E’ con
un
taglio d’acqua dura come pietra
che
cedono le dighe
dai deserti amplificati
resi
cronici dalle
fami chimiche
delle
proprie
omissioni e l’artificio
delle
notti anemiche con amici al silicio
o dentro
un
sonno lungo barbiturici.
Primi ad
esplodere sono i gelsomini
di
questa primavera
in pieno inverno che è fenice
e
bruciano gli
occhi a grumi. di sabbia. a morsi.
della
rabbia
ambulante, cremata, resta cenere sparsa
nella
stretta degli
aghi degli abbracci soffocati.
Altrove,
dopo, tocca alle stoviglie,
prendere
fuoco come
ipostasi.
nelle
vetrine in
frantumi sono esposti
i
desideri
addomesticati, fraudolenti,
come
nicchie di
baci soporiferi sedati o
placente
di stracci
o altri corpi radianti
splendore
di truffe nei
silenzi crepati
ad
accudire le
muffe.
Di
malessere
empirico sono piene le case
assiduo
come lo
sfratto
Di tanta
primavera ora che ghiaccia non resta
che
una bacca
rubino che prilla
come
dama assortita all’insegna:
si
dispensa dai
fiori, “free hugs”.
Tutto
è immobile
tutto ancora oscilla
nei
caroselli per pupille pettinate
pupazzi
in
calzamaglia e lune a dondolo
scolpiti
in qualche
direzione di spazio cieco,
col
respiro più
opaco dell’orbita
che
riassorba le
perdite, il vuoto stagionato
delle
donne con il
cuore pezzato
e un
papavero raccolto dalle ciglia
che
attraversano le
vene a specchi spenti
su una
ruota ancora
tiepida di prato
dove
sputano il
veleno dei serpenti
Nessun
principe
flautato ha mai soccorso
un
cadavere sul
greto ma parasimpatico
ma
ciascuna da sola
soffia sonno muschiato
- tana
libera tutti
gli occhi senza nascondigli
di una
stella
sbracciata
Eppure
bastava,
sarebbe bastata
anche un’ora
di glassa
sottovetro
con
sole- piccole gioie
sottopancia
esalate
e una falena
agitata
come fiaccola
che scalcia
per
cantare
felicità a gole spietate
in una
nocca di
madre con bambino
tutti i
sogni di cartilagine imballati
-sola
sì, non così
sola, anzi superflua
come
testuggine
fiorita a margine
di quel
prodigio con le radici ancora attaccate
con il
corpo
incompleto e già in forma di nuvola,
tra una
fata
morgana e notte tortora.
(L’amore
che non ha
bisogno di conoscere per amare)
La
sentinella
silenziosa e vigile
che non
si
appropria delle cose, le accosta soltanto
a
partire dal corpo
al quale resta incollato
se lo
spirito cede
e le cade dagli occhi:
l’incredibile
tenerezza che ci tiene legati
a questa
forma
fragile a qualche forma
di
nuvola con
raganella e sonaglio,
al
simulacro senza
somiglianza,
la
somiglianza che
pretende fedeltà
la
vicinanza
straordinaria,
la
sottile
discrepanza
tra
il polittico del respiro e il collirio stellato
tra
soffioni di affanni e un tramonto spillato
che
intercetta un
angelo sulla parete
- ma
com’è
entrato?-
uno
spicchio di vetro tra cielo e dintorni.
tutto
ciò che c’è
qui dentro non lo possiedo
tutto
ciò che è
perfetto appartiene a un altro
tu che
ami solo per
perdere, ikebana
sei come
l’arte di
raccoglierti vena in un vaso
devota
al compost,
Angelus Novus di percolato
e sono
spighe di
taffettà lasciate aperte dall’acido
nuovo
paesaggio
rovina con acquerello
di
panchine alla
deriva.
diossina
nelle
vene, arsenico nell’acqua
e il
latte delle
primipare avvelena i pozzi
(e
nemmeno un
iscariota all’orizzonte)
per
prescrizione
dei reati
tutti i
tramonti a
quadretti ripiegati
con
donna sullo
sfondo che tanto
occupa
poco spazio
confezionata
amorevolmente
come
pantofola
o vasino
da notte
oppure burger
queen un
tanto
l’etto avvolta in
fogli
oleosi di
inchiostro tipografico
o con
la
bozza livida corretta al digitale
o virgo
in edicola
e lumi sotto il genitale
reliquia
d’appendice e altra venere acefala
che
detta leggi
di sterilità, vivere rattrappito
e
un’altra lectio di rigor mortis col tulle- tutte
le
primavere adesso
tombe e un tempo culle
-quanto
altro lutto chiameremo giudizio?
e quanti
loculi a
tariffa?
ma sono
zone
narrative troppo fragili
per
questa lingua
di paglia e cipolla
per
queste
favolette da ospizio:
da
cerniere di
terra dove Stella filava,
a
Barletta
per quattro euro lorde,
spunta
ancora un
sospiro cotone
ed
è sempre la
stessa canzone:
qui
riposa in
dovizia fiamminga
la
speranza con i
pugni asfaltati
qui si
scava
la fossa
la
memoria
dell’umido
dall’infanzia
scorticata
la
vaniglia delle
piaghe
che ci
colano
addosso,
la
frangetta degli
occhi
dolcemente
cerchiati di rosso
di una
sposa operaia
Tutto
ciò che
desideri è qui.
e se
sapessi che è
tutto qui, cosa faresti?
e se non
c’è altro
mondo allora è una buona notizia:
dalla
parte
bruciata anche il cuore si usura
senza
potersi
ancora dire esonerato e
allora
non
sprecarlo, non buttarlo, non buttarti via!
e quando
penserai
di averne avuto abbastanza
di
questo straccio
di cuore malandato
tendi la
mano
ancora aperta come stellina
la vela
gonfia ad
almanaccare col vento
smarrito
il senso
trattieni un suono ancora
sulla
bobina
come respiro che passa ma
carico
di
intenzioni
e che la
luce
filtri ancora attraverso le crepe
coi suoi
ricami di
polvere e presto torni a fiorire,
che
tutte le sue
creature di dolore vengano lavate
asciugate,
accudite
una per una e ricondotte all’ovile
e che
qualcuna
sopravviva pure a molte lune e notti
insonni
di questo
cuore disfatto – ma non buttarlo-
lascia
asciugare le
sue ali come dolore e lascia pure
che
qualcuna
diventi fiore, conchiglia, fiammifero,
farina
e qualcuna corallo.
Legge Maria Valente
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