Nel
1996, nella
speranza di poter redigere un volume su quanto ci si aspettava intorno
alla poesia al
tramonto di un secolo, fu inviato ad un gruppo di amici scrittori un
breve
questionario.I dattiloscritti,
per la cronica insufficienza dei fondi, non sono mai andati in
tipografia, ed
oggi,rileggendo
alcune risposte fra le tante giunte in quel tempo, crediamosia
interessante
riproporne proprio qualche
esempio.
L’occasione ci
stimola ad un nuovo invito rivolto a quanti nell’anno 1996 non
risposero,
così da poter
aprire un dibattito aggiornato e stimolante.
Il questionario
era:
1) Dalla
seconda guerra mondiale alla Bosnia, alla Cecenia: come potremmo
intervenire con il segno
della poesia contro l’incapacità di ascoltare?
2)
Carducci,
Pascoli, D’Annunzio / Marconi, Freud, Einstein: in questi due gruppi
sembrano
presenti due maniere di
incidere sulla cultura, ma chi lascia un segno indelebile?
3)
“Diciotto
anni, muore di parto: avviso al ginecologo” : come può
accostarsi la poesia ad
una tragedia?
4) Tra
la
cultura accademica e la cultura underground ed Internet: riusciresti ad
inserire un tuo nuovo
volume di poesie?
5)
1950/2000.
Quasimodo, Ungaretti, Montale / Baudo, Zichichi, Scalfaro: ancora un
confronto che non tocca
gli addetti ai lavori, ma il grosso pubblico da ascolto soltanto a
Baudo?
6) Quale
valore
può avere la poesia in un contesto sociale che è
protagonista di “labbra e seni
al silicone”, di “uteri
i affitto”, di “manipolazioni genetiche”, di “Alzheimer sempre
più
diffuso”?
7) E’
noto che
moltissime case editrici, anche di etichetta, riescano a chiedere al
poeta
somme enormi per la
pubblicazione di un volume. Lo reputi lecito? E se tali somme le
versassimo a
gruppi sociali meno abbienti? Alcuni di essi
sono lontano un miglio dagli interessi poetici, perché afflitti
dalla fame, ma
nascondono anche dei valori e
dei sentimenti inattesi.
8) Nel
divario
di potere editoriale Nord-Sud cade anche la distribuzione del volume
pubblicato. Hai trovato
qualche difficoltà nel passato ed ancor oggi per i tuoi volumi?
9) Un
uomo
della strada (diciamo licenza media) ha letto una tua ultima poesia.
Non l’ ha
compresa e te ne chiede una semplice interpretazione. Lo assecondi…
reagendo in
qual modo?
Pubblichiamo
le
risposte date allora da:
1. Roberto Sanesi
2. Lamberto Pignotti
3. Luciano Luisi
4. Luciano Caruso
5. Gesualdo Bufalino
6. Massimo Pamio
7. Franco Manescalchi
8. Franco Cavallo
9. Carmine Di Biase
10. Angelo Lippo
11. Dante Maffia
12. Giuseppe
Napolitano
13. Gio Ferri
14. Mariella Bettarini
15. Alberto Cappi
Roberto Sanesi
1-
Collegando
subito a questo primo interrogativo anche il 3 ed il 6 (vertono tutti
nella
loro variazione, su un principio
di “realtà”, cronaca, ecc), mentre non credo che vi sia una
inevitabile
“incapacità di ascoltare” –
è un problema indotto – sono convinto da sempre della
impossibilità, perfino
della inopportunità di una
competizione sia pure nobile della poesia con i fatti immediati. Detto
genericamente (ci vorrebbe ben altro che
una risposta in sintesi), se la funzione, o una funzione, della poesia
sta in
una sua capacità di
ri-fondazione continua, il dramma singolo, l’evento transitorio, il
malessere
sociale individuale, insomma tutto ciò che
ormai con forza ci è raccontato da mezzi di comunicazione
diffusi e potenti,
non costituiscono il suo vero o
comunque efficace punto d’ancoraggio. Ahimè non c’è nulla
di nuovo nella
tragedia del vivere, cambiano solo i
particolari. Non credo, in poesia, né alla notizia né
alla sua descrizione.
Credo a una poesia fondata su
principi comparativi, interattivi, pluri-teorici (se si può
dire), generativi
di modelli logico-esplicativi.
Dove c’è
capacità di ascoltare, e io credo che ci sia, sia pure in
minoranza, è questo
che sarà ascoltato. La poesia è
elitaria? Non è detto che sia una condanna. La sua area di
azione è di
conoscenza. Non di volta in
volta e a seconda che.
2 - Il modo di
incidere della prima terna rispetto alla seconda è decisamente
inferiore
proprio a causa della divisione
mantenuta fra le due aree d’azione culturale. E’ il male della
tradizione
italiana più recente. Il divieto
implicito fatto alla poesia di “contaminarsi” con scienza, politica,
filosofia,
economia, antropologia, ecc. ecc.
(Discorso che meriterebbe un’indagine approfondita- né Dante
né Leonardo, per
esempio, avrebbero mai
sottoscritto una simile scissione).
4 - Perché no?
Con totale indifferenza per gli evidenti ostacoli. E di nuovo: evitando
di considerarmi
uno “specialista”. Ci sono già
troppi poeti-poeti, che considerano estranei alla propria
attività
l’impegno critico, la traduzione, il dibattito
sulle arti figurative- qualsiasi cosa non sia “la poesia”, falsando
appunto il
concetto di poesia, estraniandola.
Per non dire di lingua, di musica , etc…
5 - Sì, il
grosso pubblico. Ma come arrivano le informazioni? E la scuola? La
letteratura
è fatta regolarmente apparire
mussale, incartapecorita, oggetto di studi passivi. Il morbo di
Alzheimer di
cui parli in 6) è determinato dal prevalere
dell’immediato consumabile sul meditativo-problematico, che richiede
tempo e
attenzione.
7 - Rispondere è
difficilissimo. Di per se è inammissibile pagare per
essere pubblicati. Per altri versi, sapendo
che gli editori
di poesia non possono sopravvivere, un aiuto in qualche forma potrebbe
non
essere ritenuto scandaloso. Ma
quanti falsi poeti, che non leggerebbero una poesia altrui nemmeno
sotto
minaccia di fucilazione (se ne
leggessero, qualche libro di poesia in più si venderebbe),
quanti ingenui
arroganti (senza saperlo) che pensano
alla poesia in termini di “afflato sentimentale”, di confessione,
perfino di
“status symbol”… ci vorrebbe il
numero chiuso. Ma non saranno questi a devolvere a gruppi sociali meno
abbienti
ciò che spendono per
l’ambizione di apparire poeti. Come sarebbe opportuno. Anche i falsi
editori
proliferano su questo. E i falsi
premi letterari.
8 - Non so
rispondere. So che la distribuzione è un problema un po’
dovunque. Ma se
l’editore è vero, i libri arrivano.Non ho mai
notato difficoltà, per me, fuori della norma.
9 - Ammettendo
che l’ipotesi sia verosimile, credo che prima gli chiederei di
rileggere la
poesia quattro volte, poi gli
spiegherei che il poeta non è in grado di dare spiegazioni (le
sue intenzioni
sono, appunto, solo intenzioni), infine tenterei
di convincerlo a darsi la spiegazione che ritiene più opportuno.
E’ lui il
lettore. (forse aggiungerei che entrambi
siamo in grado di riconoscere una mela, per esempio, ma non sapremo
come
spiegarla).
(13 aprile
1996)
2. Lamberto
Pignotti
1) Quel
genere
particolare di comunicazione che è la poesia dovrebbe dare
informazioni diverse
da quelle fornite dagli usuali
canali. In tal senso potrebbe operare uno scarto dalla norma –
esteticamente,
socialmente,ideologicamente…-
tra “reale” Bosnia con il suo contesto e la “martoriata” Bosnia messa
in iscena
dai mass media. Sta alla poesia
dire che l’immagine della realtà può non essere la
realtà dell’immagine.
– Tra l’altro: quanti ne ha uccisi il
cecchino, su commissione diretta o indiretta dell’operatore televisivo?
2) Poesia o
scienza? Entrambi lasciano il segno e non
sempre
univocamente, nella stessa direzione. Dei versi
possono spingere all’azione materiale; una formula, una scoperta,
un’invenzione
sono suscettibili di procurare
sensazioni ed emozioni estetiche.
3) Perché un
tema del genere – tragico come tantissimi altri che i notiziari ci
danno ogni
giorno – non dovrebbe costituire tema
di poesia? – Oppure la domanda sottintende che a una simile notizia il
poeta
dovrebbe ammutolirsi? –Oppure ancora:
come mai una notizia di questo tipo dà l’impressione – anche al
poeta – di
averla già sentita e risentita? Occhio
ai media!
4) Tra la fine
del Quattro e l’inizio del Cinquecento il poeta avrebbe preferito
essere
veicolato attraverso la scrittura manuale,
l’oralità o la stampa?
5) Nell’oceano
delle comunicazioni di massa che tendono a generare rumore, il
messaggio in
bottiglia, presto o tardi arriva
sempre. Ad ogni modo i “chiacchieratori” televisivi sono destinati alla
cassa
integrazione con la
diffusione dei messaggi interattivi e multimediali.
6) Questa
e molte altre, in ogni epoca, sono le cose che possono colpire il
poeta. In
fondo Dante è riuscito a rendere
interessante perfino l?inferno…
7) La questione
è complessa e anche ingombrante. Si potrebbe pensare a una sorta
di San
Vincenzo Editrice e rivolta
insieme a pubblicare autori meritevoli in edizione economica e
sostenere con i
diritti d’autore i gruppi
sociali meno abbienti.
