Dopo
il
dopo è dopo.
Dal confronto
nel tempo, con ciò che siamo stati e ciò che permane, sia
pure allo stato di residuo, non emerge alcuna traccia della mutazione:
solamente la riorganizzazione e la ridistribuzione della
fisicità
come struttura temporale, in cui la città traduce il suo senso.
Ancora una volta niente ci dimostra che si possa fare a meno del luogo
comune. Ma è forse questo che elimina ogni possibilità di
origine, di gerarchia e di feticismo, dal momento che non si tratta
solamente
di sostituire l'affermazione con la negazione, ma di trovare il 1uogo
dell'io
sostituisco, il gesto di questo io sostituisco, e non la sua
proposizione.
Il corpo
è l'epifenomeno, la non?struttura, matrice dell'entweder?oder e
di ogni dialettica; oppure chiamando omologo il corpo per l'occasionale
conformità alla ragione, esso - se ha una storia, o una memoria
che intenda ad una storia (sia pure per fratture di ordine irriducibile
o per un continuum da x a x', che a sua volta se ne costituisca codice
di lettura e di déch¿ffrement) - è sempre, e in
ogni
caso, una situazione, in cui tautologia e differenza non sono altro che
concretizz?azioni del fare, cioè del corpo stesso, che procede
per
scarti e per riduzione di senso, intendendo così alla sua
costituzione,
che è (anche) quella del processo est/etico.
Non siamo
nulla di più di ciò che diciamo.
La città
riduce omologo a documento.
La forma
del corpo è la situazione: quanto più esso diventa da
portatore
di significato puro segno privo di qualità, quanto più
trasparente
è la sua leggibilità come oggetto di investimento del
mercato,
tanto più diventa una astrazione e la vita quotidiana tautologia
(e ling?uaggio).
I1 disagio
(disorientamento) è il punto del corpo: nulla più d? una
sens/azione privata, di un supp1emento di fisicità che eccede il
significato della città (anche il mentale), in quanto apertura
all'unwesen.
La fisicità
non è un contro?discorso.
Nel dire
le (nostre) contraddizioni come contrassegno della (nostra)
verità,
ci chiediamo nel linguaggio, diventando nomenclatura, un segnale della
città.
I1 corpo
come segno dell'io è una costruzione della città. L'io
come
corpo è solo il cadavere, e la città ci rende cadaveri.
I1 mio corpo
è ciò che emerge dai rapporto con ciò che,
estraneo,
mi costituisce, costituendosi esso stesso in questo rapporto, che pone
il limite come punto di contatto, in cui consiste la fisicità.
Non è
(più) (ancora) possibile pensare questo e quello, qualunque cosa
ciò significhi.
Siamo, ancora
una volta, dentro: irretiti tra pulsione e oggetto, desiderio e
bisogno,
il non-utensile della solitudine (anche psicologica) ci riconduce al
tempo/merce
della città, che propone ad omo1ogo il consumo come limite della
sua ri?producibilità.
L'interiorità
è una costruzione dell'economia di mercato the consente la
riappropriazione
significante di un plus valore.
I1 bordo
non è né il tavolo né il nulla nel quale cade la
mia
mano: allo stesso modo l'esistente (la città) tradisce
nell'apologia
metafisica del libro, in cui si cita, l'incongruenza di concetto e
realtà.
Tuttavia, dal momento che si considera lo s?radicamento, questo non
è
già più una miseria: perché il paradosso è
che la riduzione metafisica (storica) del corpo ha bisogno della
opposizione
che essa riduce, sicché 1’ora, il qui viene appreso solo come
ciò
che trasforma la potenza in atto, di cui è sempre possibile
ridestare
l'origine e anticipare la fine nel tempo della presenza. Infine,
è
un problema di economia e strategia: perché c'è un gioco
sicuro, quello che si limita a sostituire pezzi dati e esistenti,
postulando
solo la necessità dell'interpretazione e della ripetizione; e un
altro gioco: il gioco della mia mano, al di là dell'uomo (e
dell'umanesimo)
come impossibilità del pensiero di rendersi commestibile. Ora
è
questo gioco (la mano, la morte) che ci rinvia alla trasgressione della
città (il libro) ed è questo che protegge, rendendolo
im?possibile
ogni tentativo di trovare un linguaggio per il pensiero dì
limite.
