1. Forse l'anima è divina, ma non
è indispensabile
2. Giardino botanico
3. Nella sua culla malodorante il
bambino allunga la mano
4. Nonostante i trionfi della scienza
applicata
5. Ospite cara del mio corpo
6. Pastorale
7. Notte tranquilla
8. Visioni e desideri della notte
9. Il mondo
10.
Alla vita
11.
Voglio paragonarti soltanto al vento
12.
Se questo istante fosse l’eternità immutabile
13.
Ah chi di noi un giorno non è stato
14.
Quant’era bella e svariata la vita!
15.
A mio figlio
16.
Al fuoco
17.
Fuori del limbo non c'è eliso
18.
Il creatore crea dei segnali
19.
Gemevano, piangevano, trascinavano
20.
Uno strato di creta biancastra
21.
Vuoto, dio, nulla, sono nomi di cose
22.
Comunque sia, questo mondo è per te
23.
Quando tu, mia poesia, leggi poesia
24.
Vieni con me non dico, dico portami
25.
Eh no, voi paladini, che state a fare
Biografia
Bibliografia
Testimonianze
1.
Forse l'anima è divina, ma non è indispensabile
Forse l'anima
è divina, ma non è indispensabile
quanto
il corpo in cui dimora e ch'è la sua cagione.
alla prima
infanzia in poi questo corpo è la prigione
dell'anima
che fermenta come una massa malleabile
per
finalmente
impietrirsi nelle forme più strane,
dall'uccello
melodico fino alle peggiori iguane;
ma sempre
scomodissima perché non riesce a uscire
da un corpo
inadeguato e sempre meno forte,
il che
provoca disordini difficili da guarire,
le complicate
nevrosi che accelerano la morte.
2.
Giardino botanico
Ti ricordi
quell'albero diletto,
cielo dei
pomeriggi verdi e gialli?
Era una
quercia, era ospitale ed era
come un
albergo variamente inciso
dagli
avventori
di altre primavere.
Noi non
vi abbiamo scritto il nostro nome;
eppure
quando tutto sarà morto
non
rimarrà
il ricordo di due ombre
che un
giorno si baciavano le mani,
anche se
le ombre non sono più quelle?
Le domande
retoriche non trovano risposta.
Per meglio
rivederti mi allontano:
così
giovane, come una barca al sole.
3.
Nella sua culla malodorante il bambino allunga la mano
Nella sua
culla malodorante il bambino allunga la mano
per prendere
qualche oggetto di solito troppo lontano
che la
sua mente nebbiosa considera interessante;
ed è
tutte le persone possibili in quell'istante.
Poi, col
tempo, andrà escludendo molte personalità,
rifiutando
o trascurando migliaia di possibilità:
non
sarà
prete né artista né meccanico d'officina,
non
sarà
un esploratore né emigrerà in Palestina,
nemmeno
sarà la copia di una persona esistita;
come ogni
essere del mondo dovrà vivere la sua vita.
4.
Nonostante i trionfi della scienza applicata
Nonostante
i trionfi della scienza applicata
gli strumenti
migliori per osservare l'universo
sono ancora
la penetrante lampada del verso,
la musica,
la voce di una gola privilegiata,
oppure
nella penombra delle candele sparse
il pulpito
cosmatesco di diorite incrostata;
qualsiasi
luce indicante dove un pensiero arse,
semplici
torce o splendidi lampadari,
monasteri
carpatici tra i boschi secolari,
rune
d'Islanda
con principi bruschi,
falli d'ambra
nella foresta, sarcofaghi etruschi.
Alla luce
di questi lumi l'uomo si muove più sicuro,
vede i
tramonti, vede le rive del mare,
e pronuncia
parole il cui senso oscuro
gli si
comincia infine a rivelare.
5.
Ospite cara del mio corpo
Come ogni
re si fa una reggia nuova
ognuno
deve costruirsi una morte
per sé
e per i suoi cari.
Un padiglione
di diporto o caccia,
un mare
verde senza avvenimenti
o un luogo
di penitenza.
Nessuno
tollera la decomposizione
dell'anima
che non si può pensare
fuori dal
corpo vivo.
Tessuta
di materia e di parole
dove vai,
così fragile e labile,
anima quando
muori?
6.
Pastorale
C'è
un vetro in questa stanza, una finestra
di vetro
opaco e resistente. Il sole
traccia
sul vetro l'ombra di una pianta
e il rapido
percorso di una mosca
in cicliche
figure ricorrenti;
un cane
dà la caccia a una gallina.
E dietro
il vetro azzurro e verde, io.
Alla mia
destra un muro di mattoni,
stipiti,
soglia e il vano di una porta
aperta
sul giardino e il cielo intenso
solcato
di eucalipti, pini, ailanti,
giovani
querce, aerei,
voci di
uccelli e piante di lillà,
il mio
fiore diletto
se più
che gli altri ti somiglia.
Il sole
muove le ore,
la crescita
fomenta delle piante,
trascina
le ombre, origina tramonti
e dà
corso alla notte.
E a
mezzogiorno
allaga i prati gialli.
Volgo lo
sguardo verso la città,
il gesto
involontario degli assenti.