8) Chi non ha
avuto qualche difficoltà per la pubblicazione e la distribuzione
delle proprie
opere? Anzi, la
faccenda è così penosa, generalmente, da indurre qualcuno
a tenersele nel
cassetto: Kafka insegna.
9) Dipende da
chi, da come, viene chiesta. Intanto va reputata legittima
l’interpretazione di
ogni lettore, a prescindere
dalle sue licenze , e non solo dell’autore. Il lettore però, con
la sua
richiesta, deve manifestare una sua forma
di collaborazione, anche parziale, altrimenti si rischia il classico
dialogo
fra sordi. Ma chi ha buoni
orecchi, intende: è lui che va assecondato, è a lui che
si possono dare in ogni
momento le istruzioni
per l’uso degli ultimi modelli di poesia.
aprile 1996
3.
Luciano Luisi
1- Temo
che le
mie risposte sembreranno, e forse lo sono, chiuse alla speranza che la
poesia
possa vere qualsiasi tipo di incidenza sulla vita, che scorre al di
fuori della
poesia ignorandola sempre più anche nella sua unica
“finalità” (ma mi
contraddico: perché sua sola finalità è la poesia
stessa) che dovrebbe essere
dualità, e leggere il mondo e in definitiva la vita. Ma mi
sembra una dorata
utopia, Credo, e la realtà me ne ha dato purtroppo conferma, che
neppure la
politica e la diplomazia che ne esprime le migliori intenzioni sia in
grado di
placare la bestia che è nell’uomo e che fa scoppiare delle
guerre così
sanguinose e stupide che hanno la sola spiegazione degli egoismi
più feroci,
delle ambizioni di potere che schiacciano ogni barlume di
umanità.
2- Sono certamente due “gruppi” (come li definisce la domanda) che
incidono
entrambi sulla cultura, ma il primo appartiene al mondo elitario
(sempre più
elitario) della poesia, il secondo invece ha operato
modificazioni
profonde sulla vita di tutti, anche se la maggior parte degli uomini
forse ne
ignora persino i nomi.
3- Accostarsi al “male di vivere” è un dato costante della
poesia e la
sua testimonianza ha, o dovrebbe avere, un alto valore etico grazie al
quale
qualche volta può entrare in sintonia con un lettore. Questa
misteriosa
sintonia (sopra tutto quando a veicolarla sono i valori estetici del
testo) è
il solo vero premio per il lavoro snervante e inesauribile di
rincorrere una
forma che appare agli occhi del poeta come un irraggiungibile
orizzonte.
4- Perché un “mio” volume? Il problema è quello di
inserirvi comunque la
poesia, e sarà sempre più difficile.
5- Il “grosso pubblico” ahimè, si.
6- Nessuno. Ma altissimo per chi sa ascoltarla . Ricordo che durante la
cerimonia di un premio Alfonso Gatto, con la sua voce tonante
gridò: “La
poesia è supremamente inutile!” – Ne aveva affermato così
la sua insostituibile
utilità.
7- Non è lecito. Ma perché i poeti sono disposti a
pagare?
8- Non credo dipenda solo dal divario Nord – Sud : questo, se mai,
riguarda la
possibilità di accedere a certi editori. La distribuzione
è sempre carente
perché le tirature pur sempre limitate ne impediscono una
capillare. Si aggiunga
a questo che i librai che ricevono libri di poesia raramente concedono
spazi
sui banconi. Per quanto riguarda la seconda parte della domanda
dirò che sin
dalla prima mia raccolta (Racconto e altri versi- Guanda 1949) non ho
avuto
difficoltà perché ho sempre trovato porte, anche
blasonate, che mi
si aprivano: non ho invece mai bussato a portoni che
probabilmente,
e anche per motivi che conosciamo, sarebbero rimasti chiusi.
9- Mi è capitato, ma molto raramente e forse perché
può essere giusto il giudizio
che Marabini dette, a nome della giuria del premio Pandolfo, e
cioè che
la “mia è una voce tra le più limpide della nostra
poesia”. Ma quando
qualcuno non capisce (e forse ha ragione perché la poesia
è comunque
sempre oscura) gli rileggo i versi cercando di far sentire sopra tutto
la
musica, che è ciò che più mi interessa, e ho
sempre potuto constatare che per
quella via si può giungere alla pienezza del godimento del
testo.
4.
Luciano Caruso
1- Il
segno
della poesia non può intervenire contro l’incapacità di
ascoltare. E’una
risposta della sensibilità offesa, che può o meno trovare
echi e consonanze
negli altri.
2- E’ ovvio che si tratta del secondo gruppo.
3- Cantandola, rendendola esemplare e assumendo il dolore
che c’è.
Ma a che serve?
4- Io ho praticato solo realtà marginali e
trasversali, così non
capisco il quesito. Se poi i nuovi strumenti richiedono nuove risposte,
anche
tecniche, si starà a vedere.
5- Il grosso pubblico, non so, se ascolta solo Baudo.
Quello che è
certo è che non ha mai ascoltato Montale, Ungaretti, e Quasimodo
o Eliot o
Omero o chi altri si vuole insieme nell’elenco.
6- Lo stesso valore che aveva prima, il che vuol dire molto
poco,
pressoché nullo.
7- Si tratta di un non-problema, o almeno formulato in
questi
termini. Pubblicarsi un libro di poesia a proprie spese ha un valore
narcisistico o voluttuario. Potremmo, allo stesso titolo, dedicare ai
non
abbienti le somme che si spendono per il sarto o l’auto nuova.
8- Avendo praticato solo circuiti marginali e minimi non ho
mai
incontrato difficoltà per i miei “volumi”. E in ogni caso la
distribuzione dei
volumi di poesia non esiste né al Nord né al Sud.
Semplicemente non c’è mercato
né curiosità al di fuori del ristretto cerchio degli
addetti ai lavori, che si
raggiungono solo con gli “omaggi”.
9- No. Non assecondo mai le richieste di interpretazione.
Non per
stupido orgoglio intellettuale, ma perché sono convinto che, una
volta
pubblicata, una poesia ammette varie interpretazioni e la mia vale
quella degli
altri.
Firenze, 04-03-1996
5.
Gesualdo Bufalino
Carissimo
Antonio Spagnuolo apprezzo vivamente la tua iniziativa, che mi sembra
lodevole
e da seguire nel tempo. Io resto sempre sconcertato di fronte ai
questionari,
ma questa volta avrei risposto, ma purtroppo non mi sento di
partecipare per la
gravosa età e le insidie della salute che mi costringono a
limitare i miei
impegni di scrittura al minimo indispensabile.
Un abbraccio e mille sinceri auguri
6.
Massimo Pamio
1-
Possiamo
intervenire clonando l’esperienza nostra del sentire, che privilegia
l’ascolto
delle voci di coloro che voce non hanno, delle melodie del silenzio,
dei suoni
di un mondo che va scomparendo.
2- Da bambino, interessato al moto universale e alle particelle
atomiche, avrei
voluto studiare per diventare fisico nucleare. Ora, da adulto, quando
mi
soffermo davanti a una siepe mi sovviene l’infinito, non mi piace
più
riflettere sulle leggi e sui congegni del creato, ma solo profondamente
inspirare.
3- E’ sempre più distratto il nostro mondo, che dimentica le
pinze nelle pance
dei pazienti, ed oblia albe e tramonti nei versi dei poeti e, alla
fine, tutto
e tutti dimentica ( è questa la tragedia arpia, l’onta
personale:la morte,
avvenga come avvenga).
4- L’accademico, il metropolitano underground, il cibernetico virtuale
appartengono a quei tipi di uomo che non vogliono ammettere la
sottigliezza
dello iato che separa la propria famiglia da quella delle scimmie.
Riuscire a
inserire tra questi anelli che non tengono un volume di poesia è
fin troppo
facile, e inutile, astuto e sventato: un atto di coraggio di cui
nessuno si
accorge.
5/6- Come è possibile intervenire con la poesia sulla
cancrena sociale?
Ce lo dicano (in televisione, magari, bandendo ogni pudore) Quasimodo,
Montale,
Baudo e Zichichi. Ci ammonisca Scalfaro, e ci perdoni il Papa per la
cancrena,
per il sociale e anche per quel che diciamo.
7- Gli editori non sono ricchi, ma ambirebbero ai capitali,
perciò chiedono, in
armonia col sistema oggi vigente in Italia, trenta denari tangenti in
cambio
d’una suppost(um)a fama editoriale. Allora, perché non versare
quelle monete ai
poveri, obbligandoli, in cambio, a leggere le nostre opere inedite?
8- Non trovo difficoltà, perché non mi frega niente
pubblicare. Preferisco i
miei tiretti alle edizioni Mondadori.