II mio corpo
rappresenta ciò che rappresenta, indipendentemente dalla propria
verità o falsità, mediante la forma diretta
dell'autorappresentazione.
Vediamo
e leggiamo con organi differenti.
Ciò
che emerge è l'interiorizzazione esclusività del soggetto
in crisi.
La consapevolezza
dei corti circuiti in cui siamo fisicamente immersi non può
essere
misurata, forse, se non a livelli successivi di ipotesi, in un gioco di
eventi, parole, gesti, il cui valore d'uso (non) coincide con quello di
scambio e la cui più o meno occasionale singolarità, non
priva di fascino, con cui appaiono - senza che siano visibili i motivi
per cui si danno qui ed ora - non scalfisce il senso di inanità,
con cui avvertiamo il rigurgito inquieto di passione, il degradarsi di
omologo nel tempo lineare della s/oggettività.
La vita
quotidiana è l'id?entico (e il particolare, che non ha
consistenza,
se non specifica).
I1 linguaggio
sublima il desiderio (la fisicità) in (falsa) coscienza,
metabolizzando
il limite (storico) nell'assoluto (naturale) e inscrivendoci
nell'analisi
descrittiva, fondata sul culto dell'esistente (la città) e sul
dogma
dell'irreversibilità (la storia).
L'analisi
descrittiva è l'archeologia del contemporaneo: essa promuove
l'id?entificazione
delle cose con la loro funzione, del segno con la cosa, come se il mio
nome indicasse al tempo stesso il mio modo di operare
I1 corpo
è radicalmente illeggibile.
L'esistente
(la città) sub specie logicitatis è la città
(l'esistente).
Se ogni
rituale implica una concezione dell'accadere, al permanere
dell'id?entità
la fisicità non ha vertrauen da opporre, se non il tempo della
sua
presenza, l'istante della simul/azione.
I1 linguaggio
è il segnale del possesso (bisogno, mercato).
Dire il
corpo come origine del fenomeno (la città) è senza dubbio
non dire niente. Quando è detto, il corpo è già
fenomeno.
Gestiti
dall'evidenza: il ricorso all'esperienza non è se non un
progetto
di coerenza in un tempo in cui la città tende a cancellare la
contra?dizione
di omologo, il suo fluttuare fra i disturbi (privati) e i modi
(pubblici)
di condotta, perché non venga modificata la necessità del
mercato e l'organizzazione compartimentale del senso. Così
è
la fisicità, de?materializzata, a segnare il passaggio dal mondo
al teatro, a marcare lo spettacolo della (sua) socialità, dove
l'estensione
riduce il rischio dell’intensità: salvo poi a sperimentare,
attraverso
la pelle, l'in?significanza dell'altro.
I1 mio corpo
è il luago/logo di divergenza di mentale e vissuto.
Nella città
l'irriducibilità del dopo è formalizzata a metafora::
affermare
che la fisicità è il limite della metafora, allo stesso
modo
che l'io è il limite della logica e, nello stesso tempo,
ciò
che la fonda, è dire anche, e innazitutto, che la storia del
limite
(la storia del linguaggio) è il limite della storia.
Noi (non)
siamo il corpo che abbiamo vissuto.
La storia
è la mia mano.
L'assunzione
della fisicità a luogo/logo comune non fa che ritualizzare il
dominio
del linguaggio che, nel dire il corpo come ciò che (non)
è
possibile, cancella il tempo della deriva - bio/logica prima ancora che
storica - come inizio della mutazione della specie.
Quanto più
la città documenta la (sua) verità nella citazione, che
è
il segno translinguistico della sua evidenza, quanto più questo
processo si trama nell'ordine di un discorso, in cui la
sostituibilità
si rovescia in fungibilità uni versale, tanto più si
afferma
l'opinio communis che tutti gli errori umani sono impazienza, una
prematura
interruzione del metodico, una apparente recinzione della cosa
apparente.
Se l'errore
come di?vagazione è ciò che non ha logica, in quanto
comportamento
alla deriva, la fisicità che eccede il lavoro del senso, non
può
che riconoscersi in esso, sottraendosi al metodo.
II linguaggio
(word) non è il mondo (world).
II lavoro
della sua mano fa vivere in me ciò che non esiste e che la mia
mano
non è in grado di rendere presente.