Un uomo
falcia l'erba del giardino;
romba un
motore, tubano colombe,
ruote,
invisibili bambini, cani,
e il
falciatore;
ti amo
come le
lente nuvole nel cielo
tranquillamente
superiori.
7.
Notte tranquilla
La punta
delicata delle tue dita, il finissimo
silenzio
delle mie labbra che su di esse
trova il
brillìo delle acque, la luna
che sorge
da uno stagno di larghe foglie;
più
in alto passa il vento, per gli alberi,
e nel cielo
la notte.
Adesso guarda
come è
dolce la vita, come si allontanano
le orbite
eteree abbandonando
una luce
sulla nostra fronte.
Io ti amo
e le ore
salgono; ascolta il fruscìo
sconosciuto
della notte e infinito.
Lentamente,
nelle mie braccia, senza turbare
l’eternità
che l’aria sta formando
con i suoi
cerchi immobili, contempla
il pallido
riflesso che ondeggia tra le foglie,
questo
istante che siamo sulla terra,
sospeso.
Lassù, per gli spazi azzurri
vagano
suoni leggeri, e le stelle.
8.
Visioni e desideri della notte
Con diamanti
sulla testa,
con una
rete di diamanti che brilla come l’acqua,
rapidamente
passi per l’etere trasparente
con bagliori
e con fiamme;
il vento
e l’armonia ti hanno cinta di nuvole,
la tua
bellezza è eterna e si ripete tra le stelle.
Ma i miei
occhi non vedono, soltanto ascolto
vaste ali
che muovono lo spazio.
Vivere,
morire, tutto è un fumo grigio
quaggiù,
e il mio nome giace in fondo a un lago;
debbo
piangere
davanti a un fiore, sapere che mai,
mai
più
ti vedrò. Oh baciarti, oh le mie forze
che strappano
i rami per piangerci sopra!
Guarda
l’autunno già, è da molto che aspetto,
forse le
foglie nuove vorranno vedermi ai tuoi piedi,
sui prati
del cielo, molto lontano.
Traversa
la notte, l’autunno, illuminami
come l’acqua
che versa il suo chiarore sulle pietre;
ho tanto
sofferto, tanto, tutti sono stati
così
crudeli con me. Oh l’aurora, l’aurora
che
già
prende il volo sul mare!
9.
Il mondo
Come sei
puro e delicato, o mondo!,
con paesaggi
notturni e con aurore,
con giornate
e con sere riposate,
austero
e pieno di un ardore fecondo.
Come sei
vasto, apatico e profondo;
con che
rigore accogli i nostri sguardi,
e ignori
le parole pronunciate
da una
bocca che cambia in un secondo!
Nulla diranno
che possa commuoverti;
nulla alle
stelle può recare danno,
abituate
a guardare la stessa morte
che l’uomo
attiva e ignaro incoraggia
sperperando
i suoi fuochi in vani alterchi
e facendo
una vita turbolenta.
10.
Alla vita
Come nel
suono colto delle migliori
parole
che descrivono l’universo,
c’è
un piacere così alto e diverso,
oh vita,
nei tuoi rapidi colori,
che in un
tempo infinito sognatori
noi vorremmo
guardare quel disperso
delirio
che ripeti come un verso
riempiendoci
lo sguardo di splendori.
Che mirabile
onore è l’ondeggiante
principato
dell’abito che spieghi,
che paesaggio
imperiale è il tuo Presente!
Non potrò
mai ringraziare abbastanza
che da
un pugno di terra umida e cieca
tu mi abbia
fatto così vivo e amante.
11.
Voglio paragonarti soltanto al vento
Voglio paragonarti
soltanto al vento
che vola
per l’aria e rallegra le foglie,
e dirò
che la mia anima nel vento si stende
mentre
i tuoi gesti aprono fiumi diversi di luce.
È
lo stesso rumore con cui il sole attraversa
soavemente
le nuvole e le sfere azzurre
il tuo
nome, ed è il nome ch’io do al silenzio
notturno,
mentre girano le stelle del cielo
con passi
maestosi.
12.
Se questo istante fosse l’eternità immutabile
Se questo
istante fosse l’eternità immutabile,
sempre,
sempre davanti a me il tuo corpo così bello,
come lontane
musiche che salgono esaltate
tra luci
cangianti e vapori iridati!
Voglio chinare
la fronte e baciarti le mani
mentre
dietro ai tuoi occhi passa un giardino incredibile,
un luogo
voluttuoso dove il pensiero
si immerge
nelle acque dolcissime e in un sogno.
E accostarmi
alle tue labbra, e conoscere la morte,
uno spazio
di angeli, l’oblio.
13.
Ah chi di noi un giorno non è stato
Ah chi di
noi un giorno non è stato
come una
statua di alabastro
illuminata
interiormente,
nuotando
senza accorgersi
sulla schiuma
iridata delle ore!
Come un
orecchio al sole trasparente
il nostro
corpo acceso era venato
di rosa
e risplendeva.
14.
Quant’era bella e svariata la vita!
Quant’era
bella e svariata la vita!
Come si
succedevano velocemente
le gioie
e le delusioni,
come si
alternavano le stagioni,
quando
il tempo ci bagnava nella sua corrente!
