Vico Acitillo 124
Poetry Wave
 
 

Recensioni e note critiche
Sandro Montalto: Un gioco serio con la lingua
di Gianni Caccia


Nel curriculum posto in calce a Scribacchino Sandro Montalto viene definito ludolinguista; una definizione quanto mai appropriata per un poeta che ama giocare con la sua doctrina, vasta e sorprendente data la giovane età, tramite l’artifizio verbale e il gioco di parole, ma nello stesso tempo riduttiva se non si mette in evidenza che tale gioco ben poco ha del compiacimento autoreferenziale (solo talvolta appare un po’ insistita, e si sente l’esigenza di una depurazione che non può non avvenire con il conseguimento di una maggiore maturità artistica), bensì serve da spoudogeloion, dal momento che sotto il lusus, la combinazione divertita di significanti e significati c’è una solida meditazione sull’esistenza e sul ruolo che in essa può rivestire, oggi, la poesia e chi la pratica.

Ironia e autoironia, dunque, strettamente connaturate: come chiarisce Rinaldo Caddeo nella prefazione, Montalto sembra chiudere la parabola inaugurata da Corazzini sullo status di poeta nella società contemporanea irridendo a certi cliché di uno pseudomaledettismo di maniera che non scandalizza più nessuno e interrogandosi, attraverso l’artifizio dello spoudogeloion, sull’essere poeta oggi, una possibilità che l’autore vede negata o comunque messa in forse dall’omologazione e dal disfacimento del mondo; in questo senso vanno intese le immagini macabre insistentemente presenti nei suoi versi e non riconducibili soltanto a un certo compiacimento, ma funzionali all’espressione di un motivo pessimistico, di un senso di putrescenza del mondo attuale che nella sua continua trasformazione e lineare fuga in avanti nega validità, consistenza alle cose e le corrompe ancora viventi. Allora l’ironia diventa l’unica lente attraverso la quale secondo Montalto la realtà può essere vista, o meglio smascherata per quello che è il putrido inganno dell’apparenza («Non vedi com’è tutto ridicolo, secca e paralizzata smorfia / di pagliaccio dalla risata isterica e dal volto disperato?» si legge in Prologo asintotico, la poesia d’apertura della raccolta); e la speculare ironia è la sola àncora di salvezza, l’unico mezzo rimasto per fare ancora poesia senza atteggiamenti affettati da poeta e infingimenti: «mi camaleontizzo fra verso / e verso, mi spalmo pallido / e guardingo sul bianco del foglio / poetico» (Schegge 9); «Questa linea la manipolo e sferruzzo / per creare segni che dicono e non dicono, / per seghettare orizzonti come lati di francobollo / che si appiccica sul senso del mio indagare, / sull’ipotesi di senso del mio trovare, / [...] come ignaro / il mio logorroico meditare (temo) / fuori dal bicchiere» (Schegge 16); «tutto quello che vorresti dire, tutte le parole che si nascondevano / dietro all’incertezza e all’incongruenza (o quasi tutte, o quelle almeno / che ti sono sempre servite quando la gola si annodava), tutte le parti / a tessera di puzzle della tua vita oramai si incastrano con il nulla» (Così non va bene). Questa rappresentazione di sé raggiunge il vertice della sua amara serietà nella serie di testi eponimi della raccolta: «Ed ecco il mio nome, che è scritto qui / su questo foglio di carta riciclata / piegato a protocollo, che sono io / (proprio io, in fondo)» (Scribacchino 1). Così l’autore arriva a scriversi gustosi epitaffi in cui svaluta la propria arte dall’ottica dell’uomo comune, il che viene quindi ad essere una riaffermazione della propria dignitosa alterità, senza alcuna tronfiezza o compiacimento: «gli elogi sulla mia tomba nessuno scopra / tanto poi un cane pulcioso passerà / e ci piscerà sopra» (Requiem); «Riposi in pace, / nessuno spirito gli faccia mai sapere / quanto sia stato inutile il suo verseggiare. / Conservate tutti in un angolo del cuore / il ricordo di quest’uomo, / ancora vivo» (Epitaffio per me). Per questo Montalto preferisce prendere sul serio le cose ridendo, per esorcizzare la realtà denudandone il nulla che è. Questa è la sola àncora rimasta al poeta in una società che lo ignora, il che è peggio del rifiuto: «La saggezza consiglia di evitare / i lavori non retribuiti, le fatiche / fatte solo per il piacere di scocciare la gente. / L’analfabeta catodico urlava nel giallo / feroce, fra le linee rosse, diagonali...» (Simboli). 

