco molto
spesso mi ripeteva che sulla sua tomba voleva incise le date 1920 –
1980.
“E’ perfetto”, mi diceva. Una volta mi mostrò anche il disegno
della
sua tomba, fatto eseguire dall’amico Luigi Veronesi. Non so se quel
progetto
sia stato mai realizzato. So però che quanto lui desiderava, si
è avverato.
3.
Glauco Viazzi, un maestro della ricerca letteraria
Sarà
stato verso il 1975 quando pensai, giovane neolaureato con una modesta
borsa di studio, di buttarmi in una ricerca sul simbolismo in Italia
tra
Ottocento e Novecento. Di fatto, come tanti altri colleghi di studi,
ero
stato promosso sul campo assistente a tempo pieno all’Università
di Roma e Carlo Salinari, il potente barone rosso che mi aveva
reclutato,
mi consigliò di chiedere consiglio a Glauco Viazzi. Naturalmente
conoscevo già in parte i suoi studi su Lucini, ma ignoravo tutto
di lui, a partire dalla sua vera identità. Essendo, come si dice
a Roma, totalmente “imbranato”, non mi decidevo a entrare in contatto
con
Viazzi.
Quando
ero ancora studente, avevo fondato insieme a un gruppo di amici,
tirando
fuori dalle nostre magre finanze ciascuno qualcche lira, una rivista a
cui demmo nome «Quaderni di critica». Il primo numero,
dalla
copertina di un rosso fiammante, era un numero monografico sulla
Neoavanguardia.
Avevamo, intervistando per lettera con un questionario alquanto astruso
e impervio alcuni degli esponenti e fiancheggiatori del movimento,
montato
un dibattito sul Gruppo 63 corredato da alcuni saggi che per alcuni di
noi rappresentavano in assoluto il primo scritto dato alle stampe,
seguito
con trepidazione fino alla correzione delle bozze sul bancone della
tipografia,
tra inenarrabili e tragicomiche gaffes sotto gli occhi increduli del
proto.
Offerto con orgoglio e trepidazione il numero a Salinari, il cui
giudizio
sull’avanguardia era assai negativo, ne ricevemmo, davanti ai
più
anziani colleghi accademici ironici e divertiti, un memorabile
responso:
«Ragazzi, siete riusciti a mettere insieme alcune delle teste
più
confuse che ci siano oggi in Italia». Non era, evidentemente,
dello
stesso parere Glauco Viazzi, se ricevemmo con stupore qualche tempo
dopo
una sua lettera che, dopo circostanziati elogi e incoraggiamenti per la
nostra rivista, ci invitava a dedicare un numero – se ben ricordo –
alla
letteratura di massa sulla scia della teoria gramsciana del
nazional-popolare.
Fummo lusingati e forse non capimmo il carattere velatamente ironico
della
proposta, alla quale del resto non fu dato seguito e chissà se
qualcuno
di noi ha conservato quella lunga lettera.
Qualche
tempo dopo venni informato, ma all’ultimo momento e in maniera assai
imprecisa,
di un incontro a casa di Viazzi per discutere il progetto di un libro
su
Marinetti (poi uscito nel 1977 da Guida). Sapevo vagamente che abitava
dalle parti di Villa Ada ma cercai inutilmente sull’elenco telefonico
il
numero o l’indirizzo. Ormai ero deciso a conoscere ad ogni costo il
mitico
Viazzi e finalmente – non ricordo più come – riuscii a stabilire
il contatto. Devo dire che il personaggio si rivelò ai miei
occhi
effettivamente straordinario: non c’era autore, rivista o tendenza
letteraria,
artistica, musicale contemporanea che gli fosse sconosciuto. Era
inoltre
di una straordinaria disponibilità all’ascolto e pronto
generosamente
a suggerire e a stimolare la ricerca. Fui istantaneamente invitato a
collaborare
a «ES.», la vivacissima rivistina animata da Lambiase e
Nazzaro
della quale era l’eminenza grigia, dal momento che il suo nome non
figurava
tra quelli dei redattori. Inediti, piccoli scoops critici, ma anche
ricerche
su autori laterali e marginali dell’avanguardia italiana e straniera si
tramutavano in altrettanti “pezzi” destinati alla rivista. Credo
di avere imparato più cose sul come si fa ricerca frequentando
in
quegli anni Viazzi di quante non me ne abbia insegnate
l’università.
Ricordo che sosteneva che una vera storia letteraria non si fa solo
studiando
i testi, ma anche le riviste, gli epistolari e la storia dell’editoria.