E talvolta
bastava il volo di un uccello
a disegnare
in cielo la vastità del tramonto.
Ora invece
che cosa siamo?
Solo un
profumo di fiori appassiti,
una
fotografia
strappata;
non abbiamo
lasciato una traccia sugli specchi;
nei fiumi
in cui bevemmo le acque sono mutate
e gli alberi
che amavamo sono ormai tutti abbattuti.
15.
A mio figlio
Abbi fiducia
nella vita
e non nelle
ideologie;
non ascoltare
i missionari
di
quest’illusione
o quell’altra.
Ricorda
che c’è una sola cosa
affermativa,
l’invenzione;
il sistema
invece è caratteristico
della
mancanza
d’immaginazione.
Ricorda
che tutto accade
a caso
e che niente dura,
il che
non ti vieta di fare
un disegno
sul vetro appannato,
né
di cantare qualche nota
semplice
quando sei contento;
può
darsi che sia un bel disegno,
che la
canzone sia bella:
ma questo
non ha certo importanza,
basta che
piacciano a te.
Un giorno
morrai; non fa niente,
poiché
saranno gli altri ad accorgersene.
16.
Al fuoco
Fuoco, compagno,
caro amico dell’ombra,
ardi e
ti spegni e grazie a me riprendi,
te disperato
che bruceresti il mondo
e qui da
solo bruci te stesso, in te
raccolto
come Elsa Morante all’alba
quando
accende la pira di ogni giorno
e si
dà
in pasto sulla brace lenta.
Figlio
del lampo ora sei figlio dell’uomo,
bisogna
alimentarti, gatto rosso.
Diventa
tigre, esci, cresci, divora
tutto se
hai tanta voglia, facci ceneri,
che ognuno
dal suo fuoco solitario
sia morso
e fatto bello, fatto fiamma,
si congiunga
all’incendio originale.
17.
Fuori del limbo non c'è eliso
La società
ti insegna: questo è bello,
è
buono, è vero, e non devi far quello.
A ciascun
uomo offre già pronte l’etica,
la
metafisica,
la logica e l’estetica.
Di quando
in quando, però, spunta un veggente
che spiega
agli altri che non è vero niente.
Poi scompare,
e la società si adopera
a travisare
il senso della sua opera.
È
strano infatti che essendo lei noi stessi
le stia
così a cuore il farci fessi.
Quale comunità
del mondo animale
insegna
ai suoi l’arte di farsi male?
Ma gli animali
non possiedono, è vero,
la
facoltà
di esprimere il pensiero.
18.
Il creatore crea dei segnali
Il creatore
crea dei segnali
sul nulla
che non muta per firmare
con la
sua firma quella nullità,
e questi
segni che segnano il nulla
cantano
il canto della propria morte
e il nulla
vibra di mortalità.
Piante,
animali e sassi di quel canto
colgono
solo la nota istantanea
ma l’uomo
che ha memoria coglie il canto.
È
un segnale che interpreta i segnali,
e davanti
all’enigma di una nota
che coglie
le altre note separate,
giunge alla
sola soluzione possibile,
insita
nel sistema segnaletico:
il creatore
che segna il nulla è lui.
Così
per lui un coro di galassie,
di soli,
di pianeti e di comete,
di terre
e mari e nuvole e nazioni
e di atomi
infiniti circolanti
nel turbine
del nulla nominato
canta il
canto pomposo del creato.
Lui non
si accorge ch’è una sola nota,
la nota
muta che emette l’entropia
quando
ha raggiunto lo zero assoluto.
19
Gemevano, piangevano, trascinavano
Gemevano,
piangevano, trascinavano
lunghe
cordate di masserizie usate
per deserti
di pali di cemento,
dovevano
salire sopra un colle
e calare
nel nulla dall’altra parte,
la
passeggiata
si chiamava vita
e molti
si fermavano a raccogliere
biglietti
usati di diecimila lire
per
sventolarli
tra i pali di cemento
pur gemendo,
piangendo, trascinando
lunghe
cordate di masserizie usate,
su per
il colle curvo, e chi franava
dall’altra
parte volontariamente
o
involontariamente,
sorprendeva,
perché
a tutti piaceva trascinare
lunghe
cordate di masserizie usate
su per
il colle gemendo e piangendo
e sventolando
i biglietti raccolti
che prima
di franare regalavano,
contenti
della bella passeggiata,
peccato
che finisse così presto,
dover
lasciare
i pali di cemento
e la cordata
di masserizie usate
ma altri
sorgevano dal nulla impazienti
di salire
sul colle trascinando
altre cordate
di masserizie usate
che si
impigliavano nei pali di cemento
e di
raccogliere
i biglietti buttati
da quelli
che erano già sprofondati,
e che nulla
diceva che non fossero
gli stessi
che sorgevano da questa parte.
20.