Conoscendo:
l'intersecarsi, nel s/oggetto, di dominio formale e dominio reale,
desiderio
e bisogno, l'integrazione di economico e politico riducono la
fisicità
a luogo/logo comune dell'ipotesi scientista, la cui unica risposta
è
l'eros desessualizzato e il sesso diserotizzato, ovvero la
fungibilità
come fondamento (e modalità) della materia.
Il linguaggio,
cui intende il corpo, conosce, ad un livello, la cui
metaforicità
metaforizza se stessa, la vicenda esclusivamente economica della logica
che, nel modello cibernetico, rende operative le sue proposizioni.
Senza logica
non c'è città né l'id?entità ermafrodita
dell'io
che si sottrae, ontologizzandosi, all'impossibilità del modello
di tradursi in fisicità.
Il mio corpo
non sa parlare.
La direzione
da (verso) cui il corpo alla deriva di?vaga è quella di una
episteme
della rappresentazione, in cui è nella tautologia (metafisica)
del
nome come residuo feudale del discorso che l'id?entità si
riappropria,
progettando la conoscenza come processo, del divenire assoluto della
fisicità.
L'ipoteca che ne sortisce è il deterrente della definizione, la
magia artificiale della ricchezza interiore, che salda al fascino della
pura idealità la miseria del quotidiano, in un rinvio al corpo
come
segno dell'io e dell'altro, coinvolti così nello stesso discorso
di ripetibilità, di linearizzazione nel tempo di idios cosmos e
di coinos cosmos, senza cui non c'è storia né
città.
E allora ciò che ri?vive nell'interiorità è la
concettualizzazione
del tempo della presenza, che spazializza nel passato il recupero
generale
del senso e proietta nella leggibilità metaforica del futuro le
metamorfosi senza corpo del corpo. .
Nell'insonnia
in cui ricordo la sua mano l'inatteso diviene proprio il
sempre?da?attendersi.
L'id?entità
(non) è una metafora.
La fisicità
porta il limite fino al limite del suo essere, a patto di non dirla, di
non nominarla nel linguaggio, che la determina e giustifica nel
concetto.
La città
è il libro, che garantisce la reciprocità differita di
ciò
che occhio vede (e/o legge) e ciò che la mano fa e di cui
«
neppure un iota e un apice scomparirà finché non sia
tutto
adempiuto ».
La sua mano
non potrà mai essere la mia, se la vita quotidiana (il mercato)
mi ri?consegna alla forma vuota dell'io, al mio corpo come cosa.
Durare nella
s/oggettività è consentire alla città di
riciclare,
nel linguaggio, i suoi interdetti, coagendo al consumo che non ha
memoria.
E allora (non) consentire alla memona indica la disponibilità a
vivere la (sua) morte, l'acquiescenza a sublimare il furto del corpo e
la diserotizzazione del desiderio negli aforismi della libertà
di
parlare (e/o di pensare).
I1 tempo
dell'eros, che si ripete, variando, è il tempo del corpo: tempo
mitico, senza soluzione, in cui il corpo slitta incessantemente sotto
la
città.
Tutto ciò
che accade è ri?petizione, è il rapporto paradossale con
l'altro e, insieme, il limite big?logico di questo rapporto: alienis
pedibus
ambulamus, alienis oculis agnoscimus, aliena memoria salutamus, aliena
vivimus opera.
I1 disordine
non appartiene più (ancora) all'utopia.
La memoria
è la forma dell'esistente {la città) che si nomina nelle
figure im?parziali della dialetticità storica e
dell'obiettività
scientifica, del dove e del quando.
E' il così
ciò che conta.
I1 corpo
è riduzione del senso (non al senso), negazione di quella
economia
ristretta che ne consente la sopravvivenza come metafora, costringendo
il gesto, che solo rende possibile l'introduzione del vivente
all'esistenza
del soggetto, alla disoccupazione mentale.
La fisicità
eccede il luogo/logo in cui si costituisce. In ogni caso non è
mai
un s?mbolo, pur producendo simboli.
Nello sguardo,
nell'immagine dell'identità rivolta per sempre verso l’essere,
verso
la mancanza che, dal di dentro, costituendosene come limite, la
struttura,
la città diviene reale, può trasformare l'idiotismo del
dopo
nell'idiozia del rito sociale.
Condannando
la fisicità al suo feticcio, la città ci protegge contro
la demenza di un contatto diretto con il corpo, ponendosi essa stessa
come
corpo che comprende di essere (il) mondo.
