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Poetry Wave
 

Recensioni e note critiche
Roberto Bertoldo: Il calvario delle gru
di Sandro Montalto


Roberto Bertoldo, Il calvario delle gru
Edizioni La Vita Felice, Milano 2000, pp. 80, £ 16.000

La prima parte di questa densa e scottante raccolta di Roberto Bertoldo, poeta, narratore (Il Lucifero di Wittenberg – Anschluss, ASEFI, Milano 1998), saggista (Nullismo e letteratura, Interlinea, Novara 1998) e direttore della rivista internazionale «Hebenon», è intitolata Lettere alla gazza, alla cicala, al giaciglio, emblemi o simboli rappresentanti rispettivamente il poeta fasullo, la donna e la morte. 

Nella prima parte della sezione l’autore scatena la sua furia, animata da un profondo senso della giustizia e dell’etica, contro le losche figure letterarie che tutti conosciamo, persone che ci parlano «di un silenzio / che io ho dovuto ingoiare» chiedendo sempre sacrifici agli altri, ma che agli occhi privi di ipocrisia palesemente si condannano «a ferire il nulla che attesta[no]» senza poter «cancellare il tono» della loro nullità. Il poeta fasullo è tenuto a debita distanza con un “Lei” che invece non serve fra autori veri, i quali pare possano essere rintracciati solo fra i grandi uomini: «Io so perché Lei, / saldo sulla sedia a dondolo, / ha sconfitto il gomitolo di lana. / Perché Lei ha un’uscita per ogni entrata / e le arcate dei ponti La soddisfano solo di giorno». Poeta accattone, «ogni giorno, ogni notte / Lei ricicla i rifiuti che passa il convento / […] appalta le maree con le parole» e vende fumo, esibizionista e lontano dall’uso della riflessione «si schiarisce la voce / e sul palco, con ispirazione, / mette le tende / e fa l’indiano». Preteso cesellatore dotato solo di martelli inappropriati, rozzo illuso adepto della forma vuota, autentica gazza ladra «scortica l’acqua nel Suo mulino, / la brucia, la riempie di buchi / e non c’è verso che l’acquisti», ed infine fa la figura del gesuita che si crede Galileo: «La Sua esperienza è una bilancia di precisione / con una mira infallibile. / Lei ha grande cura / per la metrica / e le proprie sagome di cristallo». L’urgenza è restituire la poesia alla sua dimensione di dono senza scambio, alla sua vocazione di soddisfazione e contemporaneamente di inasprimento della sete e della battaglia per le idee. 

Nella seconda parte Bertoldo passa alla donna, che interpreta stilnovisticamente (o islamicamente) come “dama”, ma una dama corrotta, scrittrice infedele al prossimo e a se stessa, ambigua quando non scoperta arrivista: «Tu che sei il mio singhiozzo / e la mia deriva, / la lontra che incede nel fertile». Bertoldo racconta la socratica indissolubilità di gioia e dolore, la necessità della lontananza per rafforzare l’unione che qui si corrompe in lontananza, magari epistolare, che crea solo un vuoto in più, data la parallela lontananza intellettuale: «Non è altro la distanza: / un buco che odoro, una –gramma / di vuoti a rendere». La donna non accetta cautele e vigliaccherie dal prossimo ma è indulgente con se stessa, tenta delicate carezze ma una superstite struttura incorrotta che la rifiuta esplode e la smaschera («hai mani in cui i velluti / rompono i cerchi e le botti»); allora lei si confonde, contendendosi la supremazia e la parte di protagonista, nell’enigmatica caverna del «ventre di pagina», con l’atto dello scrivere: «Ti lascio vincere ogni endecasillabo / con la baia del lupo / ma è nella grafite il retaggio / della tua paura». Insomma la «cacciagione ribelle» dell’autore si scatena gettandosi poi nel gorgo dell’amore e «infine cedo alla regressione / e strappo a denti di latte / il tuo cuore», reagendo all’«unghiata d’amore» e consolidando tra l’altro la forza materica dell’ispirazione: «per te regina in croce ho lo spazio di un nodo / che s’aggroviglia sul collo degli uccelli […] Per te impegno il mio legno e t’inchiodo»; «Volami addosso, fata, / alza il tuo corpo / da quei rimasugli di cenere, / mordimi il collo / se non hai più labbra per baciarmi, / e se non hai che unghie / cosa aspetti a strapparmi il cuore?». Ma è sempre chiara l’intenzione di Bertoldo cercare la grande “persona” dietro la “donna”, dietro la sterile bellezza di una “dama”, la quale persona se è assente non può soddisfare un amore che deve anche essere condivisione intellettuale, nonché sensuale. 

La terza parte affronta l’ineluttabile ultima tappa della morte, soggetto (a quanto pare bandito dalla quasi totalità della poesia contemporanea) con il quale colloquiare con un “tu” desideroso di degna comunanza e fondamentalmente privo di terrore: «Come puoi gridare / oggi che la tua lingua non posa / sulla nostra bacca dolente?»: è questa un’altra occasione per rifiutare ogni ipocrisia: «E presenti un mazzo di fiori / ora che è fatta indegna l’apparenza? / Ora che mi hai nitrato di chiaroveggenza?». La disperazione, semmai, emblematica nella quarta poesia di questa sequenza, è quella che nasce dall’impotenza umana di fronte alla propria ottusità: «ad arcuare il tempo / ci abbiamo messo tutto il calore / sull’incudine, sotto il martello. / Ora il tempo ci gira intorno / e noi balliamo, balliamo, / anche cadaveri». 