Uno strato di creta biancastra
Uno strato
di creta biancastra,
una fascia
di sabbia argillosa,
uno strato
di polvere vulcanica,
un deposito
di detriti marini,
una vena
calcarea traforata
da
infiltrazioni
di alto tasso salino,
un sinclinale
cretaceo rosso
su un letto
di morene del precambriano,
un
considerevole
manto di lava
che preme
sull’argilla resa schisto,
uno strato
di puri silicati
sopra una
vena di gneiss metamorfico,
una colata
di granito magmatico,
un’irruzione
di tardo devoniano,
altro granito
ricco in feldispati,
ère
intere che gravano sulle ultime
tracce
di vita su questo pianeta.
21.
Vuoto, dio, nulla, sono nomi di cose
Vuoto, dio,
nulla, sono nomi di cose,
messaggi
chiari privi di rumore,
ma se il
rumore aumenta e la parola
si sgretola,
si disfa, si rabbuia,
appare
il nome dell’innominabile,
di ciò
che è fuori del linguaggio,
non vuoto
come estrema rarefazione
bensì
futy gksatyrj rith islej gkbos
non dio
come caos ordinato
ma iostpe
net ooruti jamozp ner
non nulla
come assenza di qualcosa
ma oefryth
ki loppru tirp plutje lé
non morte
come assenza di qualcuno
ma uero
thopa jutfop sertyved.
22.
Comunque sia, questo mondo è per te
Comunque
sia, questo mondo è per te.
Mi sono
domandato molte volte
a che
serviva,
e non serviva a niente,
ma adesso
grazie a te ritorna utile.
Fa il conto
della merce abbandonata
da Dio
e prendila, l’hanno fatta per te
millenni
di uomini che non ti conoscevano
ma che
cercavano di prefigurare
in templi
e tombe di roccia e biblioteche
uno stupore
come quello che effondi
quando
sorridi e fai fermare il tempo
e tutti
ammutoliscono rapiti
e ti alzi
e dici, « io me ne vado a letto ».
Dormi,
al risveglio sarà lì il tuo retaggio:
una
città
che fu famosa assai,
un fiume
sporco cantato dai poeti,
il cinema
dove hanno ucciso Giulio Cesare;
e intorno
valli, montagne, mari, oceani,
e capitali,
e continenti e selve,
e piramidi,
e versi, e adoratori
della tua
forma esterna o quella interna
e in alto
il cielo e il sole e le stelle e la luna
e sulla
terra le bestie ubbidienti
a te che
infine vieni a giustificare
la loro
straordinaria varietà.
È
tutto tuo e non finisce mai.
23.
Quando tu, mia poesia, leggi poesia
Quando tu,
mia poesia, leggi poesia,
si oscura
il cielo di una luce verde,
la gente
sfugge la riva del mare
per un
senso remoto di tempesta
o di
contrasto
tra gli elementi,
vampe si
inalberano sui fili dei tram,
e un gran
silenzio cala sulla città:
è
la poesia che contempla se stessa.
Leggi parole
di un tempo scomparso,
di un
presente
che crolla senza sosta
velocemente
nell’informe passato,
leggi di
re e corone, giardini e guerre,
tu che
sei la corona di ogni impero
e il giardino
del mondo conosciuto
e la guerra
dei sensi della natura,
leggi,
« chi crederà i miei versi in avvenire
se dico
adesso tutto il tuo valore? »
e accade
in quel momento che quei versi
come una
freccia scagliata nei secoli
raggiungono
chi un giorno li ha ispirati.
E allora
il buio verde si fa totale,
la gente
si rintana, sopraffatta,
e in un
silenzio come di terremoto
si alza
la luna sui Castelli Romani
e lentamente
volge tutto all’azzurro,
mentre
tu, mia poesia, leggi poesia.
24.
Vieni con me non dico, dico portami
Vieni con
me non dico, dico portami.
Davanti
a un Santo o a una Madonna chi
direbbe,
« vieni, andiamo in Tunisia »?
Ma se
l’immagine
se ne andasse in giro
chi non
vorrebbe accompagnarla, chi?
A trenta
metri vedo molto bene,
vorrei
seguirti sempre a trenta metri,
e a volte,
presso un fiume o una fontana,
avvicinarmi
a tanto irraggiamento,
se dormi,
se riposi, se sorridi,
per poi
la sera chiudermi nel buio
e accertare
che splendo anche da solo
e che al
di sopra del registratore
col nastro
inciso con la tua voce
si addensano
apparenze luminose
che in
altri tempi si chiamavano angeli,
forme
sospese,
spiriti apprendisti
che da
te vogliono in quei rari paraggi
imparare
purezza e tenerezza,
ritegno,
verità e altre arti angeliche
mai viste
insieme, né in quei luoghi né altrove,
o come
si asservisce una nazione
abbassando
le palpebre semplicemente.
25.
Eh no, voi paladini, che state a fare
Eh
no, voi
paladini, che state a fare
e personaggi
veloci della storia
che vi
perdete la cima della scala
e non rendete
onore a chi la onora?
Soltanto
gli Hohenstaufen dovranno farlo?
