Lettere alla
cicala, V
Lettere al
giaciglio, IV
Sera a Sarajevo
Al funerale
Le labbra
Lettere
alla cicala, V
Ora la mia
barba scandinava attrae di scarlatto le tordelle
come
quel fuoco d’inverno gli uomini infreddoliti
per
la tua unghiata d’amore.
Ho
dimora anche per te tra le mie foglie e i corimbi
o
sorella dei monti, per te che appoggi il tuo flauto
come
una sirena, per le onde che sorreggono il tuo canto
di
spine, per te regina in croce ho lo spazio di un nodo
che
s’aggroviglia sul collo degli uccelli.
Non
ti lascio sola con gli strappi della tua pelle
con
i marosi
e
le folaghe arbitrarie nella mia fortezza.
Per
te impegno il mio legno e t’inchiodo.
Ascolta
Lettere al
giaciglio, IV
La marsina,
scoscesa, rinnovava l’opàle
arlecchino
come i suoi racconti nel buco
della
pioggia. Sempre quella coda di vipera
dalle
parole incrociate, sempre la stessa dizione
della
notte, come potesse quell’ora
uccidere
il senso, il nostro senso
senza
direzione. Ad arcuare il tempo
ci
abbiamo messo tutto il calore
sull’incudine,
sotto il martello.
Ora
il tempo ci gira intorno
e
noi balliamo, balliamo,
anche
cadaveri. Perché siamo la danza,
il
vortice che tutto trascina con sé,
siamo
l’incertezza che brucia gli asfodeli.
Sera
a Sarajevo
E a volte
le sere hanno questo spettro di silenzi,
a
festone di beccafichi, sulle canape, a nastro.
E
qualche farfalla, rara, e le rondini, a macchie,
sui
fili. Ad ascoltare tenui effetti,
come
un funerale che ascolta i morti,
a
grappolo, il loro canto ebbro tra le cicale
e
i caprimulgi. A volte le sere stanano
ingiurie,
non altro che ingiurie, di morti,
la
gruma del vino, l’ultima melodia. Di questo
è
il vento che tace.
Al
funerale
L'aria
spezzata fioriva a spine
sul
tuo pallore, graffi di rosa
erano
cicale sulle dune
spalmate
dai refoli.
Così
ti macchia il dolore
che
mura l’anima
e
accartoccia il tempo.
Così
io ti vedo dopo tanto,
stupita
della morte,
fragile.
La notte, penso,
la
brucia. E poi ricordo
che
hai corazza di fango
e
amore che nasce
dalla
terra, dai lombrichi.
Le
labbra
Nelle
vostre facce getto la pausa di un sorriso
e
cornici di rughe vi spaccano l’ombra sotto gli occhi.
Avete
pelle di rosolio, sofferenze di rododendri,
scontate
la morte come uno stagno.
Io
vi porto frattaglie d’amore secche come parole,
rene
grigie che il vento alza a fusilli.
E
non ho sete che possa mungervi.
Io
sono il seduttore di salice,
colui
che spolpa le parole
e
abbandona le bucce sui cornicioni della vita.
Non
ridete delle mie pupille di fustagno,
vedono
ancora i dolori, le desinenze dei sospiri,
i
riverberi. Contro il vostro petto
batto
un foglio testardo, ho in mano le labbra,
una
voce che squadra la terra, qualche bemolle,
un
calle, la lebbra. Oggi vi sono radice.
Roberto
Bertoldo, Il calvario delle gru
La Vita
Felice, Milano 2000
Voce
recitante: Ilvo Abate;
Realizzazione
tecnica: Ugo Fiorina; Ideazione:
Sandro Montalto