Nella breve prosa Risposta della gazza, della cicala, del giaciglio che conclude la prima sezione gli emblemi rivivono per convincere il poeta a smettere di «rastrellare il mare», ma egli ancora una volta difende la propria etica: «non vendo ragioni». 

La seconda sezione del libro, eponima, si concede qualche slancio lirico e qualche riferimento quotidiano in più, il linguaggio densissimo dei testi precedenti si stempera un poco a vantaggio di una fusione delle esperienze dopo la catartica e coraggiosa sezione precedente, la sintassi si fa di contro a volte lussureggiante ma mai perde la sua paradossale lucidità e cristallina vitalità. L’emozione si coagula principalmente in riflessioni, necessariamente trasfigurate, e non dovrebbe essere altrimenti in un buon poeta, sugli orrori delle guerre: si leggano i versi in apertura di sezione che alludono ad una bambina senza una gamba che, come una gru, saltava sull’altra giocando a settimana per esorcizzare il suo calvario. Un diverso calvario esistenziale lo vive l’autore, che sceglie come epigrafe una frase di Camus nella quale si dice che le sfortune per essere superate devono trasfigurarsi in tragedia, la quale viene concretizzata in versi certo belli, anche d’effetto, ma soprattutto duri, spietati. La visione non è certo ottimistica, almeno secondo la comune interpretazione: mentre l’uomo «spreme la terra asemica / e s’invola un grido di gazza / agli opercoli del tempo» si sviluppa una «vita incolore / tra cammei a pelle di sardonica» sbeffeggiata anche dalle «liste di clamori aulenti / d’incenso», ma sarebbe un errore ritenere questa un poesia funebre: è la vita, l’esistenza la chiave di tutto, e ogni testo pare confermarlo. Mentre «già si fa notte sulle tue labbra rosse», come una contropartita concessa all’uomo tenace ed autenticamente desideroso di conoscere, «così, sulle tue labbra esangui, si fa vita / una stilla di storia». La rinascita per l’uomo è possibile, ma a condizione che l’energia necessaria egli la cerchi solo in se stesso e nei suoi simili, come metaforicamente è rappresentato in modo efficace nel seguente passaggio dalla poesia Al funerale: «La notte, penso, / la brucia. E poi ricordo / che hai corazza di fango / e amore che nasce / dalla terra, dai lombrichi». Una delle condizioni di sopravvivenza intellettuale per l’uomo pare essere l’accettazione, oltre che dei propri limiti e della propria missione di occhio vigile sopra i fumi delle ipocrisie («non ridete delle mie pupille di fustagno, / vedono ancora i dolori, le desinenze dei sospiri, / i riverberi»), delle proprie contraddizioni: proprio a questo paiono alludere le brulicanti sinestesie che popolano il volume come emesse da un clavecin à lumière, laicissimo atto di fede verso la contraddizione che (Leopardi insegna) è fonte di grandi verità. 

Chiude il libro la breve silloge Poesie della blatta, nella quale ultime note di dolcezza («La tua biondura lusinga le stoppie, / o serva dei corvi. Raccogli la fuliggine / e l’oro con un sorriso. / […] E questa notte spolvero le tue mani») amalgamano un eros accentuato ed incarnato in luoghi popolati di brusii e alte voci levate dalla palude dell’ignavia: «Una volta scuotevo i muri, / calcolavo nei tragitti la giusta misura / della vita. Assaporavo anche i calcinacci. / C’è una clausola in questo», poesie nelle quali abbandonando le asperità Bertoldo suggerisce che non c’è salvezza che possa giungere solo dalla poesia, che dopo tanto cercare il poeta ha solo «parole senza nocciolo, ormai», che tuttavia possono farsi testimonianza importante e insostituibile. Metafore e metonimie si affollano come strumenti di indagine, ma Bertoldo non manca, nel suo – se non raddrizzare – smascherare i “torti”, di posizionarsi per un momento “storto”, da guitto acuto e serio, per inquadrare meglio il neo, il verme aggrappato, per penetrare meglio l’immagine del grande specchio deformante che è stato il Novecento: «sul colle / piegano i castagni ad offesa»; «foglio ubriaco»; «S’è arcuato il vento, / ha appesantito gli armadi di scheletri»; «la marsina scoscesa»; «arcuare il tempo»; «delle mani t’indica in linea curva / l’orizzonte»; «Quell’immagine che si specchia, spiovente, / marmorea ombra d’anima, […] / quell’immagine, / di bistorta acquatica»; «la mia storia si corica come una virgola»; «la lieve curvatura del tuo cuore». Bertoldo, che si dice autore «deriso dal mio stesso anacronismo», si è in realtà gettato a cavallo stando al passo con la riflessione poetica del nostro tempo, con la sua esigenza di uscita dalle secche tanto dell’avanguardia quanto del postsimbolismo ripescando piuttosto certe istanze del simbolismo e dell’ermetismo, con le sue esigenze di uomo che sa ritrovare la sua centralità ben conscio della mortalità che lo caratterizza, un uomo che ha vissuto la poesia, ha indagato sulle ragioni delle sue raggiunte secche e ha sofferto la sua lacerante domanda, che non ha ostentato cicatrici o pensieri deboli ma ha interrogato la ferina «unghiata».

 
12 giugno 2002
Indice generale
Immagine:
Antonio Belém, Phorbéa, Napoli 1997


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