Una storia letteraria del genere non è ancora stata scritta,
anche
perché solo uno come Glauco avrebbe forse potuto scriverla, se
ne
avesse avuto tempo e voglia.
Viazzi
con la sua parola e con il suo esempio mi ha trasmesso la convinzione
che
anche la ricerca letteraria è sperimentale, come lo è
quella
che si fa in un laboratorio scientifico o durante uno scavo
archeologico
e che bisogna rimboccarsi le maniche e sporcarsi le mani con i libri
più
impolverati e con le carte ripescate negli archivi e nelle cantine. Una
volta mi mise sulle tracce di una cassa di manoscritti appartenuti a
Italo
Tavolato, uno dei lacerbiani meno studiati e conosciuti (non che lo sia
adesso, anche dopo il divertissement einaudiano di Vassalli, L’alcova
elettrica).
Fu un lavoro da detective. Della cassa nemmeno l’ombra, ma con grande
fatica
riuscii alla fine a mettere le mani su molti libri della sua biblioteca
e su alcuni cimeli che ancora conservo, ivi comprese fotografie e il
passaporto
dello scrittore triestino. In ogni caso scrissi per «ES.»
un
saggetto che credo sia il primo mai scritto su scrittore così
marginale
e secondario.
Le nostre
conversazioni si svolgevano inizialmente nella sua casa di Via Salaria,
un’appartamento piuttosto borghese e arredato con gusto un po’
rétro
ma inzeppata di libri, e il cui sancta sanctorum era costituito da uno
studiolo piccolissimo che era una specie di arca delle meraviglie,
stipato
di edizioni introvabili, dove la facevano da padroni autori simbolisti
e futuristi collezionati fin dagli anni Quaranta, come mi spiegò
una volta Viazzi, stanandoli in bancarelle e librerie antiquarie come
quella
di Saba a Trieste. E aggiungeva divertito che Saba si arrabbiava molto
se lo scopriva a leggere «quella robaccia». Poi
cominciai
a frequentare Viazzi, andato in pensione dal suo impiego di ingegnere
chimico,
nella redazione degli Editori Riuniti in Via Serchio, nel cosiddetto
quartiere
Coppedé. Viazzi lavorava come correttore di bozze in una specie
di soffitta, senza percepire stipendio alcuno, ma per sua libera
scelta,
perché evidentemente il contatto con i libri e con le pagine
fresche
di inchiostro gli dava di per sé un piacere impagabile. La sua
stanza
era meta di un continuo pellegrinaggio di giovani e meno giovani
studiosi
che lo andavano a trovare per sottoporgli questioni e quesiti o per
richiedere
bibliografie e suggerimenti. Si diceva che non pochi libri e non pochi
cattedratici gli dovessero qualcosa.
Alla
rigidezza
e direi alla spigolosità del suo punto di vista sulla politica e
sul mondo, corrispondeva invece un aperto pluralismo sulla letteratura
e sull’arte in generale. Ça va sans dire che le sue preferenze
andavano
agli autori sperimentali e d’avanguardia, insomma alle tendenze che si
incontravano e si intrecciavano con la modernità più
avanzata.
In letteratura e in arte il suo punto di vista era decisamente
europeo
e internazionale, potendosi giovare, tra l’altro, anche di
un’invidiabile
conoscenza delle lingue. Ricordo che una volta aveva appena terminato
la
correzione delle bozze delle Lettere a Solaria e mi disse tutti gli
scrittori
italiani vi facevano una ben misera figura ad eccezione di Bobi Bazlen,
allora semi-sconosciuto ma che di là a qualche anno sarebbe
stato
mitizzato e riscoperto. I nostri contatti avvenivano di persona o per
telefono,
solo una volta, non ci sentivamo da qualche mese, mi arrivò una
sua cartolina illustrata della serie “Roma sparita”, con la quale mi
chiedeva
indietro un libro prestatomi. Rimpiango quindi di non avere nessuna di
quelle straordinarie lettere-saggio, che non si riusciva a capire
quando
trovasse il tempo di scrivere agli amici e che raccolte formerebbero
uno
dei più singolari epistolari del Novecento.
Quando
mi comunicò che si sarebbe trasferito a Sanremo rimasi affranto,
sarei rimasto privo di un punto di riferimento insostituibile nel mio
lavoro
di ricerca. Qualche mese dopo la sua partenza mi decisi a scrivergli
una
lettera con un dettagliato progetto di ricerca, pregustando di ricevere
in risposta uno dei suoi trattati epistolari. Questa lettera non fu
però
mai spedita perché seppi, da un’amica comune, che Jusik non
avrebbe
mai più potuto leggerla.