9- Se si tratta della passante boudelariana…se è carina, la
invito a casa mia,
per una spiegazione Inoltre ho una bella collezione di farfalle.
aprile 1996
7-
Franco Manescalchi
1- Negli
ultimi
quaranta anni abbiamo vissuto, storicamente, in una situazione
planetaria con
conflittualità periferica diffusa di due blocchi di potere
“malati” di
mundialismo. Ora, il mundialismo del potere è esattamente
l’opposto della
universalità del linguaggio poetico e del suo messaggio
intrinsecamente
liberatorio. L’incapacità di ascoltare è
perciò derivata da questa
contrapposizione surrettizia fra poesia e società. Dal
Politecnico alle
neoavanguardie per giungere agli anni 70, ovvero al Pubblico della
poesia, ance
in Italia abbiamo assistito al conflitto fra cultura del potere ed il
potere
sempre rimosso delle scritture creative. Il segno poetico spesso
ha solo
agito, talvolta ha anche reagito, pur rimanendo underground. Ed oggi la
questione si fa ancora più acuta, dal momento che il potere
economico politico
“fa orecchie da mercante”. Comunque, continuando ad “ascoltarci”
aumenteremo le
generali capacità di ascolto, nonostante tutto.
2- Poesia e scienza rappresentano, a mio avviso, un binomio
inscindibile.
Dubbio e ragione stanno alla base di una ricerca alla fine
comune. E’
molto difficile distinguere fra “l’atomo opaco del male” di Pascoli ed
il senso
del mistero di Einstein, se non per l’implicazione etica del primo e
l’oggettività linguistica del secondo, che pure lascia spazio
alla poesia.
Infine i segni dell’uomo sono indelebilmente precari…
3- La poesia è sempre tragica, sino al momento in cui Marsia
subì “il divieto
della Dea”, e dunque nasce per contrasto; ma lo è doppiamente
nello stato di
emarginazione di cui si è scritto sopra. E tutto
ciò, l’atteggiamento
“impoetico” di chi gestisce ogni forma di potere, primo fra tutti chi
può
decidere della vita degli altri, è “avvisato”, senza appello,
dal suo stesso
atto, per il suo stesso atto, oltre ogni civile (o incivile)
“garanzia”. Ancora
una volta “l’incapacità di ascoltare”, che in fase
prelinguistica è in tutti
un’opinione, non può non essere assolta per insufficienza di
prove: è la più
atroce e la più tragica. Le scritture creative non
emergono dalla
trattazione di temi ma dal trovarsi in re, nei problemi
4- I libri di poesia sono letti da pochi e scritti da molti:
l’underground ne
pullula, la cultura accademica non “li vede”, internet ne accentua la
separatezza. Negli anni 70 si era tentata la diffusione orale, dei
recitals…che
fare? (Non è una citazione). Il Giusti scrisse : “il fare
un libro è meno
che niente,/ se il libro fatto non rifà la gente”. Il fare
dunque? Il
poièin? E la gente? Ma non è più quel tempo, siamo
Giusti. Anzi, non lo siamo.
Potremmo provare ad “inserire” il libro sul comodino fra il montaliano
“cane di
legno” e la confezione del Tavor. Chi sa che non funzioni…rimane oscuro
il
rapporto fra il libro (nostro) ed il comodino (di chi?).
5- Procediamo per stilemi cari al “grosso pubblico”: Quasimodo: “Alle
fronde
dei salici”, Ungaretti: “M’illumino d’immenso”, Montale: “Meriggiare
pallido e
assorto”. Sono versi memorabili di cui, talvolta, si appropria
anche la
pubblicità: “M’illumino di Vienna”, per fare una citazione. Una
volta spesso si
viaggiava a piedi e si scandivano, così, “i piedi” dei
versi. Da Nietsche
a Sbarbaro, da Papini a Campana, da Rebora a…, il pensiero poetante
rappresentava una forma di/del movimento. A livello popolare il “poeta”
era il
cantastorie che andava da un posto a l’altro, senza una meta fissa.
Poi, il
“grosso pubblico”, alla fine degli anni 50, ha perso l’uso dei piedi,
ha preso
ad andare in B/audo. Prima in B/audo minuscole. Ricordiamo la carica
delle 500.
al mare, ai monti. Dannunziani apprendisti stregoni andavano al mare,
edonisticamente,
a “cavallo”. E poi B/audo anche Zizhichi (chi?), Scalfaro (un faro!). E
gli
addetti ai lavori?
6- Il valore della poesia sta nel segno, il valore del segno sta nella
poesia,
il segno è un valore poetico che in un clima confuso di
“creatività diffusa” è
più necessario, perché non solo estetico, come sono
invece le “labbra al
silicone”. La questione sta a monte. Che dire della crisi di
identità, una
sorta di “Alzheimer” da virus berlusconiano. Anagramma: Silvio
Berlusconi = il
viso in burlesco. Ma è anch’essa, involontariamente, una
maschera tragica, una
malattia precoce o senile. Il segno è tutto. Di- segni, di –
sogni.
Ricominciamo dai “graffami”. Siamo creativi.
7- Ritorna l’idea del libro, di librificazione, di oggetto edito
da
stampatori privi di status editoriale, di editori che aprono anche
collane a
“scopo di lucro”. La questione fu affrontata anche dal SNS e dalla SIAE
ed in
effetti va considerata in modo oggettivo. Per la stragrande maggioranza
dei
casi la soluzione di devolvere i contributi economici in beneficenza
non
sarebbe sbagliata. Soccorre ancora il Giusti: “Un tal Neri ha stampati/
i suoi
Pensier staccati:/ consiglierei piuttosto il signor Neri/ a
volersi
staccar da’ i suoi pensieri”. Ma nessuno garantisce che il denaro
risparmiato
da tale investimento poetico non finisca poi per mettere benzina nel
motore di
B/audo o anche peggio (meglio un poeta mancato che un… B/audista della
macchina
berlusconiana. Gli estremi si toccano). Per altri pochi può
essere un primo
passo verso la poesia. Va infine detto che “i gruppi sociali meno
abbienti”
hanno fame di tutto, non ultimo di poesia. Può essere che ci si
debba ritrovare
tutti insieme, con uso di parola, in una pacifica “veglia d’armi”.
8- Certamente un piccolo editore del nord, per la sua stessa
collocazione, ha
qualche possibilità in più nella distribuzione di un
libro. La situazione non
cambia molto, ma nei limiti delle basse tirature che solitamente si
effettuano,
ciò può risultare sostanziale.
9- Tengo da oltre quindici anni corsi di scrittura creativa per
l’Università
del tempo libero anche a “uomini della strada” che non comprendono
l’intero
assetto di un testo poetico. Abbiamo in comune, io e loro, il desiderio
incluso
nell’anagramma “apro la –parola”. Ci accomuna, inoltre,la
necessità di vivere
nella polis senza essere sbranati dalla sfinge, di sciogliere gli
enigmi che
sono dentro l’uomo, contro l’uomo. La poesia non è un codice
socialmente
vincente, eppure…
(aprile 1996)
8.
Franco Cavallo
1- Le
possibilità di intervento della poesia sul reale sono sempre
state scarse,
mentre l’incapacità di ascoltare rimane ancora tanta: alla fine
alla poesia non
resta che piangere sulla propria impotenza. La poesia – l’arte in
generale –
non evita le guerre (non solo non ha evitato la seconda guerra mondiale
e
quella della Bosnia, ma non ha evitato neppure quella di Troia). Il
segno della
poesia può al massimo, “rappresentare”, è il suo
compito quasi naturale-
il dolore o la morte, la sofferenza o il sopruso, la violenza nei
confronti dei
più deboli e la miseria degli oppressi- , o antivedere. Il segno
della poesia
è circolare: ritorna sempre su se stesso, come su loro
stesse ritornano
sempre la vita e la storia, anche quando vi sono cambiamenti epocali in
atto.
Conferire alla poesia un potere che non ha mai avuto e che non
potrà mai avere
è il modo peggiore di servire la poesia: non solo, ma è
anche il modo peggiore
di rapportarsi alla tragedia, o alle varie tragedie, che sconvolgono il
mondo.
2- I “segni indelebili” li lasciano soltanto i grandi
spiriti:
artisti o scienziati, non fa alcuna differenza . e anche in questo caso
le loro
opere sono segnate dal tempo storico, e quindi anch’esse sono destinate
a
subire l’usura delle stagioni. Dopo Pascoli viene Montale, dopo
Einstein…
3- esiste un solo modo di accostarsi alla tragedia: rappresentandola,
se se ne
è capaci (c’è chi sostiene che la tragedia è nata
e morta nell’età classica, e
che l’uomo attuale non sappia più rappresentarla). La
pietà o la solidarietà
sono sentimenti encomiabili, ma da soli non producono poesia.
4- Neanche a parlarne. Ci ho provato più volte (ci ho provato
più volte?), ma è
stato sempre un fisco.
5- Mi sembra che la domanda contenga già in se la risposta.
Finché la
situazione rimarrà quella attuale, il rapporto tra
Ungaretti e Baudo (per
Scalfaro va già un po’ meglio: le sue lunghissime sciarpe
compaiono piuttosto
di frequente in televisione; anche per Zichichi non va male, visto che,
nonostante l’avviso di garanzia, continua a tenere rubriche di
divulgazione
scientifica, sempre in televisione…) rimarrà da dieci a dieci
milioni.
6- Lo stesso valore che hanno il circo equestre o il tiro con l’arco.
Ma grazie
a Dio, ci sono ancora (forse ci saranno sempre) persone che seguono
quel tipo
di spettacolo o che non sono appassionate a quel particolare sport.
Tutto sta a
trovare uno sponsor che li aiuti a diventare più popolari.
7- Non so se sia lecito chiedere a un poeta somme enormi per pubblicare
i suoi
versi. Forse lo è, dal momento che vi sono poeti disposti a
sborsarle.
L’importante , in questo caso, e che vengano assolti tutti gli obblighi
fiscali
(con il fisco, oggi, non si scherza!).