L'insofferenza
nasce dalla distanza del corpo e dello sguardo che lo percorre, dalla
metafora
che questa distanza è dell'esistente (la città). E allora
la mia mano non può non coinvolgere le stesse forme storiche
della
distanza: innanzitutto toccarsi.
Sulla base
della fisicità critichiamo il mondo.
Solo ciò
che la sua mano tocca è vero.
E' la mia
pelle a sintonizzare una volta per sempre la realtà empirica con
quella mitica
Siamo ormai
ciechi: ciechi come i ciechi di Bruegel ciascuno dei quali ha la mano
nella
mano di colui che lo precede, ma nessuno sa dove tutti vanno,
perché
l'altro che li conduce è fuori della scena, non ha nome,
è
la cosa che gestisce la sua e nostra anonimità.
Decostituire
la distanza, parlando, è sempre e già nella distanza.
Allo
stesso modo insistere nella rappresentazione è rappresentare
l'essere
(la sua mano) come avere (la mia mano).
Il linguaggio
ricicla nel corpo la negazione-(della)-memoria, totalizzando l'istante
e assumendolo nella direzione assoluta della forma merce?valore:
metafisica
che determina l’essere come vita di una soggettività propria,
emissione
pneumatica che nella sua distanza dal corpo e nel corpo lo determina
come
addizione di organi che si alienano (in) ciò che producono.
II luogo/logo
comune è il segno di un'archeologia totale, che verifica il
gesto
come ipotesi di funzionamento formale.
Il corpo
è chiamato a testimoniare, come esempio, come martire, su di una
struttura (la città, il linguaggio, il sesso) di cui a si
preoccupa,
prima di tutto, di decifrare la permanenza essenziale.
La sua mano
mi si dà come immagine e, contro il mio corpo, tendo a provocare
il flusso di questa immagine.
Ciò
che è dato (non) è il corpo.
Ciò
che prima? sembrava garantire la continuità dell'essere/avere,
la
memoria, é già trascesa alinguaggio, come ciò che
possiede e non viene posseduto, il residuo di un tempo non
mercificabile:
salvo poi, ancora una volta, a vedersi, nel ludico formalismo del
passato,
come s/oggetto scisso e in/differente che nulla più conserva,
così
depauperato e ridotto a cosa e merce, del lavoro originario che l'ha
prodotto.
Spettacolo a se stesso, il corpo non può che possedersi, come
pura
forma, spettacolo, cosa. Allo stesso modo, gli occhi che ci guardano
sono
proiezioni del nostro sguardo, perché riusciamo ad ingannarci
fino
al punto di pensare che non si tratta più di noi, sono un corpo
laddove il nostro sguardo è sedotto dall'ascetismo
dell'interiorità.
Il corpo
inizia dalla stupidità e termina nella stupidità: in esso
causa ed effetto sono intet?cambiabili.
Signum est
res: il segno è il gesto.
La sua mano?
provoca in me la consapevolezza della differenza nel mio corpo tra gli
organi e i simboli con cui li decifro.
Solo a partire
da un è troppo tardi possiamo impedire che il desiderio (la
fisicità)
venga atrofizzata - lasciandoci in balìa delle erinni della
stupidità
- dalla speranza, figura psicologica della ragione strumentale.
Nel linguaggio
tutto è simile, nel corpo tutto è differente.
Attraverso
il metabolismo tra ciò che appare e l'apparire, la sua mano
può
ri?consegnare al vissuto la mia presenza.
La città
cancella, con il linguaggio, l'instabilità sublimante di reale e
fantastico, costringendo il corpo a formalizzare i procedimenti,
attraverso
cui la memoria vi si inscrive come tempo della presenza e producendo la
storia come contemporaneità.
La fisicità
è senso in sé.
La sua mano
può usare ogni forma, da un'espressione di parole scritte o
parlate
alla realtà fisica: allo stesso modo. (Bruciando un Cantos di
Pound).
Ciò
che rende im?possibile il rapporto fra i corpi è la copula
è.
Il gesto
con cui la sua mano cancella non è necessariamente citazione di
ciò che cancella.
