Vico Acitillo 124
Poetry Wave

Recensioni e note critiche

Vitaniello Bonito: Il segretario
di Massimo Sannelli


1. L’impegno di Bonito nel Segretario (“Anterem”, 60 [2000], pp. 33-36) frammenta tutto ciò che potrebbe essere pienezza dello ‘stile’ (spazio, ritmo, respiro totale) per imporre alla lingua il lavoro degli occhi (la visione) e della mente (il collegamento e la meditazione interiore delle immagini): (forse) Celan ‘con’ Pascoli, (forse) Celan ‘più’ Pascoli. Il percorso della scrittura è fatto di immagini su immagini, “neve sopra neve” (Pascoli, Nevicata): a partire dalla “neve” (“nevica nel sangue / e nella luce”, “riverbero / bianco”), che libera anche il “silenzio” (“silenzio devo fare / silenzio educare il mio / silenzio avvolto come avvolge il polipo / il mantello sulla fame”; “gli alberi / bianchi del silenzio”); poi “scale bianche”, “corpo cristallo”, “zampe abbandonate”.

2. Il vero contenuto (alto) è fuori dello stile realizzato qui (non alto, anche nella sua approssimazione onesta al sublime): la nascita notturna e mortale della poesia: “luce” – evocazione e presenza della luce che la notte ha “acceso” per contrasto con il buio, e che nel buio è esaltata (“Dovunque voce ma poi sottile / occhio di gatto / diaframma di buio”) –; “lingua” (poesia) – che diventa occhio per simulare quello che nelle parole non può essere vita del “volto”. Il testo è offerto a colui/colei che abbiamo perso: “È la notte che ha acceso / questo lucentissimo volto – e in te / nella preghiera annegando / chiedo mani da baciare / e mani”, “voce perduta nell’anima / delle foglie crollate nei vasi / voce di luce custode del sonno”, “non può che seguirla la mente”. 

3. La differenza del buio (non luce) rende miracolosa ogni forma di luce; la neve – allo stesso modo – deve essere copertura e purificazione, ma anche possibilità di “riverbero bianco” che moltiplica la luce: essere “luce” è essere presenza (Cristo), “testimoniare la luce” (Gv., 1,7-8) è dire (Giovanni).

4. Le due epigrafi impongono la presenza dell’“incorporeo”, che ha (è) “vera essenzia” L’incorporeità, la luce (nella notte) e la neve (sulle cose) collaborano a creare una disperazione tranquilla in cui ‘avviene’ una ‘cosa’ che riguarda l’amore e il modo di parlarne: “Oh sì bruciare – / tabula nuda nel tenero petto / fuoco alle mani / dopo ogni vocale / buio di tabula buio / apri il tuo cuore / ch’è rotto che muore / nel sole”. L’incorporeo è una (quasi) inesistenza che è in grado di apparire per contrasto con il corporeo e di condizionare la voce: “sub pectore prende / stanza”, come il dio Amore (che – allo stesso modo – è presenza e – nella finzione – persona che ride e piange; nel ragionamento – sul piano della ‘realtà’ – è un modo di dire, come ha imposto il capitolo XXV della Vita Nova).

5. Il poemetto del Segretario rimane – allora – un ragionamento sui rapporti e sulla verità dell’“incorporeo” (la poesia): il repertorio di immagini “poetiche” e “poeticissime” – notte, deserta notte, oscurità, solitudine, silenzio, profondo (Leopardi, Zibaldone, 1798, 2629) – deve collaborare con l’intenzione che sposta il centro logico dalla poesia al cuore di chi legge-vede la notte e la neve. In sé, la poesia isolata dal lettore è una catena di visioni e “un gemito appena”, in cui la vera poesia è il non-detto da trovare: resta da capire se questo modo di far derivare il senso (?) dalla nudità ‘morta’ sia ‘arte’.

6. “Neve” è anche uno degli spunti forti del lavoro di Enrica Salvaneschi, in cui dice la meraviglia del bianco (non-vita) rispetto alla vita e al sole. 

Oppure è il tema forte di un percorso più grande, che – tra l’altro – sembra l’opposizione alla minorità dell’io esposto con Bonito (“io sono / il segretario / il magro / ànsito della notte”): il ciclo della neve nel Documento di Rosselli (Neve, “Mille, piccoli oggetti delicati, la”, Collasso; poi Neve 1973, che contiene un’altra potenza: “Io non sono quello che apparo – e nel bestiame / d’una bestiale giornata a freddo chiamo / voi a recitare”). Proprio nel rapporto ipotetico con Rosselli, la minorità del Segretario appare – anche – legata alla contrazione dell’energia in uno stile che non vuole (più) dire con potenza: allora appare la personalizzazione di quello che Bonito scrive su Pascoli, per arrivare a ciò che è sempre “nostro”: “La cantilena pascoliana è la rappresentazione di una lotta col tempo attraverso il tempo della voce. È il tentativo di riedificare la casa materna, nella voce materna, ed è allo stesso tempo lo spazio sonoro da cui sentiamo di essere stati esiliati. È la forma-vagito del nostro abbandono, del nostro essere stati abbandonati” (La culla aldilà. Su Giovanni Pascoli, “Versodove”, 11 [1999-2000], pp. 38-40).

5 novembre 2000

Indice recensioni e note critiche
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Immagine: Antonio Belém, Phorbéa, Napoli 1997


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