Cosa
rimane
da fare agli amici di Glauco Viazzi a vent’anni dalla sua scomparsa
oltre
che ricordarlo? Credo che si possa e si debbano rimettere in
circolazione
i suoi scritti, quelli editi (ormai tutti fuori catalogo), pubblicare i
numerosi inediti, ricostruire la sua bibliografia e, perché no?,
la sua avvincente biografia culturale tentando di sottrarre alla
dispersione,
raccogliendole, le sue leggendarie lettere. Non fosse altro per la
coraggiosa
riscoperta di un autore come Lucini, Viazzi, oggettivamente lo merita.
Ma come fare tutto questo se l’editoria italiana sembra essere ormai
del
tutto refrattaria al suo punto di vista sulla letteratura e sull’arte?
Allora cominciamo a rimboccarci le maniche e a costruire un sito
internet
dedicato a Jusik, sono convinto che un’idea del genere gli sarebbe
andata
a genio.
I
progetti di Glauco Viazzi
Più
volte in questi venti anni ho decisamente rimpianto, mentre facevo
ricerche
sulla poesia del Novecento, che Glauco Viazzi non avesse avuto il tempo
di realizzare il suo ambizioso e appassionante progetto di scavo e di
allestimento
di una capillare antologia poetica del Novecento.
Rimpianto
tanto più forte, quanto più risultano a tutt'oggi
insuperate,
per ricchezza di recuperi e di documentazione, le due antologie che gli
riuscì di fare, sui Simbolisti e sui Futuristi.
Inutile
in questa sede ricordare la rilevanza fondamentale soprattutto
dell'antologia
dei Simbolisti, che consentì il recupero di una stagione poetica
del tutto soffocata da D'Annunzio da una parte e dalle nuove
avanguardie,
dall'altra. E quindi il rimpianto aumenta per quanto di inedito e nuovo
Glauco avrebbe saputo presentarci da un sommerso di tutto il Novecento.
Ricordo
bene, che durante un nostro incontro a Sanremo, pochi mesi prima della
sua fine improvvisa, gli chiesi il perché della sua strenua
dedizione
al Simbolismo e al Futurismo. Lui mi rispose che non si trattava di una
mania esclusiva, ma di una prima tappa di uno studio sistematico e
capillare
che voleva fare su tutta la poesia del Novecento, a partire proprio da
quelle lontane e semisepolte o cancellate origini. Da poco in pensione,
sperava di dare pieno corso al progetto e stava, nella mente,
prospettando
già l'indice-sommario delle ricerche sulla poesia degli anni
venti
e Trenta. Era un periodo che allora intrigava anche me e ne parlammo
insieme.
Io quel giorno a Sanremo, dopo di lui, sarei andato a trovare un
vecchio
e dimenticato poeta, Renzo Laurano, che esordì con una raccolta
Chiara ride, da Mondadori nel 1934, che strappò a Montale un
semiplauso.
Glauco aveva ben chiaro chi fosse Laurano e ricordo che si
annotò
l'indirizzo, per un possibile incontro. Gli feci anche leggere i versi
di un altro poeta ligure Giuseppe Cosmi, morto ventiquattrenne nel
1937,
di
nefrite, i cui testi furono editi postumi da Adriano Grande, a Roma, da
Novissima nel 1940.
Questa
volta non lo conosceva ed io ero fiero di questo mio piccolo vantaggio,
davanti a un maestro dello scavo, come lui. Lesse con curiosità
le fotocopie che gli porsi (ricordo ancora il gesto, curioso e
interrogativo,
con cui le ghermì) e in breve lo inquadrò in una mappa
precisa:
versi legati alla poesia di barile, a quell'alessandrinismo, ma con un
che di acerbo, che denotava un balenio affiorante di una
personalità.
Alla fine era contento di questa piccola notizia in più che
andava
ad arricchire l'imponente archivio della sua mente e ci salutammo con
l'intesa
di prossimi appuntamenti, ricercando sugli anni Trenta.
Tutto fu
azzerato, come si sa, poco tempo dopo.
Ma credo
che sia stato giusto per me, ricordando un maestro come Glauco, dare
questa
piccola testimonianza del suo fervore e della sua straordinaria
curiosità
progettuale.
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