La raccolta Scribacchino, come abbiamo sopra accennato, presenta ricorrenti immagini che indulgono al putrido, al macabro, al disfacimento, non di rado accompagnate da un bestiario che è loro degno corollario e che rimanda a una vena poetica cara a Mario Marchisio, non a caso ammiratore del nostro e autore del risvolto di copertina del libro. Ne diamo qui un campionario: «mosche vermiformi assatanate», «tutti siamo un po’ viscide rane, topi fetenti e bavosi gonfi rospi» (Prologo asintotico); «morte che vomita vita brulicante» (Refrain 1); «Ti ho visto e non eri che un teschio / ricoperto di pelle malata, sfinge carnosa / e rugosa verso l’ultimo letargo» (Schegge 10); «Non so che animale fosse quel viscido ammasso / di teste e squame [...] emettente versi raccapriccianti e strani liquidi. / Come simil-cobra sputatore mi spruzzava di (sospetto) / acidi gastrici o veleni, o forse attende solo / di uccidermi con lo sguardo, di bere il mio / sangue o succhiare tranquillo tutto di me, me sciolto (L’animale); «è un retro di scontrino che vergo / con pezzi di sangue coagulato. / [...] come muto sommelier coprofago, / come elogio funebre accartocciato / e gettato nella bara» (Telegramma); «Una penna è arrotata sui nervi scoperti, / i masticanti ingranaggi si bloccano / per un attimo, poi inghiottono, riprendono / il loro pasto» (Simboli). 

Accanto a queste, e a queste complementari, troviamo non meno frequenti immagini dell’eterno dolore del mondo, della sua malattia-male, che non contempla alcun messaggio salvifico, dove tutto è un essere per la morte: «A me la mia storia / ha regalato momenti di vita e di morte; / tutto è ciclico, tutto ritorna / come le speranze perse, le ore storte» (Schegge 3); «e la morte piano si adagia / fra le pieghe del respiro / che ancora stenta a crederci» (Schegge 15); «Chissà quante lacrime miste / a questa pioggia / [...] Chissà quanto niente / sotto a questo tutto / come un’elemosina / quante rocce aguzze che aspettano / la caduta dei nostri corpi / bianchi e molli / per poi scomparire e privarci / anche del piacere di un’attesa / terminante con una conferma, / e farci cadere all’infinito / nel nulla» (Chissà); «Il tempo passato è fra le sabbie, / detriti mascherati / da se stessi, paludati in una somiglianza evocata; / tendono a confondersi fra di loro volti amati e / spettri di rabbia / [...] (focomelico / un nostro io arranca e si trascina fino al fango / di un passato orizzontale, piatto, come lente / in lenta danza ipnotica» (Tempo); «Una mano stringe la tua ma fra le ossa / ha l’anello della morte, una gola secca / ti parla di amore e di amicizia ma la voce / ha il suono di un vecchio chiavistello» (Sul riso). L’approdo di questa poesia che mostra il nulla fuori e dentro le cose non può che essere il nichilismo: emblematica è la poesia Non lo sono, lo scrivo, devastante dichiarazione di non-poetica. Parallela è la spietata analisi di un autoironico “piccolo me” dal sapore pirandelliano che è «caduto / dalle scale del tempo / portando con sé qualche coccio / e si è rotta la sua fragile / bolla di sapere / mentre le strisce di sangue / cercavano di comporre qualche parola» (Schegge 14); la poesia diventa quindi una «ninna-nanna al mio me» (Scribacchino 2). 