E' qui,
nel tempo dello scambio, che la fisicità consuma la sua resa
all'aversi,
al Senso che cancella il diaframma sensibile della pelle. E il mio nome
la verifica, sancendo la parcellizzazione anagrafica della
quantità/unità
(1+ 1 + 1 + ... 1), la riduzione della qualità a segnale, che
indica,
biffandolo, il tempo del suo farsi. Così ogni rapporto (io e
lei)
è riciclato nella (verso) interiorità e il nostro corpo
ri?con?dotto
allo scheletro a brandelli dei suoi organi, al(l'immagine del) seno da
fruire come seno. E allora, se l'immagine è la cosa, dalla
distruzione
del tempo della presenza, l'interiorità ri?emerge come un
labirinto,
dove la porta d'entrata (non) è quella d'uscita Perché i
lamenti non sveglieranno mai lazzaro, se a chiamarlo è la voce
della
madre, il luogo/logo dove il presente ri?diventa (la forma del)
passato;
e nemmeno il taumaturgo, nel cui linguaggio il passato ri?diventa (la
forma
del) presente: salvo a cancellare il silenzio quando lazzaro, come
corpo
(?non-corpo) era il tempo di quel silenzio, salvo a cancellarne nel
concetto
la memoria, metaforizzandola, memorizzandone l'avvenuta cancellazione.
La sua mano
è un sistema cosmico di de/cifrazione.
Se il dopo
è assolutamente originario rispetto a ciò che accade, il
desiderio (la fisicità) che lo fa reale è rimozione
istantanea
del tempo lineare.
Forse qualcosa?
deve accadere, o è già accaduto e non ne serbiamo traccia
in una memoria, la cui quotidianità, interiorizzata, ne annulla
il tempo di presenze, costringendoci a vivere come se.
Nulla di
più arbitrario del supplemento patetico e di principio della
fisicità,
eppure
nulla di più necessario della mano che introduce nel catalogo
dell’esistente
(la città) il suo qui-da-sempre.
La sua mano
è un'anticip?azione dell'utopia.
Che l'arte
sia morta ieri, dopo Hegel o Marx, Nietzsche o Heidegger - e l'arte
dovrebbe
ancora errare verso il senso della sua morte - o che sia sempre vissuta
sapendosi moribonda, come viene riconosciuto in silenzio nella
città
stessa che dichiarò l'ars perennis; che essa sia morta un
giorno,
nella storia o che sia sempre vissuta nel tentativo di aprire
violentemente
la città, per trovarvi la sua possibilità conto la
non?arte
(la città), contro il suo fondamento e il suo passato che si
dà
già come contemporaneo; che al di là di questa morte o di
questa mortalità dell'arte, che è anche, e
immediatamente,
la morte della mano che l'ha prodotta, e forse anche grazie ad esse, il
gesto estetico - poi/ etico - abbia un avvenire, o che come oggi si
asserisce,
sia ancora tutto di là da venire, a cominciare da quello che si
riservava ancora nell'arte (nel corpo); o in modo ancora più
strano,
che l'avvenire stesso abbia in tal modo un avvenire, sono tutte
interrogazioni
alle quali l'arte (il corpo) non può dare una risposta. Sono per
nascita, o almeno per questa volta, problemi che sono posti al corpo
(l'arte)
come problemi che esso non ri-conosce.
E' nelle
forme della desublimazione, nell'insolubilità del conflitto tra
attuale e possibile che 1'id?entità (sistema produttivo)
può
strutturarsi trasformando la sua mano in un fatto, nella proposizione
che
di essa la mia voce fornisce.
Parlare
di una durata conquistata sulla mobilità, per definire il corpo
come forma?spettacolo-merce, in cui la città, biffando il
vissuto,
fonda la sua generalità/genericità è parlare di un
concretismo di operazioni ancora alle prese con gli oggetti e le
trasformazioni
di profitto che li investono, di un rapporto in piuttosto che di un
rapporto
con. Nel mio corpo é così realizzato un gioco
translinguistico
delle parti che mima il movimento attraverso cui la ragione (il
mercato)
verifica la sua possibilità di essere un (il), mondo.
Nel tempo
della presenza, ciò che conta è solo l'esecuzione.
Il linguaggio
realizza nella rappresentazione il permanere del s/oggetto saldato
all'organizzazione
del processo metaforico (economico) del senso, in cui la
fisicità
come puntualizzazione del tempo risulta un semplice fatto grammaticale,
il margine dell'ipostasi idealista di mondo?storia.
Il corpo
ri?vela la scena onirica come segmento del discorso.
