Vico Acitillo 124
Poetry Wave
 

Recensioni e note critiche
Introduzione al senso? Per Marco Ceriani
di Massimo Sannelli


1. Questi appunti riguardano due libri di Marco Ceriani usciti nelle edizioni Flussi a cura di Vincenzo Girelli: Frammenti nel dialetto della Focide (1997) e Lo scricciolo penitente (2001, con una postfazione di Giovanni Raboni). A parte una piccola nota di Patrizia Valduga, I Frammenti furono accompagnati da un opuscolo, stampato dallo stesso editore, di Enrica Salvaneschi (Focide ovvero: sul paesaggio-pronome, 1999) e anche da alcune pagine di Giuliano Gramigna, inedite, che ho letto grazie alla cortesia di Girelli. Dal punto di vista editoriale, i libri sono involucri perfetti, nel loro accordo tra stampa semiprivata e grazia senza lusso; parlarne criticamente è più difficile, se si fa a meno di un piano generale o solo descrittivo (la nota di Raboni agisce in questo modo: imponendo l’idea – e la divagazione – di un pensiero poetante che «non dice» ma «significa», «come l’oracolo» e «come il dio» del fr. 93 di Eraclito). Parlarne è difficile anche per l’assoluta mancanza di appelli al lettore (date, note, epigrafi) all’esterno della poesia, che di per sé è già abbastanza chiusa.

Il colophon dello Scricciolo è un piccolo discorso (dell’editore) su «invisibilità pervicacemente perseguita» e «marginalità efficace». In realtà, sui «margini» – o su alcune (ipotetiche) ‘degnità’ dei «margini» – si può reggere anche il progetto comune della scrittura più alta, e dello stesso Ceriani: separare (simbolicamente, ma non solo) il dolore dalla storia; trasformare la storia in valore, cioè in opera che «aggiusta i suoi suoni / con un’agonia ahimè in sol, un tumore in dorèmi» (Lo scricciolo, p. 11). Contemporaneamente, chi si getta in una biologia – più che una psicologia – del nuovo sente che l’esperienza dei margini assume volentieri il rischio della chiusura/clausura «scontrosa» (cfr. ancora il colophon). In generale, la critica dovrebbe riconoscere il rapporto fra intraducibilità e – nell’autocritica di Amelia Rosselli – «contenutismo»: con il rapporto tra soggetto e materia reale, che sembrerà anche sur-reale nella forma scritta. Disimpegnarsi (ad esempio esagerando la trama greca del libro: cfr. Salvaneschi) evita anche lo choc dell’incontro critico con il senso scritto nel «dotto enigma / indubbiamente a un inno pari» (Frammenti, p. 10). Non a caso, Raboni omette il verbo al centro del frammento di Eraclito («oúte koúptei»: «non nasconde»): il non-nascosto è «la verità intuitivamente colta» (Nietzsche, La filosofia nell’età tragica dei Greci, 9) dal poeta, il senso da cogliere al momento di leggere.

2. Formularità, scansione e arcaismo sono già, di per sé, apparenza e più che apparenza, esattamente nella loro severità nei confronti dell’uso linguistico, come il francese (?) di Nostradamus rispetto al francese. Ciò che si legge viene anche mediato dalla propria adesione personale (corporale) al nuovo: la lingua e la forma di oggi sono i limiti controllabili in cui fermare la materia o troppo viva o troppo irrazionale o troppo deformata rispetto alla sua percezione quotidiana (Gramigna: «Fra tanti elementi di nuova retorica che ho cercato di indicare emerge il fascino di un resto incomunicato. Tale resto riguarda anche qualcosa che attiene all’imprudenza, o addirittura all’impudenza. Ma dico: sennò, per che cosa altro mai i poeti scriverebbero?»). L’operazione di Ceriani deve essere guardata anche come pratica iperpoetica all’interno di un percorso iperpoetico, che impegna tutta la vita (e tutto ciò che è conosciuto nella vita: cfr. l’ostentazione o l’ossessione antichistica – che non prelude a nulla di visibile, dal punto di vista del lettore – di entrambi i libri): «Il linguaggio della poesia è un linguaggio a parte. Sua caratteristica interna e permanente è la diacronicità. Perciò un poeta è sempre ritardato» – come nell’aforisma 148 di Umano, troppo umano – «o anticipato rispetto la circostanza storica e in genere il suo tempo» (Pier Paolo Pasolini, risposta del 18 marzo 1965, in Saggi sulla politica e sulla società, Mondadori, Milano 1999, p. 1054).

A titolo di ipotesi sulla «diacronicità». Se la lingua della Focide è il «vaticinio» (Frammenti, p. 44) della Pizia, la scrittura di Ceriani ha/è il contenuto generale di un vaticinio privo del riferimento al futuro, e quindi tanto linguisticamente liberato quanto umanamente impoverito, se non interviene il tempo della penitenza. L’impressione che il contenuto archeologico sia essenziale ma non unico è confermata dai riferimenti cristiani e/o francescani di entrambi i libri: il poeta scambia continuamente i ruoli tra vita, esperienza e conoscenza, con un effetto insieme onnivoro, enfatico e tragico (cfr. già la seconda poesia dei Frammenti: il «cipresso in presagio di sepolcreta», ma poi gli autori – Dürer, Eschilo, Shakespeare – e i luoghi – Merano, Dobbiaco, Bolzano, Tirolo, Cuma, Delfi). La cultura è humus – e possibilità di riempire tutto lo spazio metrico –, non ancora «verità intuitivamente colta».