8- Che esiste un divario tra Nord e Sud anche nell’ambito editoriale (
e non
soltanto in quello) per quanto riguarda la diffusione della poesia,
è un fatto
ineluttabile. Ma si tratta, in ogni caso, di un fenomeno irrilevante,
dal
momento che anche i poeti più fortunati che pubblicano i loro
libri con i
cosiddetti grandi editori, nella società attuale son poco
più che i fantasmi. C’è
chi riesce a fare il fantasma gratuitamente e chi, invece, è
costretto a
finanziarsi da solo questo hobby. Quanto alle “difficoltà
personali”, le
ho risolte pubblicando, quando posso, i libri a mie spese (a essere un
fantasma
in proprio, cioè). Quando nel 1969Guanda inaugurò con il
mio “Fétiche” la
“piccola Fenice degli italiani”, ricevetti un anticipo di centomila
lire. Erano
altri tempi. Oggi i miei libri di poesia non hanno quasi mai un
prezzo
sulla quarta di copertina.
9- Non mi risulta che “un uomo della strada” (magari!) abbia mai letto
un mio
verso o che abbia dimostrato il benché minimo interesse
per una mia
poesia (penso che la stessa cosa potrebbero dire tutti i poeti
interpellati: il
distacco tra poesia e lettore si va facendo sempre più
incolmabile). Se un
giorno ciò dovesse avvenire (ma ritengo l’evento poco
probabile),
cercherei di essere molto paziente e gentile con lui. Nessun
atteggiamento “en
artiste” , ci mancherebbe altro. In fin dei conti, nessuno lo
obbligherebbe a
starmi a sentire.
(maggio 1996)
9.
Carmine Di Biase
1- Credo
con
maggiore appello all’interiorità: quelle “parole del silenzio”,
nelle quali è
il segreto di ogni vera poesia. Le parole di Manzoni, verso la fine
della sua
vita, a Rosmini : “Tacere, adorare, godere”. Troppa confusione, oggi,
nei
linguaggi, con il rischio dello svuotamento della parola. Perché
la Parola non
riesce più- tranne rari casi: penso a Mario Luzi e Luigi
Cantucci – ad esprimere
l’interiore delle cose. Parola, come umanazione del Verbo. Che richiede
capacità di ascolto ossia silenzio interiore, nell’infinito
abuso delle parole
o dei mezzi di comunicazione oggi. Spesso senza anima, senza pensiero.
A volte
anche all’interno della parola religiosa. Forse la Chiesa stessa, la
Poesia,
l’umanità è chiamata, oggi, al manzoniano “silenzio
amico”. Credo che su questa
strada la Poesia possa ritrovare il senso di una nuova “comunione” e,
quindi,
di ascolto: non solo nel terrore della violenza a tutti i livelli, ma
nei
rapporti del quotidiano.
2- Credo che entrambi le dimensioni, quella della poesia e quella della
scienza, abbiano lasciato un solco indelebile nelle coscienze: penso
alla
poesia di Pascoli, o alle scoperte di Einstein, o alla scienza
dell’inconscio
di Freud. La poesia può trovare nelle nuove forme del linguaggio
scientifico
nuova espressione: la sua “durata” – il segno “indelebile” – dipende
dalla sua
autenticità. Le rivoluzioni scientifiche – comprese quelle
dell’inconscio – possono
essere una risposta a quelle nuove forme della poesia, che si
ritrovano,
appunto, in poeti come D’Annunzio o Montale (quest’ultimo, nel
centenario della
nascita: 1896-1996). Nella scoperta di un nuovo modo di far poesia.
3- Poesia e tragedia, spesso vanno insieme: poesia non è
astrazione o
disincanto, ma partecipazione al dolore dell’essere: penso a
Leopardi, a
Borges.
4- Da giovane ho scritto, in segreto, delle poesie: ormai perdute. Ora
non è
più tempo. Non so scrivere in poesia.
5- Può darsi: e tuttavia – proprio incidendo con le manzoniane
“parole del
silenzio”, quelle vere, riflesso delle parole interiori, ossia della
Parola- si
può incidere anche sul cosiddette “grosso pubblico”. Che poi non
è così
“grossolano” come si pensa. Non è questione di “audience” o
“share”: ma di
autenticità. La parola, quando è autentica, quando
è vera poesia, incide. Si
diffonde anche nella solitudine o nella infinita confusione dei
linguaggi,
oggi: visivi e non.
6- Ha valore, se è poesia vera: sempre, anche- o forse
soprattutto- nel male e
nel dolore dell’individuo e della storia. Compresa quella delle
manipolazioni
della scienza contemporanea, a volte contro l’uomo.
7- Credo che la poesia debba continuare per la sua strada: un cammino
solitario
ma che ha una sua meta e funzione nel sociale. E può giovare
all’umanità
8- Mi interesso di saggistica e critica letteraria: i miei primi volumi
li ho
stampati tutti a mie spese: ora tra adozioni e recensioni, in qualche
modo ce
la faccio. In seguito vedrò.
9- Non sono poeta: comunque se un uomo della strada mi chiedesse
spiegazioni
sul mio lavoro letterario, cercherei di darle, assecondando la
richiesta. Ma
interrogandomi: il segreto di uno scritto- poetico e non- per me
è nella
chiarezza e semplicità, che richiede profondità (Deus
simplex). E’ la mia
aspirazione di sempre.
(maggio 1996)
10.
Angelo Lippo
La
poesia non
si domanda, malvolentieri si interroga, preferisce piuttosto svolgersi,
dipanarsi nel cielo delle illuminazioni e delle riflessioni.
L’istanza si appanna nel fiato del quotidiano, per cui l’insistenza con
la
quale ci si trova nella querelle finisce per appiattire la
lungimiranza,
l’estasi del dire e del fare poiesis.
C’è una incapacità recondita e significante che balza
netta delle caverne
dell’intuizione, dalla terra arata della creatività, con
dislivelli che si
distendono come fianchi di femmine.
La ricerca è intasata dalla pressione, dall’urgenza di
manifestare ad ogni
modo, anche quando non risarebbe motivo alcuno per farlo, anzi
occorrerebbe
esattamente il contrario.
Il silenzio.
C’è sempre chi si attarda dietro la siepe del tempo e scarica la
sua
mitragliatrice di idee, di pensieri, di emozioni, di sensazioni,
ignorando
aprioristicamente il fervore situato nelle pieghe del vento.
Forse.
Una tantum necessita lasciarsi andare, far vibrare le corde, non
appisolarsi ai
rami dei cedri, aspettando che la salsedine del solleone roda i tarli
della
memoria e gli aquiloni del futuro.
Forse.
Al di la e al di sopra di tutto, degli spazi siderali, delle
voluttà inconsce
che si annidano all’interno di ognuno, resiste la smania di lucidare a
nuovo i
tappeti dell’esistenza, da offrirsi nudi al palpito della intelligenza.
E così l’ormai dimenticato “matto del paese” si trascina nelle
interrogazioni,
spesso infruibili e prive di uno sbocco verso gli oceani della vita.
E nasce il trivio fra cultura accademica, underground e internet: la
pagina non
sa dove collocarsi, perché e come. La virulenza delle immagini
non si pone
ultimatum, tutt’altro; i mass media sfornano a getto continuo,
assillante,
proposte (in)decenti, dove i vip fanno a gara per non riconoscersi, per
oltraggiare le proprie coscienze.
Cosa può poiesis in un mondo che si “altera” che si “gonfia” e
si “sgonfia”,
che si “compiace di manipolazioni”, insomma è proprio necessario
che questa
creatura si misuri lungo le altezze di superbe cime?
Gli abissi allora si spalancano a dismisura, e la piccola pianticella
rammemora
la brina del mattino, la luce ferita del sole di mezzogiorno, la
assopita
carezza di uno spicchio di luna che alimenta dietro i vetri i sogni
secolari.
E’ questo il suo “valore”, oppure l’altro, quello di aprire le porte
alle
“funzioni”, alle “casseforti” della Storia, ai “contesti” in cui si
è mossa,
prima, ora, e come si muoverà domani.
La pazienza diviene sempre meno attenta, e allora c’è il rischio
– non
improbabile e neppure immotivato – che divenga (in)pazienza.
Davanti, sempre, quell’ “in”.
Insomma “luogo dell’essere”, “buco della ragione”, e così a
snocciolare le
definizioni, le interpretazioni, assiomi, dogmi.
Nessuno se la sente di definire, di concludere il “patto di sangue”,
ognuno
preferisce e opta per l’ “assenza”, quindi una IN-presenza, sofferta e
coltivata nei reticoli del tempo e della società.
Una società che si dice civile, che ignora però il
traffico clandestino degli
affamati che non possono mangiare, eppure lo desiderano, lo reclamano a
viva
voce. Così la parola passa inessenziale, presenza non gradita
nelle albe dei
giorni, imperscrutabile e perciò stesso più vivibile del
momento che ci
troviamo di fronte a qualcosa di sconosciuto.
La sua stessa (in)coscienza è la strada migliore per capire, per
afferrare a
tutto tondo il fiato lungo che si snoda sui prati dell’esistenza. E
l’inatteso
si somma, si moltiplica e “distribuisce” la sua ricchezza ovunque.
Il territorio è Altrove. I “passi perduti” si riconciliano. Non
importa se a
muoversi è il professore o il contadino, la media borghesia, la
verità è dentro
la ragione di quell’Altrove.
