Vico Acitillo 124
Poetry Wave

Recensioni e note critiche

Alfonso Malinconico: Dies ad quem
di Antonio Spagnuolo



Alfonso Malinconico, Dies ad quem
Book Editore, 2000, pagg. 136, L. 22.000

“Accostate le imposte riposi
nell’attesa a spirale
come dei vecchi rubinetti d’ottone spanati:
giro su giro, cauto,
con ansia av…vi…tando un poco e ancora un poco
fino a sentire con qualcuno dei sensi
quel clic del giro a vuoto
come liberazione.” (pag.21)
All’improvviso avverti che non è poi per forza il nulla a magnetizzare le aspettative della irrequietezza, ma anche il burrascoso rapporto che la realtà accosta allo sgomento, quasi a suggerire o a sollecitare l’attesa (a spirale, così come il DNA o come una scala senza fine) prima che la vite possa perdere il segno.
L’autore, e con lui anche il lettore, oscilla ancora una volta fra la nostalgia di un pensiero totalizzante:
“Nell’atmosfera del commiato
riproporre enigmi,
enumerare argomenti,
il fatto storico, le virtù divinatorie.
E poi convincersi…” (pag. 62)
e il rinculo sempre più violento di una sciatta indifferenza degli eventi (storici o personali) trascorsi lungo il cammino delle stagioni e delle frammentazioni culturali:
“Non ho più passi e già mi chiedo
chi sa cos’attende quel dio del canto
quand’ecco alle dita
un delicato vibrare di pena discreto…
… e danza…e canta
…e narra ancora parole da umani” (pag. 97).
“Il cuore e il nervo di quest’opera stanno, forse, nascosti – scrive  Marcello Carlino nella prefazione – in un giro di versi la cui marca semantica appare come un calco del concetto agostiniano di tempo: di qua la memoria (e dunque quanto è stato pensiero e , per effetto del pensiero, quanto viene restituito dal passato e, nella rappresentazione del pensiero, si rende renovatio rerum gestarum, di là l’attesa (e dunque, il progetto del pensiero, che pensa il possibile, il futuro).”
“  Il sigillo, il sigillo!
E questa scatola di pensieri
mi si colma di ceralacca
come i corpi di reato
nella stanza dei corpi di reato.
Sul letto del padre di Amleto
con acido nitrico e gomma arabica
incido nell’ombra la colpa imminente
perché preparano camere
per una veglia d’ufficio;
con l’odore acre dei riti e del venerdì santo
si sprigionano cori dalle fiammette delle candele” (pag. 35).
Qualcosa che assomiglia ad un incubo, ma incubo vero e proprio non è. Qualcosa che violenta gli eventi quotidiani, ma vera violenza non è. Qualcosa che trasformi in danza scatenata le ansie, ma il muro dell’ignoto spezza curiosità e desideri. Ogni cosa  crea involontariamente un limite contro la volontà e le aspettative dello scrittore, e tutto riesce a parlare un linguaggio dal senso orgoglioso e spregiudicato, dal rifiuto della arroganza  alla lucidissima percezione della misura.
Alfonso Malinconico vive sulla punta delle dita l’avventura umana e sociale, effervescente ed ubiquitaria, trasformandola in una eccezionale avidità, in una fervida curiosità, in un dichiarato desiderio di ulteriori esperienze, in una incontenibile risata, che assomigli al furioso possesso della libertà conquistata.
Gli dei, se interrogati, confessano anche di non essere stati della creature innocenti, gli uomini che hanno fatto la storia, se ricordati, dichiarano che non sono poi stati tanto orgogliosi di incidere sul tempo, Boudelaire, Laforgue, Cicerone, Van Gogh e Dostoevskij, Ninetta e Totò, se nominati, non mostrano alcun dubbio sulla caducità e sulla poca certezza del giudizio umano.
L’aver scelto il senso della metafora per allontanare il clamore della periferia, l’aver sottolineato che quel che conta è essere se stessi anche nella poesia, il concentrarsi sul duro nocciolo della materia resistente ad ogni mutamento per poter dire anche le cose indicibili, mette in evidenza l’intimo universo lastricato di pietre turchine e iridescenti , di tensioni esistenziali tormentose, ma già presenti in un futuro pensato, che non ammette ricatti e insofferenze.


Indice recensioni e note critiche
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Immagine: Antonio Belém, Phorbéa, Napoli 1997


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