1. Pezzo
1943: comizio
2. Cosa
c'è di nuovo
3. Nottata
di guerra
4. L'amico
socialista
5. Pezzo
1941
6. Il dopoguerra
7. Semper
pauperes
8. Però
tornare
9. Quarantacinque
10.
Il bersagliere
svegliato morto
11.
Però
prima del vento
12.
Una natura
morta
13.
Gli argomenti
14.
A una mezz'alba
15.
Pareva una
16.
Dichiarazioni
del soldato morto
17.
Buonasera
18.
Occasione
19.
La ragazza
di Sirtori
20.
Sommario
della rivista "Vanità"
21.
Natus de
muliere, brevi vivens
22.
Refe d'una
vestaglia
23.
E lascia
che vada
1. Pezzo
1943: comizio
Ma
sarebbe faccia tosta, un gran bel becco, o stolte
beghe per
mettere zizzania sulla terra dove cresce
soltanto
il riso e il vento, o smoderare
e fare rutti
a bruciapelo o folte cose
liberamente
in centro alle navate che balugina e che stride
di fuori
il tram sulle rotaie...
Ma non fa
niente, ma non fa, ma gerbidi,
ma gerbidi
e straniti, noi, se e quando gracchia
a mezz'aria
la trombetta che ci chiama,
noi con
l'orecchia tesa a foglia, con il rozzo
pube (quella
poca pacchia, quella poca
fesa comprata
a buon mercato, ove prurisna-
no una semenza
taciturna, la gran nube,
e selvatiche
stragrandi meraviglie
d'ogni
risma, d'ogni calibro, d'ogni cupo
estro) ma
gerbidi e straniti andiamo
allora
di invenzione in invenzione verso
un non
pensato mutamento; con l'orecchia tesa,
vigili sotto
la trama dei dazi e degli abusi o sul dirupo
della febbre
che non piglia e non si spenge,
dei mandorli
squisiti, dei fiumi fatti d'acqua, dei respiri,
una stagione
sempre un po' più in là,
e il bersò
folto in piena massima che sgargia
sugli spalti
a trine dei verecondi laghi, sulle absidi
in vigilia
sensitiva: noi andiamo.
Lascia giù
i santi, le maestà: lascia lì gli orinali
in fondo
al naviglio, tremolanti, o nella gola
della
pattumiera
che non vanno giù, non sono aghi, è tolla
a smalto.
Con il turibolo
della tarda primavera che gli scrosci
d'acqua
evapora a fiore di maiolica nelle latrine
a pagamento,
ove lì in giro in tribolo
girano le
anime perdute, e i fessi
e mosci
e tulipani in pista, il proprio turno ansiosamente
aspettando
per fare le cose che si cela
ai podestà
alle figlie di famiglia e di Maria,
tenendo
duro sulla nostra via, noi si scivo-
la
all'ingiù,
verso la lista che è un distante,
che è
un pericolo, verso i dissonanti lidi...
E c'è
il corpo cresciuto lombardo e sderenato,
quel tal
che va alla svelta, e saggio è nella morra
come il
porcello nella palta, nel puzzo del conciato, che
che dissipati
i grani e i foschi maneggii
dei
retrobottega
e delle banche strette
di manica,
disperse le canicole
di cenere,
le risse
sessuali
delle bestie lungo i calcestri,
sconfitta
la camorra e scancellati sui cantoni
e neologismi
e targhe, senza risentimenti, e il novero
a veleggio
degli illustri in sovrappiù,
solleverà
il suo bavero scoltando l'aria tersa
quando
traversa, come biscia lustra
che sguiscia
se ci tiri a manolibera una pietra,
liscia l'aria
nella patta unta, un gelido
prurito
in cima a là, la cima in giù piegata
a mo' di
salice piangente in riva dei palustri.
Chissà
se ci daranno un paltò nuovo, su misura, d'aria
pura, per
la nuova taglia, per i ranghi nuovi,
e un
mazzolino
che spunta di viole, all'asola, e uovi
ovali, e
un sano frumentone sopra il cribbio
che non
spande, un peso che non tema il frusto
e le
intemperie,
se ci daranno, e che non faccia ruggine;
e se
semineranno,
esempi solitari,
a paragone
e gran soccorso, e a civil gusto,
oltre i
strilli del nibbio tempestino, stanze
da star
dritte perfino nel lavacro
brusco
di nebbia scrollata giù ai geli,
ai fanghi,
al salso, al tosco fuggi fuggi, al sacro
morso
d'oblio,
agli atti, al sangue, ed al silenzio
dove gode
il bruco e la càmola lavora!!