Venite
a Roma, cavalieri d’Artù,
prodi di
Orlando, mussulmani
rabbiosi,
voi tutti
che viaggiate sempre a cavallo,
re,
masnadieri,
paggi, granmaestri,
se intasate
la strada non fa niente,
mongoli
di Samarcanda, vandali sozzi,
crociati
del Baltico, mòravi, sciiti,
e voi
conquistatori
delle Indie,
predoni
di Bahrein e di Macao,
a mezzanotte
voglio vedervi tutti
fare le
corse intorno al Colosseo,
fare un
torneo, o quel che preferite,
per far
vedere come era rozzo il mondo
finché
non è calata questa luce
che
più
mi abbaglia quanto più mi rischiara,
questa
improbabile mutazione umana,
questa
fonte energetica inesauribile,
questa
gnosi, o sophia, o trascendenza,
questa
persona fragile e sicura
che abita
purtroppo così lontano.
Biografia
Juan Rodolfo Wilcock nasce a Buenos
Aires il 17 aprile del 1919, da padre inglese, Charles Leonard Wilcock,
e da Aida Romegialli, argentina, di origine italiana e svizzera.
Compie gli studi regolari e frequenta
la facoltà di Ingegneria Civile nell’Università di Buenos
Aires.
Nel marzo del 1940, la sua prima
raccolta di poesie, Libro de poemas y canciones, ottiene il Premio
Martín
Fierro dalla Società Argentina degli Scrittori, e poi, nel marzo
del 1941, ottiene anche il Premio Municipal.
Tra il 1941 e il 1942 ha inizio
l’amicizia con Silvina Ocampo, Adolfo Bioy Casares e Jorge Luis Borges.
"Questi tre nomi e queste tre
persone - scriverà Wilcock, anni dopo, verso il 1967 - furono la
costellazione e la trinità dalla cui gravitazione, in special
modo,
trassi quella leggera tendenza, che si può avvertire nella mia
vita
e nelle mie opere, a innalzarmi, sia pur modestamente, al di sopra del
mio grigio, umano livello originario. Borges rappresentava il genio
totale,
ozioso e pigro, Bioy Casares l’intelligenza attiva, Silvina Ocampo era
tra quei due la Sibilla e la Maga, che ricordava loro in ogni sua mossa
e in ogni sua parola la stranezza e la misteriosità
dell’universo.
Io, di questo spettacolo inconsapevole spettatore, ne rimasi per sempre
affascinato, e ne conservo il ricordo indescrivibile che potrebbe
conservare,
appunto, chi ha avuto la felicità mistica di vedere e di udire
il
gioco di luci e di suoni che costituisce una determinata trinità
divina”.
Dal 1942 al 1944 dirige la rivista
letteraria Verde Memoria, e poi, dal 1945 al 1947, la rivista Disco.
All'inizio del 1943 si laurea
in Ingegneria Civile, e quindi entra come ingegnere nelle Ferrovie
dello
Stato. Partecipa alla ricostruzione della ferrovia Transandina e alla
costruzione
della linea ferroviaria San Rafael-Malargue. Si dimette verso la
metà
del 1944.
Nel 1945 pubblica, a proprie spese,
due libri di poesie: Ensayos de poesía lírica e
Persecución
de la musas menores.
Nel 1946 pubblica Paseo sentimental,
che ottiene la Fascia d'Onore 1946 dalla Società Argentina degli
Scrittori.
Verso la fine del 1946 pubblica
Los hermosos días.
Nel 1951 intraprende un lungo
viaggio in Europa in compagnia di Silvina Ocampo e di Bioy Casares, e
arriva
per la prima volta in Italia.
Nel 1953 esce il suo sesto libro
di poesie Sexto.
Tra il 1953 e il 1954 risiede
a Londra, dove lavora come traduttore dell'Ufficio Centrale di
Informazioni,
e come critico letterario, musicale e artistico del Servizio Latino
Americano
della B.B.C. Ritorna a Buenos Aires.
Nel 1955 si trasferisce a Roma,
dove insegna letteratura francese e inglese e collabora all'edizione
argentina
dell'Osservatore Romano, il giornale del Vaticano.
È stato critico letterario
della Prensa di Buenos Aires, e ha collaborato su quasi tutte le
riviste
letterarie importanti ispano-americane. Ha tradotto in spagnolo
più
di trenta libri dall'inglese, dal francese, dall'italiano e dal tedesco.
Nel giugno del 1957, Wilcock ritorna
in Italia e si stabilisce a Roma. Pubblica articoli vari, saggi,
racconti,
poesie, sulla rivista Tempo Presente, e poi sul settimanale Il Mondo,
di
Mario Pannunzio. In questo primo periodo diventa amico, oltre che di
Nicola
Chiaromonte, di Elsa Morante, di Alberto Moravia, di Ennio Flaiano, di
Elémire Zolla, di Roberto Calasso, di Ginevra Bompiani e di
Luciano
Foà.
In seguito scriverà anche
per il giornale La Nazione di Firenze, per il settimanale L'Espresso, e
per i quotidiani romani La Voce Repubblicana, Il Messaggero, Il Tempo,
e per altre riviste letterarie.
“Credo che se dovessi aiutare
qualcuno a capire che sono o chi sono come scrittore - Wilcock
scriverà
di se stesso, rispondendo a un’intervista - rileverei due punti per me
fondamentali: sono un poeta, appartengo alla cultura europea. Come
poeta
in prosa, discendo per non complicate vie da Flaubert, che
generò
Joyce e Kafka, che generarono noi (tutto ciò è da
intendere
allegoricamente, perché quelle persone rappresentano epoche,
modi
di pensare). ‘Flaubert fu il primo a consacrarsi alla creazione di
un’opera
puramente estetica in prosa’, scrisse Borges; e scrisse lo stesso
Flaubert:
‘Le combinazioni della metrica si sono esaurite; non quelle della
prosa’.