La metafora
(la città) esautora il limite nel tempo della fisicità,
sopravvivendo
ad essa.
Nella città
la costante puntualità materiale del caso di?vaga a funzione
conoscitiva,
a pura modalità di una logica dell'opposizione, in cui la morte
è la grandezza nulla che costituisce la coscienza.
II corpo
è la eonfutazione dell'arte come rappresentazione.
La sua mano
è assolutamente semplice.
Se essere?nella?città
non introduce alla conoscenza, ma ad una tensione tra i piani
dell'urbano
e l'insieme dei rapporti che si sviluppano fra il mio corpo e quello
dell'altro,
per quanto inerte, e che producono materia organizzata (organizzabile),
solo quando quest'ultima, oltre ad ogni possibile principio di
funzionalità,
si dà come senso, allora è p o e s i a, mutazione in atto.
I1 linguaggio,
riducendo la fluttuazione del corpo nell'io, che è passibile
della
ripetizione (logica, arafica, verbale) lo rende corpo urbano,
cioè
s/oggetto di consumo.
I1 luogo/logo
comune è una prospettiva clinico?oculistica: esso rende
irriconoscibile
l'istanza della sua mano.
Siamo sulle
strade di un vissuto, lungo le quali il terrore urbano è il
truccarsi
del corpo nello spettacolo quotidiano, in cui non è più
(ancora)
possibile precisare da che parte siamo né procedere al di
là
del (plus) valore di coscienza.
I1 coincidere,
qui ed ora, di bio?tecno?logia e bisogno, di mondo ideale e mondo
reale,
di profitto e produttività, affermato come prassi della ragione
e ragione della prassi, sancisce l'assurdità del desiderio come
desiderio dell'assurdità - di ciò che non è
assolutamente.
Tutti i
significati (la storia) della città gravitano nella preistoria
del
bisogno, che riconduce la fisicità al cibo (e al sesso come
immagine
equivalente), alla merce cui è in/differente il luogo/logo in
cui
avviene lo scambio come ricambio dell'identità somale.
I1 non capirci
nulla é ridotto a dettaglio, a criterio particolare e
occasionale.
Ciò
che esiste solo come prodotto, l'id/entità, tende a porsi come
soggetto
storico dell'artificiale ?ovvero della scientificità e di una
dialettica
dei dati, che de?finisce la fisicità nell'intermittenza mito
logica/morfica
della merce, catturandola nella macchina e nel linguaggio da questa
prodotta,
il cui gradiente terapeutico si misura in un (non) vissuto,
ri?con?dotto
alla matrice garante dell'io, reale proprio nel momento in cui il corpo
ne avverte i meccanismi di contraffazione che l'io attiva. Solo
così
l'ipotesi psicoanalitica può procedere alla riaffermazione
dell'unità
dell'esperienza, nella negazione del corpo attivata dalla macchina, il
cui rapporto derivato con la morte sutura la lacerazione del vissuto,
riconsegnandolo
e riconsegnandogli (al)l'anonimità/anomìa.
La città
(non) è l'inconscio.
I1 corpo
(non) è capace di sottrarsi alla riproducibilità tecnica,
alla povertà (economica) dell'inconscio (s)velato come macchina
che ripete in esso il tempo lineare dai suoi pro cessi.
I1 linguaggio
dell'identità si rende vissuto attraverso la ripetibilità
simbolica, in cui l'io automatizzato impara a conoscersi come grado di
conoscenza, produzione individuale di conoscenza, che nasconde il
(proprio)
limite nell'affermazione della (propria) socialità. Solo
ciò
rende reale la città come deposito latente/emergente della
speme,
in cui l'ideologia si ri?produce come discorso su?nella scena, in cui
l'altro
può essere presente solo a patto che si autoidentifichi, che
renda
visibile, attraverso il suo corpo ridotto a segnale, l'osmosi tra
sistema
e processo, tra pro dotto e consumo.
Ciò
che non è possibile (}a fisicità) è già
possibile.
Di modo che, esaurite attraverso la citazione le modalità e la
tipologia,
con cui ciò è (stato) reale il cerchiò si chiude e
la tautologia é perfetta.
Un corpo
è ciò che io sento di (voler) toccare.
La sua mano,
toccandomi, mi sottrae alla macchina, all'umano troppo umano da cui
io?in
quanto?corpo sono ridotto a puro piacere/consumo, alla caricatura della
(mia) inte riorità.