L’originalità della poesia di Montalto sta però soprattutto nella poikilia stilistica, nella capacità, cui si è accennato sopra, di mescolare vari registri linguistici e di giocare con essi. La sovrabbondanza, l’acribia del particolare, specie se stravagante, l’accumulazione, il turgore di ascendenza barocca sono procedimenti stilistici cari a Montalto, e complementari alla sua tendenza ad amplificare e dilatare il verso, non di rado ipermetro, anche mediante l’artificio della parentesi, da lui spesso utilizzata, o dell’accumulo e giustapposizione di aggettivi: «vecchi disgustosi cucchiaini arrugginiti», «le perpetue ineluttabili inimmaginabili invenzioni sadiche» (Prologo asintotico); «scrivo eterne parole in inchiostro indelebile / su immobili, inamovibili, granitici registri» (Passaggi d’amore 5); «solitario altezzoso occhio spento» (Epitaffio per me). Il gioco combinatorio diventa quindi un modo di intendere il reale, di possederlo attraverso la parola, di dare ad esso un senso sempre più sfuggente e inafferrabile attraverso la ricerca di rime quanto mai libere, non di rado interne e al mezzo, assonanze, etimologie e paretimologie, anafore e ripetizioni di termini corradicali, ripresa di frasi fatte e modi di dire, che vengono nel contesto ripotenziati, allo scopo di cogliere attraverso questi procedimenti oscure e nascoste referenze. E’ il modo per cercare di afferrare parole recalcitranti, che sfuggono a una codificazione, a una disposizione poetica, all’imposizione ad esse di un senso. Alcuni esempi tra i tanti che la raccolta offre: «un canonico cardiotonico catatonico», «periodi di incubazione cubici ed ellittici» (Prologo asintotico); «faccio collezione di respiri / sempre che io non spiri, / faccio una faccia straccia che si affaccia sfacciata, / faccio il passo più lungo della gamba di un altro, / faccio fatti oltre che parole ma non amo quelli degli altri, / mi faccio in tre ma dopo che li ho fatti siamo in quattro, / faccio la freccia che scocco ma faccio per dire. / Qui ci sono per fare ma anche per disfare / ciò che è stato fatto sfatto, / e che sfatto sembra finalmente fatto» (Non lo sono, lo scrivo); «in morbide taglie e frattaglie» (Schegge 7); «Morte: muta metafora o meritata meta? / Occhio orbo e ottuso d’oscene / Rumorose risate e rituali, / Tragiche (talora turpi) tradizioni? / Evocazione d’estreme energie (esequie)?» (Per una nuova parola morte); «mi insacco nel mio smacco, / come un secco pacco che spacco / per disegnare col mio sangue copioso / la tua bella copia su un muro» (Passaggi d’amore 3); «...e altri pezzi pazzi di un pazzo puzzle» (L’animale). Affini a questi sono i casi in cui Montalto gioca ironicamente con la propria doctrina, facendo il verso, è il caso di dirlo, a citazioni ed espressioni consunte dall’uso: «fuggi gli allori (e il rosmarino), rifiuta le trionfanti / trombe in fastosi squilli, di ottone e di cotone / (possibilmente quello emostatico), / di Eustachio e di Falloppio», «codeste squallide batracomiomachie / (e con esse tutti i paralipomeni)» (Prologo asintotico); «Con un ago (e un cammello) tesserò una fitta trama di versi» (Scribacchino 4).

Ci auguriamo infine che questa analisi e gli esempi di cui abbiamo voluto corredarla siano riusciti a dimostrare come Sandro Montalto prenda tremendamente sul serio la dimensione del gioco, e come il ludolinguismo sia per lui una metafora tremendamente seria dell’esistenza, l’unico modo per prendere sul serio la vita, per sopportarla: giocando con essa come baluardo contro il nulla.

3 giugno 2001


Indice della sezione
Indice generale
Immagine:
Antonio Belém, Phorbéa, Napoli 1997


Per informazioni, si prega contattare:
Otto Anders