Come scrittore europeo, ho scelto l’italiano per esprimermi
perché
è la lingua che più somiglia al latino (forse lo spagnolo
è più somigliante, ma il pubblico di lingua spagnola
è
appena lo spettro di un fantasma). Un tempo tutta l’Europa parlava
latino,
oggi parla dialetti del latino: la passiflora in inglese si chiama
passion-flower,
per me le due sono la stessa parola. Quindi la lingua ha un’importanza
relativa; quello che conta è di non cadere nel folclore, che
è
intrasferibile. Per me l’inglese è un po’ troppo folcloristico,
ormai; che dire poi dell’inglese degli Stati Uniti, quando prende il
volo
per conto suo e si appiattisce in centoventicinque parole. È
come
se a un giocatore di scacchi gli dicessero: ‘Qui si gioca a modo
nostro,
con un solo cavallo e senza torri’. Beckett, forse non se ne accorge,
ma
scrive quasi in latino; il suo poema Sans, del ‘70, va più
indietro
nel tempo, sembra sumero, anzi pittografico”.
Nel 1975, Wilcock chiede la
cittadinanza
italiana. Con decreto del Capo dello Stato, gli viene concessa post
mortem
il 4 aprile 1979.
Wilcock muore il 16 marzo del
1978 nella sua casa di campagna, nel Comune di Lubriano, in provincia
di
Viterbo, nell’Alto Lazio. È sepolto a Roma, nel cimitero
acattolico
vicino alla Piramide.
Roberto Calasso, con lo stile
limpido e vivace che lo ha sempre caratterizzato, fa un ritratto di
Wilcock
molto efficace e suggestivo. È il caso di citarlo:
Come epilogo delle sue Obras completas,
Borges ha dettato la voce Borges di una Enciclopedia Sudamericana del
2074,
che così comincia: “Autore e autodidatta…”. Juan Rodolfo
Wilcock,
ospite singolare dell’Italia, della sua lingua, della sua letteratura,
recentemente scomparso, era forse l’unico nostro scrittore da cui ci si
sarebbe potuto aspettare una voce di enciclopedia immaginaria su se
stesso
di altrettanta delizia. Ma ogni imitazione, in questo caso, sarebbe
vana:
a noi non rimane che ricordare, con rimpianto, come Wilcock è
apparso
in questo Paese, che si è comportato con lui un po’ come
l’Italia
fascista col grande incisore Escher: se Escher seppe vivere per anni in
Italia senza farsi nominare da nessuno, Wilcock è riuscito per
anni
a non farsi includere nei listini di Borsa dei nostri ponderati
recensori.
Era arrivato nella Roma degli
Anni Cinquanta come uno scrittore argentino, affine a Borges e suo
amichevole
congiurato, insieme a Adolfo Bioy Casares e a Silvina Ocampo: ma tutto
questo era allora in parte troppo poco conosciuto, in parte troppo
imprecisamente
favoleggiato. Perciò la percezione più immediata, e
inevitabile,
di Wilcock fu un’altra: quella del suo stile. La totale assenza di
perbenismo
intellettuale, “l’ebbrezza aristocratica di dispiacere”, che provava
spesso
e grandiosamente, l’ironia in agguato dietro ogni sillaba,
l’insofferenza
per ogni sorta di “frasi di circostanza” dello spirito - tutto questo
fu
subito notato, e spesso con qualche timoroso sconcerto. Ma quei
caratteri
acquistavano il loro vero senso e sapore solo se si procedeva
più
oltre, fin dove - credo - solo pochi amici si sono spinti: fino a
quella
eccentrica e solida saggezza, a quella ammirevole autosufficienza che
erano
nel fondo di Wilcock. “Amava Wittgenstein, la poesia e la lettura del
Scientific
American” (così, forse, avrebbe potuto descriverlo Marcel
Schwob):
e questi tre elementi bastavano a dargli un sottofondo di
felicità.
Sapeva, come pochi, non dipendere dagli altri e dal mondo. Quando si
mise
a scrivere in italiano, riuscì subito a trasmettere alla lingua
quell’impronta che apparteneva al suo gesto, al modo di apparire della
sua persona. Così, il suo italiano è come un isolotto
tropicale,
carico di antica e folta vegetazione, preso nella corrente di un fiume
ammorbato dagli scarichi industriali, che scorre in una magra e
proterva
campagna. Su quell’isolotto troppo pochi, finora, hanno provato a
mettere piede. E non è escluso che, come già altre volte,
la fama di Wilcock si riverberi in Italia da fuori, per esempio dalla
Francia,
dove comincia a essere letto e apprezzato ben di più di troppi
illustri
scrittori che qui occupano le vetrine.