La recita si sviluppa dentro e oltre, ma è proprio allora
che Narciso
spezza la sua immagine nelle acque melmose, frantumandola, tentando di
specchiarsi Altrove. Il bisogno lo spinge a rifiutarsi, ad annullare la
timbratura dei secoli, passando dall’Ufficio dell’inutile a quello
dell’Essere,
un calco a ceralacca dove il sigillo è la parola frenetica, lo
stormire dei
pensieri nell’improbabilità del Giorno.
Concludiamo? No, neppure per niente. E “buon sia” per i posteri.
Taranto 17 marzo 1996.
11.
Dante Maffia
1- Se
non
ricordo male, in uno dei suoi libri memorabili, Elias Canetti scrisse
che se la
poesia servisse a qualcosa dovrebbe essere in grado di fermare la
guerra.
Eravamo in prossimità del secondo conflitto mondiale. Ho
pensato molto e
spesso alla frase di Canetti e mi sono alla fine convinto che il senso
della
poesia è proprio quello di non farsi ascoltare. Non c’è
perciò da intervenire
in alcun modo, non sono gli altri incapaci di farsi ascoltare ma
è la natura
della poesia che è contro qualsiasi forma di comunicazione, tout
court. E poi
la poesia si fa, non si legge!
2- La poesia a fronte della scienza. È un antico ritornello
irrisolvibile.
Certo, quando si parla di chi ha fatto grande un paese si citano
Goethe,
Shakespeare, Dante e quasi mai gli scienziati; questo accade
perché Keplero,
Newton, Marconi, Freud e Einstein sono appena un anello della infinita
catena
dell’evolversi della materia, seppure attraverso l’intelletto e lo
spirito, e
invece gli artisti sono un sospiro (della materia e dell’antimateria)
senza
tempo e senza spazio. Naturalmente si può dire ciò e il
contrario di ciò o cose
simili. Forse il segno indelebile non lo lascia nessuno: “a pensar come
tutto
al mondo passa/ e quasi orma non lascia”.
3- La poesia può accostarsi a una tragedia, quale che sia,
riuscendo a cogliere
nella tragedia quel che v’è di perenne nell’errore, nella
malvagità e nel
dolore e a renderlo motivo di canto. Ma poi chi usufruirà di
questo canto, di
questo avviso? Nessuno, come ho detto nella prima risposta.
4- Un volume di poesie può inserirsi ovunque e bisogna fare
l’inserimento ogni
volta che capita l’occasione. Può darsi che un ingranaggio
impazzisca…io credo
molto nell’errore, nella causalità.
5- Perché un poeta dovrebbe porsi domande simili? Fra qualche
tempo nessuno
saprà più distinguere tra un cantante e un calciatore,
tra un poeta e un
presentatore televisivo. Lo dico senza tristezza, ne prendo atto. Del
resto mai
nessuno ha saputo, anche nei tempi passati, perché bisognava
leggere un poeta.
Non è cambiato nulla, l’uomo è ancora, aveva ragione
Quasimodo, quello della
fionda e della pietra.
6- Forse un valore consolatorio. È evidente che mi riferisco a
chi scrive
poesie e non a chi le legge. E poi, c’è veramente qualcuno che
le legge? I
filologi, ma quelli sono mendicanti di accenti, di fonemi, di
apostrofi.
7- È un rapporto talmente privato quello delle case editrici che
chiedono somme
di denaro agli autori che parlarne significherebbe emettere un giudizio
morale
laddove interviene soltanto e semplicemente la libertà
individuale.
Personalmente, lo sanno tutti, io penso che ognuno si gestisce come
più gli
aggrada, a patto poi di non pretendere, come un mio amico analfabeta,
di essere
insignito del Nobel.
8- I più caustici epigrammisti del nostro secolo hanno sempre
affermato che non
v’è opera più inedita del libro di poesie edito. Tuttavia
io non ho mai
incontrato difficoltà per i miei volumi; so però d’essere
stato fortunato.
9- Se un uomo della strada legge una mia poesia e poi mi domanda una
spiegazione qualsiasi io gli rispondo che sta perdendo il suo tempo e
gli
consiglio di pensare ad altro: la poesia, se qualche volta si rivolge a
qualcuno lo fa verso le anime che non pretendono e non hanno bisogno di
spiegazioni. E poi, perché un uomo della strada dovrebbe leggere
una poesia,
mia o di altri? Per ordine del medico curante?
aprile 1996
12.
Giuseppe Napolitano
È
provocatorio
il tono generale di queste tue domande (?): bisogna dunque rispondere
in modo
altrettanto provocatorio, anche perché non si riduca questa tua
lodevole
inchiesta al solito scambio di bolle pontificali da "poeti laureati"…
Pontificano sull'inesistente i poeti laureati.
Risponderanno davvero tutti gli invitati a questa indagine? e
leggeranno poi le
risposte degli altri? io sì - per correttezza e curiosità
- ma ho paura che
Qualcuno (la maiuscola se la mette da solo) non si degni di conoscere
il parere
dei minus habentes. Se quindi plaudo all'iniziativa, ho pure la
sensazione che
pochi applaudiranno me - né avranno a dolersene.
Che senso ha chiedersi (ancora, o proprio ora) chi provochi maggior
risonanza
fra Carducci e Marconi? Quale sia il ruolo della poesia, della parola,
nell'epoca dell'immagine; quale potere abbia la carta stampata a
pagamento
contro coloro che sono pagati per convincerci a non leggere (tanto
bastano
loro, con le loro telefandonie, per mandarci a dormire più
rilassati)?
D'altronde, non volendo scomodare le più trite riflessioni sulla
missione
dell'artista, sull'esigenza interiore di comunicare comunque, di darsi
per
amore del prossimo anche al prossimo che non comprende, in attesa di
una
conversione di massa che non ci sarà... proviamo in qualche
maniera a dire (non
soltanto a dirci!) parole che sappiano di parola, che siano lievito,
che facciano
crescere.
1 -
Carducci,
Pascoli, d'Annunzio / Freud, Marconi, Einstein: in questi due gruppi
sembra si
possano scorgere due maniere di incidere nella cultura, ma chi lascia
un segno
indelebile?
Se c'è una sola Cultura, tutti lasciano il proprio segno, tutti
quelli che
lavorano per la Cultura. Se le culture sono diverse (ma almeno
contribuiscono
in vario modo a costituire la Cultura) il discorso rimane ancora
valido. Se
infine la cultura è il bene privato che il singolo custodisce e
coltiva, allora
forse - ma forse è un po' di parte - la poesia lascia un segno
dentro che non
alterano o cancellano le scoperte scientifiche. È più
immediato comprendere il
bene fatto da Marconi all'umanità con le sue scoperte, ma
è più umano scoprire
l'intimità che ci accomuna alla sofferta denuncia del male
trasmessa dal
fanciullino pascoliano. La relatività di Einstein mi fa capire
che il tempo non
passa, ma è d'Annunzio a farmi uscire - virtualmente, si direbbe
oggi - dal
tempo, con la sua "favola bella"... e lo preferisco (ma era una
risposta così personale che volevi?).
2 - Tra
la
cultura accademica e la cultura underground ed internet: riusciresti ad
inserire un tuo volume di poesie?
Aspettarsi l'interessamento della cultura accademica per un autore
eclettico e
periferico qual io sono (e ostinato a rimanerlo proprio per non essere
etichettato come accademico), è per lo meno futile. So di
stimati critici che
hanno i miei lavori sui loro scaffali - e sanno di averli - ma non
trovano il
tempo di leggerli (salvo lodevoli eccezioni). Probabilmente
l'informatica è il
nuovo underground: fuori dalle cantine della pseudo avanguardia, che ha
finito
per lamentarsi con se stessa, si può entrare in ogni casa, si
possono creare
circuiti privati di comunicazione e farsi conoscere, per di più
in tempo reale
e senza intermediari, da un potenziale 'grosso pubblico'. E' da
pensarci
davvero!
3 -
Dalla
seconda guerra mondiale alla Bosnia e Cecenia: come potremmo
interferire con il
segno della poesia contro l'incapacità di ascoltare?
Non è tempo di lamentazioni, ma è sicuro che tocchi
sempre all'arte sollevare
il velo, scrostare il muro dell'indifferenza? Ascolta chi ha orecchie
per
intendere, e intendere non può chi non prova... Educare,
piuttosto, bisogna,
fin da piccoli, alla parola (a leggerla e ad ascoltarla), in famiglia,
a
scuola: questo sarebbe un rimetodo, anche per rompere il perfido
dominio
dell'industria massmediatica alla quale importa vendere prodotti
scadenti
purché, appunto, di massa. Bisogna insistere. Se riusciremo a
convincere i
piccoli lettori che si cresce in autonomia solo leggendo e rendendosi
conto dei
mille modi in cui è stata detta e ancora si può dire
l'espressione più comune:
ti voglio bene! Non sarà facile invece convincere a leggere
poesia gli
integralisti o i kamikaze islamici, né i venditori di armi che
vivono della
morte procurata: è del poeta però ancora il compito di
testimoniare -
improduttivo forse nel breve tempo, ma certamente (com'e sempre stato)
portatore di luce futura - qualcuno, un giorno, leggerà,
saprà, capirà. Sempre
meno, ma è ancora possibile.
4 -
"Diciotto anni: muore di parto - avviso al ginecologo": come può
accostarsi la poesia ad una tragedia?