3. L’ostacolo critico di ora è la vicinanza: non si può ancora capire se l’opera di fine/inizio secolo sia una grande opera o (solo) un grande problema, e quindi (solo) un grande documento, anche negativo. Di cui descrivere le modalità, semplificandolo per pudore, e non il contenuto scritto, che forse è ineffabile (sacrale e rituale) dopo la prima scrittura: nel caso di Ceriani, «la poesia dei frammenti non è rinarrabile dal suo lettore. Si prenda dunque quel “dialetto della Focide” come una particolare allusione all’atto di discendere e attingere al tesoro limbico della mente (limbico, per usare un termine della neurobiologia, dove si sa tutto e non si sa nulla), preformale – non sarà a caso che limbico suoni non poi tanto distante da libidico» (Gramigna). Altre cose possono essere formulate solo come domande per il futuro: l’autoriduzione dolorosa (e sanguinosa: cfr. gli «emorroissi» dei Frammenti) è un (nuovo) segno di sublime? O è sublime il sogno dell’uscita dalla riduzione? Soprattutto, e pensando al Principio del giorno di De Signoribus: il percorso della (nuova) altezza è di nuovo allegorico?

4. Lo Scricciolo è un discorso penitenziale espresso in una contrazione ‘nostradamica’ e ‘focese’. La figurazione naturale è scarnificata e vagamente ostile: «interdette / e segaligne e macilente al confitèmini / terre» (Frammenti, p. 8), «terra incolta indigentemente detta ghiotta / in una strada acquartierata di Susa Saba Cana» (p. 20), «una valle inospitale, fredda e severa nei suoi verdi esosi» (p. 33), «Se nel ceduo ti inselvi / perché un armistizio di spaccamonti / lascia intatta e visionaria la serpe / nei chioschi dei rovi» (p. 46): «L’erta che vuole è meno ripida della china che nuole / come la strada che sale lo è meno di quella che scende / quando l’aperto sentiero, tu!, tu affronti con suole…» (Lo scricciolo, p. 9), «E se si spande corno e cenere per un centuplo di lai / dal vicino lupanare suono d’Angelus nell’aria / tutto quello che a lei chiedi e che dunque non avrai / è segnato sul registro di una oscura tenutaria» (p. 13).

«Da parte a parte come la tunica a Cesare / fin nell’ossa il gelo infilzava le strade / passava il villaggio… // Ma quella chiesa chiamò a genuflettersi / nel suo nome i fedeli, uno dei quali, il più stanco, / sulla miseranda predella abbandonò le due ghette / per sguazzare coi piedi nudi nel carbone del fango» (p. 23). I rimandi alla cultura sono selezionati anche per produrre un effetto di sacralità non tradotta in fede (e quindi in speranza), e a cui rimane solo il progetto autoriduttivo e ossessivo della penitenza. L’invenzione figurativa è soprattutto all’interno della mente, per cui il libro naturale è un repertorio di passaggi interiori, espressi all’esterno con paesaggi, alberi e animali (la montagna, il melo, la serpe, lo scricciolo, la «sororale rondine», ecc.).

Questo rispecchiamento non lirico delle cose in chi parla, e viceversa, è fortissimo nella poesia a p. 42 dei Frammenti, che abbandona la solita chiusura:

Non per inedia si salassa

la montagna dalla sua sedia

stercoraria di vermiglia invaria

cima che si decèrebra

sotto la flagellazione

della sommaria neve, de

gli appelli de’ suoi incercati allievi

il corvo che circoncide con stralunata lena

il bulbo della pieve, la lepre col suo sonetto funebre

in lode della cera

se nella muta

ricorda così da presso la bufera

acuta e alle provate stelle

riconosce che il telescopio stupra…

Ogni casa trema e il lume è già riserva

e se qualcuno bussa

alla tua casa, copulantesi col tuo uscio, o urta…

Solo ai vivi al mondo 

e a chi custodisce la fiamma per protervia

è dato conoscere fino in fondo

che espressione userà l’inferno!

5.

Riprendiamo la triade operativa immaginata sopra: formularità, scansione e arcaismo del «dotto enigma». In generale, possono essere anche gli elementi ‘diacronici’ di uno dei progetti irrazionali dello spazio letterario: la liberazione dal male sfidato sul piano stesso della complessità organizzata, la crescita e l’interpretazione della pietà e dell’intuito (insieme agli altri animali-umani e umanizzati), la speranza (e quindi una forma poetica di antagonismo, che – al limite – è intraducibile in termini di dottrina politica: cfr. il punto 7 della prefazione di Piergiorgio Bellocchio ai Saggi sulla politica e sulla società di Pasolini). Oggi Ceriani sembra lavorare più ad un avvicinamento a tutto questo che all’espressione di uno status positivo già raggiunto ed espresso dall’interno. La vitalità non aumenta (cfr. Leopardi, Zibaldone, 4450): in generale, tutto il grande lavoro poetico di questi anni – Ceriani incluso – cerca l’equilibrio (e una salvezza) tra irrazionalità del singolo, irrazionalità del mondo e irrazionalità ritualizzata della letteratura così come è arrivata fino a noi; anche per questo non si capisce se siamo di fronte a un nuovo sublime o a nuovi problemi (e nuovi documenti).

(agosto 2001)

 
29 agosto 2001
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Immagine:
Antonio Belém, Phorbéa, Napoli 1997


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