Wilcock sapeva mescolare felicemente
il suo modo di scrivere e il suo modo di vivere: sul Mondo di
Pannunzio,
per un certo periodo, sostituì Chiaromonte come critico
teatrale,
e andare a teatro lo annoiava profondamente. Perciò, per un
certo
numero di settimane, parlò di spettacoli inesistenti, con sobria
precisione: e nacque così la figura del regista catalano Llorenz
Riber, autore di rare e folgoranti messe in scena, che avevano luogo,
volta
a volta a Tangeri, Oxford, Latina. La sua impresa più memorabile
fu una messa in scena delle Investigazioni filosofiche di Wittgenstein,
di cui Wilcock raccontò diligentemente la trama. Sempre sul
Mondo,
Wilcock firmò per anni articoli sia col suo nome sia con quello
di Matteo Campanari. E, negli articoli firmati Wilcock, se la prendeva
spesso con le idee di Matteo Campanari, il quale poi rispondeva
combattivamente.
Ma, a parte queste sue invenzioni più segrete, Wilcock ha
scritto
di tutto e in svariate forme: è più facile elencare
ciò
di cui non ha scritto o che non ha tentato piuttosto che l’inverso.
Dalla
traduzione (magistrale) dell’inizio del Finnegans Wake a quella del
teatro
di Marlowe, dalle cronache (immaginarie e no) di scienza a quelle di
letteratura,
dalle riflessioni aforistiche alle più selvagge costruzioni
fantastiche
(che erano, in certo modo, la sua realtà quotidiana), dalle note
enciclopediche alle liriche.
Sì, perché dopo
aver pubblicato numerosi libri di poesia in Argentina (ne ricordo uno
che
si chiama Sexto semplicemente perché è la sua sesta
raccolta
di versi) Wilcock riuscì anche a mutare pelle in questo - e a
diventare
poeta italiano. Si tratta di versi tutti da scoprire, e li metterei fra
i pochi di questi ultimi anni in Italia che saremo felici di ricordare.
Anche perché da essi, dalla loro cadenza, dalla scelta
intensamente
raffinata, e perciò poco avvertibile, del lessico ci parla
direttamente
quella serenità, quella libertà da impacci dello spirito,
quello stile di vita che non si poteva non amare in Wilcock:
“Vivere è percorrere il
mondo
attraversando
ponti di fumo;
quando si
è giunti dall’altra
parte
che importa
se i ponti precipitano
Per arrivare
in qualche luogo
bisogna
trovare un passaggio
e non fa
niente se scesi dalla
vettura
si scopre che
questa era un miraggio”.
da http://www.wilcock.it/italiano/note_biografiche.htm
Bibliografia
Parsifal,
Adelphi, 1960, 1974 - Fatti inquietanti, Adelphi, 1961, 1992 - Luoghi
comuni,
Il Saggiatore, 1961 - Teatro in prosa e versi, Bompiani, 1962 - Poesie
spagnole, Guanda, 1963 - La parola morte, Einaudi, 1968 (Poesie) - Lo
stereoscopio
dei solitari, Adelphi, 1972, 1990 - La sinagoga degli iconoclasti,
Adelphi,
1972, 1990 - Il tempio etrusco, Rizzoli, 1973 - I due allegri indiani,
Adelphi, 1973 - Italienisches Liederbuch 34 poesie d’amore, Rizzoli,
1974
- L’ingegnere, Rizzoli, 1975 - Frau Teleprocu (In collaborazione con
Francesco
Fantasia), Adelphi, 1976 - Il libro dei mostri, Adelphi, 1978 - Poesie
(Tutte le poesie in italiano), Adelphi, 1980, 1993, 1996 -
L’abominevole
donna delle nevi e altre commedie, Adelphi, 1982 - Le nozze di Hitler e
Maria Antonietta nell’inferno (In collaborazione
con Francesco Fantasia), Lucarini, 1985
Testimonianze
Ricordando
Rodolfo di
Francesco Luti
È
straordinario pensare che un poeta come Rodolfo Wilcock abbia usato due
lingue diverse e sia riuscito a farlo con la stessa maestria. La
poesia,
generalmente, è accompagnata con la lingua recepita
dall'infanzia,
con i suoni e le immagini assorbite da ragazzi. In questo mio scritto
"argentino"
voglio appunto ricordare la figura di Rodolfo Wilcock che era nato a
Buenos
Aires nel 1919 da padre inglese e madre di origine italiana. Figura di
rilievo nel panorama delle lettere degli anni Sessanta in quanto poeta,
narratore, saggista, traduttore, storico del costume e autore teatrale.
Wilcock arrivò in Italia nel 1958, dopo essersi laureato in
ingegneria
nella capitale Argentina, portandosi nel nostro paese il bagaglio di
giovane
intellettuale e di poeta "allievo" di Borges.
Wilcock
iniziò a collaborare con alcuni quotidiani e riviste tra le
quali:
"Il Mondo", "La Voce Repubblicana", "Sipario" e "La Nazione" di
Firenze.
Proprio a Firenze Wilcock venne spesso a trovare il suo amico Eugenio
Montale.
Il futuro Premio Nobel della letteratura Montale, abitava vicino a
Piazza
Beccaria di fronte alla sede del quotidiano "La Nazione". La comune
passione
per la poesia e per le traduzioni era il "piatto fisso" di casa di
Montale.