Nella poesia del nostro mondo è già la tragedia del
quotidiano assistere senza
poter intervenire. Che altro, se non, come appena detto nella risposta
precedente, testimoniare una presenza che sia frutto da cogliere per
coloro che
verranno? Inutile pertanto chiedersi come intervenire nei drammi
comuni: a chi
interessa leggere di un dramma non suo? il poeta è nei drammi di
tutti, anche
se detto così può sembrare una boutade o una scappatoia -
ma una parola
espressa vale solo in quanto lo è, o ha bisogno di essere
letta, capita,
metabolizzata...
Povere le parole del poeta, se non leggono cuori:
io credo nella parola quando è lievito.
Voce d'uomo per l'uomo, ma forse di uomini ce ne sono sempre meno e
sempre meno
disposti ad ascoltare voci d'uomo.
5 -
1950/2000.
Quasimodo, Ungaretti, Montale / Baudo, Zichichi, Scalfaro; ancora un
confronto
che non tocca gli addetti ai lavori; ma il grosso pubblico dà
ascolto soltanto
a Baudo?
Sembra pure banale, ma il problema è come raggiungerlo il
cosiddetto grosso
pubblico. Forse il grosso pubblico leggeva l'odi et amo e il carpe
diem? eppure
nei millenni avvenire quella poesia ha avuto il grosso del pubblico.
Forse fra
cento anni pochi ricorderanno Baudo e lo stesso Scalfaro,
chissà, Zichichi…
Inutile credere e predicare che ci sia una richiesta di poesia, se non
ci
inventiamo la poesia multimediale, se chi crede di scriverla non
comincia anche
a leggerla, se non offriamo agli studenti un'immagine meno
convenzionale del
poeta, dai classici ai nostri contemporanei... La parola del poeta non
ha
comunque bisogno del grosso pubblico, ma si contenta di esistere e
rimanere - è
una battuta, ma bisogna piuttosto che sia grossa la poesia: il
pubblico, quello
vero, modesto ma che dura, verrà.
6 -
Quale
valore può avere la poesia in un contesto sociale che è
protagonista di
"labbra e seni al silicone", di "uteri in affitto", di "manipolazioni
genetiche", di "Alzheimer sempre più diffuso"?
Non ci casco anche se so che la risposta giusta è… la poesia
dovrebbe
recuperare i valori di genuina umanità e il poeta non dovrebbe
sporcarsi le
mani e nemmeno la bocca partecipando al bla bla di moda (neppure se lo
chiama
Costanzo in tv). Ma... Certo le tette siliconate delle nostre
maggiorate
fasulle non saranno degne di bagnarsi nelle "chiare fresche e dolci
acque" nelle quali "l'angelico seno" di Laura ispirava ben altri
sentimenti che le sconce voglie nascenti da certe giacche aperte a
mostrare
preziosa lingérie... Non ho mai scritto una poesia per la
Parietti o la
Dellera... ma non ho paura delle manipolazioni genetiche: sono tutte
(anche la
Parietti e la Dellera, in certa 'misura') frutto della scienza, e la
scienza è
progresso, è l'uomo che cresce. La poesia pure, anzi, ha
cominciato ad essere
manipolata già da un bel po', e gonfiata e affittata (e per la
mia vecchia idea
che la poesia è 'maschia', in quanto seme che feconda, sono
proprio convinto
che il suo 'utero in affitto' sia la mente del lettore). Tutta la
retorica,
comunque, è chirurgia della parola - e solo per non fare
pubblicità
probabilmente nemmeno desiderata conviene tacere dei tanti che nel
tessuto
linguistico operano da tempo e con successo col bisturi del proprio
codice
espressivo.
7 - Nel
divario
di potere editoriale Nord-Sud cade anche la distribuzione del volume
pubblicato. Hai trovato qualche difficoltà nel passato ed ancor
oggi per i tuoi
volumi?
Non credo in ogni caso che si tratti solo di potere editoriale, anche
se mi
dispiace ammetterlo, come sudista orgoglioso figlio della Magna Grecia:
al Nord
si legge e si compra di più. Io, sarà che sono
sfortunato, ho pubblicato al
Nord e al Sud, con piccole/medie case editrici che non mi hanno
assistito
molto. Di qua e di là dall'Oceano, diceva il buon Orazio, i
librai si
arricchiscono se fiutano l'affare editoriale: un libro si distribuisce
se si
vende. Quanto vende (e rende) un volume di versi? Reggerà anche
la scommessa mondadoriana
dei Miti, se invece di Ungaretti e Dickinson proporranno Accrocca e
Rosselli?
Un noto editore del Sud, rifiutandomi gentilmente la pubblicazione in
una
collana scolastica delle mie traduzioni dai lirici greci, osservava:
"professo', ma gli alunni vostri se lo comprerebbero il vostro
libro?" (dovetti rispondergli: no).
8 -
Moltissime
case editrici chiedono al poeta enormi somme per la pubblicazione di un
volume
E' lecito? Se versassimo tali somme a gruppi sociali meno abbienti?
Alcuni di
essi sono lontani un miglio dagli interessi poetici perché
afflitti dalla fame,
ma nascondono anche dei valori e dei sentimenti inattesi.
Ogni sfizio ha il suo prezzo: chi se lo vuole togliere, sa che deve
pagare.
Sarebbe più interessante, ma sarebbe un altro discorso, quello
della promozione
dei meritevoli, scelti poi da chi e pubblicati da quale coraggioso
editore?
Ogni tanto mi chiedo - ripensando a quel noto critico che mi invitava a
lavorare in eremitaggio - quale sia la funzione del critico, se non
quella di scoprire,
e proporre alle case editrici, gli autori da pubblicare, da leggere
(invece di
continuare a reclamizzare quelli già letti, che comunque si
leggono e
vendono... ah, già, vendono, quindi convengono, eccetera). Il
problema degli
affamati che non hanno interessi poetici è alquanto ambiguo - o
mal posto in
questo caso: non è che il poeta possa materialmente avere il
compito di sfamare
i poveracci (pur essendo io convinto dei loro sentimenti
rispettabilissimi)...
Riuscisse almeno a soddisfare gli appetiti intellettuali e i bisogni
spirituali
di chi gli è più vicino. Sarò ancora un po'
elitario, ma non credo che,
devolvendo ai poveri le decine di milioni spese in un quarto di secolo
per
pubblicare i miei libri e per leggere quelli degli altri, avrei risolto
realmente qualche problema sociale in più. Mi basta - se ce l'ho
fatta - aver
sollevato ogni tanto qualcuno dalle sue pene esistenziali.
9 - Un
uomo
della strada che ha letto una tua poesia te ne chiede una semplice
spiegazione:
come reagisci?
E' l'ovvia appendice della risposta alla domanda precedente. Magari
fosse
davvero l'uomo della strada a chiedermi seriamente spiegazioni di una
mia cosa!
Significherebbe che l'uomo della strada legge poesia; legge la mia
poesia...
Non importa comunque molto chi e perché mi legga: scrivo,
continuo a scrivere
perché sono convinto che la mia esperienza esistenziale e il
modo in cui ne
parlo possano rivelarsi altrui. Scrivo con la presunzione di essere
utile, a
chiunque abbia voglia e coraggio di misurarsi con se stesso, con la sua
voce:
in me, nel mio vivere, nel mio dirglielo, deve trovarsi, riconoscersi -
se è di
strada o di salotto, è pressoché indifferente, per
quanto, considerato il mio
modo di scrivere, è più probabile che mi comprenda uno
che abbia già letto altre
cose.
In conclusione, con un pizzico di polemica ironia: interroghiamoci pure
tutti
insieme e facciamoci portavoce presso il pubblico delle lettere di
queste
nostre risposte, utili segnaposto per capire chi siamo, ma non
facciamoci
spaventare da uno specchio che va diventando altro da quello che
vorremmo: noi
saremo comunque il saltimbanco dell'animaccia loro (che lo vogliano o
no).
Gaeta, 19 marzo 1996
("malinconie di sangiuseppe")
13
Gio Ferri
1- Salvo
rarissime fortunate eccezioni storicamente individuabili (esempio
classico:
Majakovskij e la rivoluzione russa), la poesia – essenzialmente
prodotto
“inutile” dell’intelligenza – non può avere alcuna influenza
“diretta” sulle
vicende collettive e politiche, per le quali van meglio ovviamente la
pubblicistica
politica, l’azione concreta eversiva, di resistenza o umanitaria.
Grande invece
può essere la presenza “indiretta” della poesia sulle vicende
del mondo. La
poesia rivoluziona i linguaggi manieristici e oppressivi, e un popolo
(ma,
oggi, dov’è?) che partecipasse a una tradizione di “grande
poesia” (e, nel
complesso, di grande cultura) sarebbe un popolo “moralmente forte”. Ma
anche in
questo caso non mancano le eccezioni e le strumentalizzazioni: si pensi
a
Wagner e all’uso che ne fece il nazismo. Conclusione: lasciamo che la
poesia
“pensi a se stessa” e i pochi uomini che la leggeranno “saranno
sicuramente
diversi”.
2- Poeti, filosofi e scienziati lasciano tutti segni indelebili. I
poeti e i
filosofi li lasciano silenziosamente e sotterraneamente, e la loro
“parola” non
muore mai. Gli scienziati li lasciano immediatamente, o quasi,
esaurendo nelle
tecnologie prammatiche la carica eversiva delle loro idee e delle loro
scoperte
(sempre parziali e temporanee).
3- La poesia si accosta alla tragedia come “crisi”, proponendosi
“totalmente”
nella sua specificità di “perpetua parola di crisi”. Il fatto
scatenante varrà
solo come “pre-testo”.
