Vico Acitillo 124
Poetry Wave

Recensioni e note critiche

Enrica Salvaneschi: Poesia
di Antonio Spagnuolo


Enrica Salvaneschi, Poesia, ed. Gazebo, 2000, s.i.p.

La pasta con la quale viene amalgamato questo poemetto di seicentoquindici versi

ha la caratteristica della sostanza capace di trasformarsi, a seconda delle incidenze,
in qualcosa che arricchisca di nuove consapevolezze il dettato da una parte
e l’esperienza vissuta dall’altra.

“E tuttavia, in questa vanità

ti parlo, e ti ripeto in penitenza
quello che in vita non ti dissi mai
-da quando, nel mattino di un’estate
matura a tracimare finalmente
dentro l’autunno ricamato d’oro,
fui gettata alla luce, empio tesoro:
esiliata dall’umido, fiammante
seno materno ormai inospitale
-quasi letale, albume destruente-
nel sereno, tramato veleno,
di questo mondo assurdo e seducente…” (pag.8)

L’oggetto contemplato, - qui la poesia non è follia o ebbrezza - amaro, nasce a prescindere

da tutto e da tutti, e  attenta a non mollare gli ormeggi, con una intelligenza vivida,
sotto la buccia del disincanto, la Enrica coglie causticamente la  disperazione in una scelta
anacronistica di quanto il segno dell’alterità possa ritrovarvi…Un chiaro richiamo leopardiano
che ci costringe ancora una volta a sospettare di questo mondo, con la sua natura matrigna ed ingannevole.
Nello sciogliere l’attimo in cui le metamorfosi naturali cangiano i registri della sofferenza umana
in altrettanti urli contro e per la disperazione la Salvaneschi raccoglie con accuratezza
ed  una attenta critica le gocce che l’onirico le somministra con misurata abbondanza:

“Per il tuo tempo ormai finito, amore,

per la tua pelle fine e vellutata,
per il mio contributo al tuo morire,
per il mio impunibile, impunito
delitto di illegittima difesa,
e quindi in espiabile mia colpa
di crudeltà costante e consapevole…
…per il cibo residuo, vomitato
stagnante dalle inerti tue narici,
colto dal gesto tenero, spietato,
che lo deterse, e ne minimizzò
il valore di spia inequivocabile…”    (pag.7)

Taccuino alla mano i passi diventano a mano a mano coerentemente riconoscibili quali esplosioni

della memoria, turbamenti del rimorso, gioia della ribellione, frattura dell’inconscio, sistemati
correttamente in chiarezza e piacevolezza fra le penetranti definizioni del racconto: l’ombra
di una persona cara riempie il ricordo costringendo l’autrice spesso alla forza della parola,
alla centralità del lettore, al destino delle emozioni, alla sorte stessa della caducità, segnata
dalla vita umana e per la vita umana, imprevedibile, e pur leggibilissima, nel simbolico,
nel mistico, nella sorpresa fuori dal vissuto sognato.

“La poesia cattiva

ti afferrò sul confine della vita,
sul margine di tenebra infinita,
della notte perpetua e troglodita:
il tuo dolore generò un meschino
bisogno di rancore nel dispetto
contro chi, assistendoti, assisteva
alla maligna tua trista deriva…”   (pag. 13)

Chiaro appare il riferimento alla distruzione lenta e triste di un essere amato: la vita non può

essere trattenuta da una cifra immobile, nella fugacità dell’eco o nella impossibilità del ricordo,
nella necessità di una catarsi da urlare apertamente contro il destino, anche se implacabile
e terribile.
Non c’è rassegnazione nella scomparsa di un uomo, anche se potremmo avere rassegnazione
ed amare la scomparsa di quell’uomo che crediamo nel seno senza fondo dal quale egli è venuto:
un tremendo equivoco religioso si affaccia nel bisogno di cancellare per ricostruirne la figura,
preesistente all’amore, cosciente di una storia tutta da scrivere.

Indice recensioni e note critiche
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Immagine: Antonio Belém, Phorbéa, Napoli 1997


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