Nella coazione
a ripetere, nella proposizione idealista del
nome?con?valore?di?divieto,
il linguaggio risolve l'in/differenza (fisica) di classe nel sogno.
Anche la
separazione dal corpo e nel corpo comporta passione, l'eccitazione di
uno
sguardo sociale che libera il venire a morte della solitudine nella
solitudine:
perché l'amor senza mutande non lo farem mai più, se
anche
1'errore non sfugge al linguaggio, che ci indica il tragitto tra il
prima
e il dopo.
Ciò
che esiste anche senza essere presente è la cosa che riduce
nella
rappresentazione del tempo l'opposizione di valore che essa produce e
da
cui è prodotta.
La sua mano
è un'intuizione fisica.
Ciò
che esiste (per me) è la sua mano come rifiuto definitivo
dell'immaginario
(e del discorso clinico?terapeutico-politico in cui si costituisce) e,
nello stesso tempo, impronta cui è in/differente la conferma
della
voce che la trasforma in un processo ricognitivo, che è,
immediatamente
e sempre, un twiddling dell'interiorità, una manipolazione
cosmetica
che banalizza il con/tatto rendendolo interessante nella misura in cui
lo pone costituzionalmente ambiguo, oggetto (pretesto) di analisi (e di
linguaggio).
Non ostante
ciò che pensiamo e diciamo, la sua mano, toccandomi, mi (le)
dimostra
che siamo differenti da ciò che pensiamo e diciamo.
Il clou
dello spettacolo (non) è la morte.
Ciò
che ri?mane della fisicità è il simulacro, che riafferma
il limite bio/logico dell'identità.
Nel con/tatto
delle mani la passione ri?emerge come salma di una specie estinta.
Non si sfugge
alla banalità dell'inconscio: perché, in definitiva anche
la faccia del dado è un linguaggio e rinvia ad un tavolo, in un
processo circolare che si chiude nella trasgressione della
trasgressione.
Si ricorre
ad un'economia coattiva della ripetizione, mimando la sospensione
mitica
duna negazione di autorità e arbitrio (innominabile e dicibile),
e rifiutando, nella de/signazione del reale ciò che non
può
essere misurato con il simile.
La s/centralità
della passione si riappropria, sottraendola al lavoro (falsa coscienza)
del quotidiano (la scienza) che la cifra come contro?discorso,
dell'intuizione
materiale della demenza.
Nel feticcio
sessuale, l’id?entità ri?produœ il mio come garanzia simbolica
della
manipolabilità sociale del corpo.
Il linguaggio
in cui la città si dic, supplendo al corpo, per quanto si sforzi
e si sia sforzato di re?introdurre la violence defleurissante della
fisicità
nella grammatica, procedendo di volta in volta per fratture di ordine
dimostrativo
o allusivo, non si sottrae allo stallo della concettualità e
delle
sue imbastiture formali: attraverso il (mio) linguaggio parla la (mia)
città.
Ciò
che la sua mano sta cancellando è il mito umanistico (urbano) di
tout est dans tout, la possibilità di poter usare ancora il
linguaggio.
Il corpo
è inaugurale: nel senso che è il dove (non) siamo,
attraverso
cui, rifiutando il consenso al referto psicoanalistico del collettivo,
che è il simbolo di ogni meta? possibile, si rende in/differente
all'opposizione di omogeneo e disperso, di ideale e terreno che
inducono
all'autobiografia e alla rappresentazione della propria
interiorità.
La sua mano
liquida la teoria sull'altro come degradazione del mio corpo che, sotto
il suo con/tatto, sta mutando.
La fisicità
diventa utopia con l'instaurare la defunzione segnica della s/langue
commune
e opponendosi al consenso (consumo), attraverso cui la città si
offre come fenomeno/fonemano nel quale il dopo è già
presente.
La sua mano
è.la distanza dalla tautologia che io sono e, poiché
ciò
è assolutamente gratuito, non ammette sostituzioni, arché
o telos.
L'utopia
appartiene al corpo, cioé alla materia.
La fisicità
come eros?ione, ricorso alla materia, saldatura tra mondo organico e
inorganico,
permea dal di dentro il dopo, ne fa un mio attributo, consentendomi di
ri?trovare la sua mano come m a r g i n e della mia.
Dopo il
dopo è dopo.