4- Accademia, underground e internet, e quant’altro, forniscono solo
mezzi
diversi di comunicazione. Un mio libro di poesie, a seconda delle
circostanze,
potrebbe servirsi di qualunque di questi mezzi per risolvere la sua
naturale
esigenza d’essere conosciuto.
5- Il problema è sollevato dall’uso scorretto (ma volgarmente
utilitaristico)
dei mezzi di comunicazione di massa. Per ora il Grande Fratello ha
vinto. E
popoli (o masse, o grosso pubblico), irretiti dalla volgarità
organizzata ed
economicamente proficua, hanno perso la loro capacità creativa
autonoma, un
tempo ispirata dalla … e ispiratrice della …grande poesia.
6- La poesia “è l’estrema sintesi della parola e del suo
discorso”. Il suo
valore (assoluto e totalizzante) può essere contingentemente
offuscato da certi
“processi culturali” deviati e devianti. Tuttavia, anche nella
clandestinità il
suo valore rimane inalienabile, perché è il nocciolo duro
della mente, cioè
della fisiologia e della biologia dell’uomo nella complessa e
complessiva e
misteriosa vicenda cosmologica. I “fatterelli” quotidiani e gli eventi
storici,
buoni o cattivi che siano, passano: il “segno sintetico e materico e
sensitivo
(poesia) della presenza dell’uomo nell’universo, resta”.
7- La poesia ha sempre vissuto di mecenatismo e autogestione. Non
è mai stata
mercificabile, ed è bene che sia così. Le speculazioni
dei falsi editori,
soprattutto sugli esordienti, sono ovviamente condannabili. Ma il costo
del
mecenatismo sincero e appassionato e dell’autogestione non
può essere
trasferito sui costi dell’assistenza e della solidarietà: la
cultura e il pane
hanno lo stesso peso nella esistenza dell’uomo. Non ci può
essere l’una senza
l’altro, e viceversa. Il problema della miseria materiale non è
di pertinenza
della “caritatevole buona volontà” (concetto
farisaico-cattolico-demagogico),
bensì di una radicale rivoluzione nella gestione dei beni della
terra. In
quanto ai popoli afflitti dalla fame posseggono sempre una loro
radicale
cultura poetica di grande valore (che purtroppo, paradossalmente,
arrischiano
di perdere proprio con quella colonizzazione occidentale che dà
loro
l’illusione di un modo meno tragico di vita).
8- La distribuzione editoriale della poesia è “ovunque” un
problema irrisolto e
comunque legato alla stessa natura non utilitaristica della vera
poesia. Alcune
motivazioni di questa situazione si trovano nella risposta alla domanda
numero
5.
9- Nell’attuale situazione è difficile che un uomo della strada
(colpevole in
primo luogo la scuola) legga anche accidentalmente una poesia mia, o di
Zanzotto, o di Sanguineti, o di altri. Non conosce me, né
Sanguineti, né Zanzotto,
né Spagnuolo, né altri… della stessa “razza” (al di
là dei singoli intrinseci
valori). Mi capita di cercare in varie occasioni ( in incontri
programmati o
sui luoghi del lavoro o del tempo libero) di discorrere di poesia con
“l’uomo
della strada” e allora più che fornirgli la mia interpretazione
di una poesia,
cerco di approfondire con lui le specificità della poesia, e
l’approccio alla
sua valenza “fisiologica” e insostituibile.
- Caro Antonio Spagnuolo sino a qui le mie nove risposte al tuo
questionario,
ma io ne aggiungo altre tre (domande/risposte) … che mi faccio per
conto mio.
10- “Che fare per intervenire positivamente su questa disastrosa (ma
non nuova!) situazione?” – Scrivere in
silenzio e
lavorare cocciutamente (accantonando ogni perplessità) sulla
parola, a livello
creativo e critico. Non perdere occasione per rendere pubblico (in
particolare
nella scuola e nell’università) il problema della poesia e il
valore della sua
naturale essenzialità. Ogni uomo ha tanta poesia in se (nel suo
flusso
sanguigno e metabolico) di quanto non creda o sappia. Ogni uomo, in
estrema
sintesi, è poesia.
11- “Questa battaglia non è impari e illusoria di fronte alla
devastante forza
dei mezzi di comunicazione di massa”? – E’ impari. Ma va comunque
combattuta. E
non bisogna perdere occasione astutamente dei mezzi di massa. Ora per
esempio,
l’inserimento in internet, là dove sia possibile, della poesia e
delle sue
problematiche non va assolutamente trascurato.
12- “Questi problemi riguardano solo la poesia di parola?” – No.
Riguardano
ogni genere creativo. Cioè riguardano la qualità di ogni
genere, fino alla
pubblicità, alla moda, e al rock.
(marzo 1996)
14.
Mariella Bettarini
1) Ah,
la
poesia... Se potesse "Intervenire contro la incapacità di
ascoltare"!
Ma forse già lo può, già "interviene'' presso chi
è già capace di
ascoltare (mi dico). Questo è già il "miracolo" il suo
enorme potere:
di ricordare , di rammentare (Tutto, Molto, Qualcosa) in chi è
capace di
ascolto. E gli altri? E chi non è capace? Vi hanno tentato
religioni,
filosofie, ideologie, ideali, pensatori, santi, profeti, eppure...
Può
(davvero) la poesia compiere anche questo miracolo ? Non so (o - peggio
- non
credo), Perché non bisogna credere, non bisogna mai credere che
la poesia sia fatta
(sia portatrice) di buoni sentimenti, né di buoni pensieri. La
poesia è fatta
di poesia: ed è già tutto. Però, però, se
si cominciasse dai bambini, se si
cominciasse da bambini a sentire, a pensare di più, e meglio e
in proprio, e
meno egocentristicamente... Ma non parliamo (ohibò) di scuole di
poesia:
scuole, spesso, di vanità e dì buone intenzioni. E basta.
Rifondare,
"riformare" la (singola) coscienza, le (comunitarie) coscienze è
opera lunghissima, complessissima, globale. Dunque, forse, cautamente,
anche
traverso la poesia. Ma non facciamone la panacea di tutti i mali. Non
santifichiamola (per carità), per renderla più
inaccessibile e - dì fatto -
solo innocua: solo perniciosa vacuità.
2) Chi
lascia
"un segno indelebile"? Apparentemente di più la seconda triade,
quella per così dire - scientifica di contro a quella
"umanistico-letteraria". Ma poi, riflettendo meglio, direi di no ad
una tale contrapposizione (semmai, farei altre triadi: che so?
Leopardi/Dickinson/Lee Masters o Kafka/Beckett/Gadda o
Caproni/Rosselli/Landolfì
o Zanzotto/Moore - Marianne,' ga va sans dire/Celan, o... o... Tutto,
tutti
lascia/lasciano un "segno indelebile": bisogna vedere come, a che
livello, in chi. Soprattutto la cultura (umanistica o scientifica: no:
umanistica
e scientifica) prevede una delicatissima e insieme amplissima indagine
sulla
quale riflettere a fondo, anzitutto per capire che cosa s'intende per
"cultura". Dobbiamo metterci d'accordo su questo.
3) La
poesia
può (anzi direi "deve") "accostarsi ad una tragedia" non
tanto perché essa stessa è (spesso) frutto di una
(personale) minima o massima
tragedia (questo devierebbe tragicamente li discorso: e allora la
poesia
satirica? la poesia giocosa? la sperimentazione ludica? il surrealismo?
ecc.
ecc.) quanto perché niente di ciò che è umano
dovrebbe esserle estraneo: dunque
anche una tragedia (personale o collettiva), ma non in senso
prioritario o
privilegiato. E mai in senso sacrale, sublimato, bensì molto
concretamente,
molto prosaicamente, prosasticamente. E' arrivata l'ora di farla finita
con la
poesia superiore (o comunque distinta) dalla prosa, con la tragedia
superiore
(o distinta) dalla commedia, dalla satira, e così via. Credo sia
proprio
arrivata l'ora della fine degli steccati: anche in letteratura.
4)
"Inserire"
dove, please? In una delle tre culture ipotizzate ("accademica": per
"pochi eletti": eletti da chi?. "Underground": esiste
ancora? Non credo: non, almeno, come ,.alternativa" a qualcos'altro, ma
come la cultura che non ha accesso ai successo, o ai mass media o... la
cultura
letteraria, la letteratura o è "di qualità" o non
è, senza più
aggettivi. internet? Una cultura forse davvero "globale", ma Internet
non è solo un mezzo? 0 dev'essere considerato soprattutto un
"fine".?
A questa seconda ipotesi io, francamente, non riesco ancora a credere).
"Inserire" un mio volume di versi in una delle tre culture? La
domanda - a mio avviso - non è molto chiara. Un libro di poesia,
se di poesia
(e non d'altro) si tratta, dovrebbe (almeno teoricamente) non
"inserirsi"
quanto "farsi ascoltare" (vedi domanda n. 1). Se non vi riesce,
è
proprio inutile che voglia o possa "inserirsi".
5)
Sì, ancora
due triadi (tra le moltissime possibili). Ma (mi sono sempre chiesta)
chi è il
"grosso pubblico"? La cosiddetta "massa" (quella di cui si
dice quando si parla di "cultura di massa")? Quella di Massa e potere
? Quella degli stadi? Quella che fa "opinione di massa"? 0 quale
altra? Ma anche gli "addetti ai lavori" non danno (ad esempio)
ascolto a Quasimodo come a Montale? A Ungaretti come a Scalfaro? 0
vogliamo
dimenticarci le cosiddette (e sacrosante) "parti sociali" le
"classi" (magari di idee), le "parti politiche" e così via?
