Da
me!... Non quando m'avviai trepido
c'era
una madre che nel mio zaino
ponesse
due pani
per
il solitario domani.
Per me non c'era bacio né lagrima,
né
caro capo chino su l'omero
a
lungo, né voce
pregante,
né segno di croce.
Non c'eri! E niuno vide che lacero
fuggivo
gli occhi prossimi, subito,
o
madre, accorato
che
niuno m'avesse guardato.
Da me, da solo, solo e famelico,
per
l'erta mossi rompendo ai triboli
i
piedi e la mano,
piangendo,
sì, forse, ma piano:
piangendo quando copriva il turbine
con
il suo pianto grande il mio piccolo,
e
quando il mio lutto
spariva
nell'ombra del Tutto.
Ascesi senza mano che valida
mi
sorreggesse, né orme ch'abili
io
nuovo seguissi
su
l'orlo d'esanimi abissi.
Ascesi il monte senza lo strepito
delle
compagne grida. Silenzio.
Né
cupi sconforti
non
voce, che voci di morti.
Da me, da solo, solo con l'anima,
con
la piccozza d'acciar ceruleo,
su
lento, su anelo,
su
sempre; spezzandoti, o gelo!
E salgo ancora, da me, facendomi
da
me la scala, tacito, assiduo;
nel
gelo che spezzo,
scavandomi
il fine ed il mezzo.
Salgo; e non salgo, no, per discendere,
per
udir crosci di mani, simili
a
ghiaia che frangano,
io,
io, che sentii la valanga;
ma per restare là dov'è ottimo restar,
sul
puro limpido culmine,
o
uomini; in alto,
pur
umile: è il monte ch'è alto;
ma per restare solo con l'aquile,
ma
per morire dove me placido
immerso
nell'alga
vermiglia
ritrovi chi salga:
e a me lo guidi, con baglior subito,
la
mia piccozza d'acciar ceruleo,
che,
al suolo a me scorsa,
riflette
le stelle dell'Orsa.
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