E di Montale, Wilcock era anche uno dei più stretti
collaboratori,
sbrigando il più delle volte il lavoro redazionale del poeta
degli
"Ossi di seppia".
Certamente
Wilcock fu poeta di fine sensibilità crepuscolare, molte delle
sue
raccolte poetiche vennero pubblicate prima in spagnolo e
successivamente
da lui stesso furono tradotte in italiano. Si ricordano: "Primer libro
de poemas y canciones" (Editorial Sudamericana, Buenos Aires 1940),
"Ensayos
de poesía lírica" (López, Buenos Aires 1945), "Los
hermosos dias" (Emecé, Buenos Aires 1946), "Sexto" (igid. 1953),
"Luoghi comuni" (Il Saggiatore, Milano 1961), "Poesie" (Guanda, Parma
1963),
"La parola morte" (Einaudi, Torino 1968), "Italienisches Liederbuch. 34
poesie d'amore" (Rizzoli, Milano 1974).
Come romanziere
si ricordano "Il tempio etrusco" (ibid. 1973) e dei racconti "Fatti
inquietanti"
(Bompiani, Milano 1960), "Lo stereoscopio dei solitari" (Adelphi,
Milano
1972), "I due allegri indiani" (ibid 1973), "Parsifal, i racconti del
'Caos'"
(ibid. 1974), "L'ingegnere" (Rizzoli, Milano 1975), "Il libro dei
mostri"
(Adelphi, Milano 1978), e "La sinagoga degli iconoclasti" (ibid. 1972)
una raccolta di biografie immaginarie.
Il lavoro
di narratore rivelò una notevole capacità eclettica che
tendeva
a coniugare realismo esasperato e qualità fantastica, ironia e
crudeltà,
senso della sorpresa e gusto erudito, fino al limite di una evidente
bizzarria.
La sua narrativa era percorsa da un misto singolare di crudeltà,
e visionarietà. Sul gusto della citazione erudita e
dell'arguzia,
negli ultimi anni prevalse una vena di esasperata e cupa amarezza.
Parte delle
opere teatrali è raccolta in "Teatro in prosa e in versi"
(Bompiani,
Milano 1962). Postuma l'edizione de "L'abominevole donna delle nevi e
altre
commedie" (Adelphi, Milano 1982), "Le nozze di Hitler e Maria
Antonietta
nell'inferno" (Lucarini, Roma 1985).
Importante
fu anche la sua attività di traduttore: Marlowe, Shakespeare, il
Joyce dei "Finnegan's Wake", "Per le strade di Londra" di Virginia
Woolf,
i suoi capolavori dall'inglese. Poi gli amici Bioy Casares e Jorge Luis
Borges; infine Jean Genet e Samuel Beckett. Tutto questo per completare
il quadro di una traiettoria significativa per la letteratura
internazionale
del secolo scorso, un cammino composto da lingue diverse che si sono
mischiate
fra loro in un impasto letterario che ha espresso uno degli
intellettuali
più importanti del panorama novecentesco.
Wilcock
si spense a Lubriano nella provincia di Viterbo nel 1978. Mi piace
ricordarlo
nei versi di un suo amico, l'attore e poeta Vittorio Gassman, in una
poesia
ai più sconosciuta.
Meta-milonga
per Rodolfo Wilcock e il suo gatto
Rodolfo
Wilcock: non so d'altra mente
più
geometrica e più mercuriale;
non so
se mai ci fu intellettuale
tanto
mortuariamente
intelligente.
Non è
un caso si fosse formato
con Luis
Borges e con Bioy Casares,
alchimisti
del dedalo quadrato,
della grande
rovina circolare.
Tanto meno
è casuale che sia
Parola
morte la vetta simmetrica,
la più
sua tra le sfide poetiche,
e il
paradigma
di un'alta pazzia.
Non è
un caso che la sua iterazione
si alleasse
allo zeugma e all'anàstrofe,
che
l'anagramma
e l'epìstrofe
suoni in
lui naturale scansione;
che da
quel criptico ritmo
parole-larve
(non parole) nascessero;
«FUTSIRI»…
«SERTYVED»… e declinassero
i geroglifici
del gran logaritmo.
Non stupisce
se in cose e persone
il contatto
col suo segreto cifrario
inoculava
il germe visionario,
l'assurdo
unicum della mutazione.
Nello spoglio
salone a Velletri
(parlavano
di Marlowe da ore)
sussultò
e tacque il Visitatore
entro il
guizzo dei moccoli tetri:
perché
gli era parso passare
un gatto
grosso dalla rossa pancia
e: «Mi
annoio!… » imprecare
…«SERTYVED!»
con perfetta pronuncia.
«Ma
io… ho visto un gatto…» esclamò
stropicciandosi
gli occhi. E Rodolfo,
un po'
seccato: «È la solita solfa.
Sì,
è il mio gatto, che c'è?» bofonchiò.
«Ecco,
un gatto… ma è un gatto che parla!»
E il poeta:
«Non sempre, però».
Voltò
pagina e un blank-verse citò
riprendendo
il discorso su Marlowe.
da: http://www.elmurocultural.com/wflorencia05.html