Dunque, può magari avvenire che qualcuno preferisca dare ascolto
a Ungaretti e
a Zichichi, e un altro (che so) a Quasimodo e a Scalfaro. 0
(perché no?) anche
a Baudo (fenomeno televisivo quant'altri mai: dovremmo chiedere ai
grande
Enrico Ghezzi). E magari avvenire che altri giurino sull'accoppiata
Montale/Scalfaro, ecc. ecc. Quale e quanta casistica si dà solo
fra due paia di
triadi. Davvero le vie dei gusto (e della coscienza e della
sensibilità ecc.
ecc.) sono infinite...
6) Non
contrapporrei affatto uteri a poesia, seni ai silicone a poesia, morbo
di
Alzheimer a poesia. insomma, non contrapporrei mai e poi mai niente di
niente
alla poesia. Non ci potrebbe, ad esempio, esserci poesia sul morbo di
Alzheimer? 0 poesia dedicata ai problema delle manipolazioni genetiche?
0
poesia dedicata a chissà quant'altro? Sarebbe assai grave,
sarebbe tragico se
la poesia non riuscisse a "stare al passo coi tempi", come si dice. E
nel nostro tempo le cose summenzionate sono parte integrante della
realtà. 0 la
poesia è anche realtà, o non è. (Certo, una
realtà totalmente intrisa,
mescolata, coniugata con la più totale e libera e sfrenata e
"virtuale" delle fantasie e delle realtà).
7) Credo
proprio non sia lecito che molte case editrici ("anche di etichetta")
chiedano somme enormi a chi vuole pubblicare i propri libri di poesia.
Credo ci
siano troppi che magari cercano di arricchirsi con il lecito (questo
sì)
bisogno dì "farsi ascoltare" da parte di autori che, oggi, in
Italia,
non trovano assolutamente editori, se non a pagamento (ancor peggio dei
denaro,
ci sono altre forme di compra-vendita: personale, politica, accademica,
di
sudditanza di svariati tipi). Ma la poesia come si fa a venderla?
Bisognava
proprio aspettare i mitici "Miti" di Mondadori per accorgersi dei
boom della poesia? E' un cane che si morde la coda. Si vuole che la
poesia
"entri" profondamente in un tessuto sociale, in una società, e
poi
non si sa che fare, come fare? Andrebbero davvero ricostruiti tutti i
nessi
letteratura-società, poeti-pubblico, autori-editori,
cultura-produzione, ecc.
Quanto
poi a
versare le somme che un autore il più delle volte spende per
autopubblicarsi,
beh, questo è tutto un altro discorso. Avremmo, allora, "Poeti
nazionali" (e magari internazionali) belli e benedetti, pubblicati e
pubblicizzati gratuitamente magari dallo Stato (o da chi per lui) e
tutti gli
altri cosiddetti poeti assurti a santità di meravigliose (e
augurabili) opere
di giustizia, veri e propri Robin Hood della situazione. (Ma allora, mi
chiedo,
gli altri, i Veri Poeti, i Poeti con la P maiuscola, sarebbero dei
volgari
menefreghisti, o darebbero ugualmente il proprio contributo sociale,
tanto più
arricchiti dalla strabocchevole vendita delle loro opere da parte dei
Veri
Editori?). Come si nota, è un caos notevole. 0, meglio, un
notevole casino. Una
casistica tutta da verificare. Soprattutto, davvero "virtuale" e
fantascientifica.
Ma, certo, sul fatto che molti/editori di poesia siano dei profittatori
e dei
ladri proprio non ci piove.
8) Ah,
quello
della distribuzione (ai nord quanto ai sud, se si tratta di piccoli o
piccolissimi editori) è il problema principe dell'intera
questione editoriale
che concerne la poesia. Credo che - legato alla distribuzione - ci sia
ancor
prima il problema dei far conoscere il libro, ossia la
pubblicità, le schede
informative e critiche anche sui quotidiani di grande tiratura (quanti
degli
infiniti libri di poesia che escono annualmente in Italia "passano",
ad esempio, sulle pagine di "Tuttolibri", tanto per non citare che
uno dei canali letterari informativi senz'altro di molto vasta
diffusione?
Contare per credere).
Se ho trovato difficoltà per i miei volumi? Non solo ho trovato
difficoltà
nella distribuzione, ma ho trovato e trovo tutt'oggi (dopo 35 anni di
scrittura, e circa venti libri di poesia pubblicati e auto-pubblicati)
difficoltà nel trovare un editore che non chieda a me (e a
chissà quanti altri)
di sborsare molti soldi per un libro che poi non sì vede da
nessuna parte: non solo in libreria, ma neanche da parte degli "addetti
ai
lavori". Che mi/ci chieda soldi per un libro, di fatto, nato e morto.
Noi
(Gabrielia Maleti ed io di Gazebo) abbiamo tentato di risolvere
l'annosa
questione non promettendo nulla di falso ai nostri autori: la
distribuzione in
libreria non avviene (sarebbero "promesse da marinaio") ma
forniamo l'intera tiratura dei libro all'autore, assieme ad un ricco
indirizzario di critici e riviste, per un invio "personalizzato" e di
solito molto fecondo, se il libro ha un valore letterario almeno
discreto (al
di sotto di questo livello noi diciamo dei grandi e assoluti "no").
Così non vendiamo illusioni e, soprattutto, ci permettiamo il
lusso (un
diritto/dovere) di essere fortemente selettive nel pubblicare, proprio
perché
l'autore . si paga le spese di stampa. Ma che almeno sappia di uscire
in una
Collana che crediamo seria perché qualitativamente molto severa.
9) Lo assecondo
tentando di spiegare lo spiegabile; soprattutto tentando di spiegare
(con la
maggiore modestia e semplicità possibili) che talora la poesia
proprio non si
può spiegare. Raccontandogli che persino il suo autore talora
non sa che cosa
ha scritto. Dichiarandogli, insomma, la mia quasi assoluta ignoranza
sulla
poesia. Soprattutto, cercherei di assecondarlo parlandogli "da uomo a
uomo" (nei mio caso, "da donna a uomo"): con il massimo dì
emozione, ma anche con il massimo di non-enfatizzazione. Per
consentire,
appunto, quel "tentativo di ascolto" che la poesia postula (e anzi
pretende). Gli direi, infine, che sono completamente solidale con la
sua
(eventuale) ignoranza: con la scuola, la società, i mass media
che ci
ritroviamo!
Marzo
1996
15.
Alberto Cappi
1- Bosnia e
Cecenia, cioè la storia, cadono come nomi nel discorso della
poesia. La poesia,
che è ascolto dell’umano e del suo darsi in parola, che è
far nome diverso
della cosa, assume tutto il dolore e la pienezza di una situazione per
figurarli
nella propria forma. Se il lettore è “ipocrita” è
perché la poesia lo
sorprende, lo abita, e, nonostante la sua cultura, pone in lui i semi
di un
nuovo sapere. Che è, anche, nuovamente ascoltare.
2- La
scienza? Il linguaggio scientifico pronuncia l’affermazione, la sua
semantica è denotativa, l’unità e irrecensibile. La
poesia? Fa si che un
segreto, la parola, passi nelle parole. Così porta una voce
misteriosa, si fa
portavoce non dei significati ma del senso. Qui l’enunciazione è
annunciazione
e l’enunciato è annuncio. Un segno imprendibile, che produce,
anima, trasforma,
non si può cancellare.
3- Dopo i
campi di concentramento e la bomba atomica sembrava assurdo dire,
fare, baciare la poesia. Non si ha realtà nel poetico, piuttosto
reale e immaginario.
Una tragedia o ferita originaria lo inaugura. Non si accosta all’errore
ma lo
incorpora. Questo farsi errore, errare del poetico, non evita
l’opacità del
mondo, né la giudica. Conosce e sa: legge la sua legge in un
canto che di per
se è salvezza.
4- La
tripartizione del modello è solo apparentemente discratica.
Penso ad
esempio ad un mio piccolo testo, “piccoli dei”, pubblicato da una
piccola
editrice, trasmesso e approvato dall’accademia culturale e ora sulla
via della
telematizzazione. Non c’è un dove può camminare la
poesia. Un come, si.
5- Il
confine dei media traccia una linea divisoria nel tempo della cultura
perché impositivo di nuove attese. Crea atteggiamenti, scene,
folclori,
contagi. Baudo è oggetto d’ascolto e di consumi
perché kit & kat
fantasmatico che ingrassa il pubblico. Perché tanto il pubblico
è “grosso”.
Senza cannibalismi d’immagine la poesia parla in silenzio. Parla il
silenzio.
6- Il valore
della poesia è improprio. Non sta né nel protagonismo
né nel
deuteragonismo. La sua strada non è di parte, semmai è a
parte. Non è a
misura né del sesso né della patologia. Incommensurabile,
non fa merce né
mercimonio.
7- Il gesto
della poesia è estetico. Il gesto della poesia è etico.
La parola
dice e da. L’autore…?
8- I volumi
che portano il mio nome poi l’abbandonano. La loro parola comunica
con altre parole, parole di altri, in altre territorialità. Non
fanno mercato.
Visitano gli amici e con loro si intrattengono. Infine si consumano
restituendosi al silenzio.
9- Davvero
ho trovato lettori sulla strada della poesia. Davvero abbiamo
spezzato, in umiltà, assieme, il pane del verso.
Aprile 1996