Se ci daranno.
Però
Nella corusca
spola delle ri di rico
delle
ricorrenze,
dico, dei desiderata, degli affitti,
al di
là
udiremo con gli occhi della vergine natura
al di là
d'usci e portici coi bruchi
in alto
tribolare ancora adesso
che
c'è
fronda nelle scelte e negli incroci
e che siamo
restati senza ordine e senza rivoluzione,
magnanimi
e caduchi, e sembra bello
aver
sbagliato
in molti, in tutti;
in alto
sopra, o a pie' dei letti lucidi
o sotto
cupe spighe, oggi tribolare
una manciata
di semenze tali e quali,
la verzura
che riga nottetempo il gorgonzola,
e in alto
i scenari di cemento armato;
cento dighe,
allegri
poggi,
festevoli
facciate,
o varie
cose in senso nostalgico, canzoni
fiatate
senza remissione, parole clamorose, colpe,
e orme,
e tracce, e carregge e pedane a perdivista dileguanti,
e le chiome
dei faggi nei cofani scarlatti delle corriere.
E filtra
nel filone della schiena, e filtra nella costa
soda dei
selleri giganti adagio, e adagio nei carciofi
e in altre
sfere, e nei quarzi che aguzzano la vista alle censure,
ora al passaggio
del marrosso nelle polpe
delle
indugianti
schiere, delle donne incinte,
che vergini
tuttora paiono o maritate o nonne,
fiere come
la moda vuole e fecer le nature,
filtra
la cruda sedizione, quel retaggio d'inferno
traveduto
in fantasmi di libidine inconsumata,
mappamondi
festevoli e stridenti tomo un pemo...
Ogni nazione
erano fronde screpolate dal gran secco,
o poco
più: era una lisca del carpione sottaceto,
senza la
carne tiepida e unita...
ora al passaggio
del marrosso sui vagoni
della posta
che vogan le tempeste calde falciando
e le stazioni
transitando a branchi a branchi,
con siepi
e fiori e nuvole di stinta carnagione:
così
certa caligine sospiri
di madreperla
alla bell'aria, parsa
quasi ardito
zelo, per puntiglio, e in attimo di fuga
perenne
si tramuti, ora che sosta là il marrosso
tra
chiappette
colore d'albicocca, e sempre in giro
sottoveste
alle baggiane a tredicianni,
e dentro
le lentigg-
ini: che
frusciano se fossero cicale sulla luna
arsa in
ama ai blandi pomeriggi: alle baggiane
già
di pelo esuberante, o a maritate
per forza
o per amor.
A noi sarà
Siviglia, Maiorca, il Labrador
in fondo
alla bottiglia dell'acqua minerale vera fonte,
che increspa,
in terza classe, e si travasa, a ferragosto?
e il sole
sarà come un gallinaccio, sarà come,
che scende
giù a taboga e gira e gira, e tac
l'ha
lì
nel becco... ma è un cranio di mulo,
o un seme
di linosa...
Ci porteremo
via la nostra ratamaglia,
le lune
dei posteggi, i campanelli con le resistenze
dagli stipiti
in cancrena, la maglia feriale
e quanta
masserizia più venale, e il rame, e i litri
con la
tacca, e il bollo come un sole
di giustizia
e libertà: muta
ormai la
Singer:
le amene
piantagioni dove a minger
rivavano
le cagne, i cani-lusso: gli spadoni belli
e i mobili
frasconi della tempr
a dei prati
dopopranzo con in giro esanofele, e la botani-
ca rionale
dentro ceste marce, a chili e chili:
a musica
odorata in fantasia degli jukulele,
tutto
portiamo
via, o sparpagliamo ai vani
zefiri
che fan vele e imbuti e spire a nidi
forse:
tenendo
duro sulla nostra dritta, viene che
si scivola
all'ingiù, verso una lista scura,
agli aguzzi
lidi, in bili-
co, ma prima
ci fa spendere l'anima di dio nei garofa-
nini di
Ventimiglia nei chioschi di stazione,
venduti
tra gli spruzzi, svenimenti e gridi
e battimani,
già passi, già sgualciti, un diecimila
circa,
poi ripartire verso una certa quale
qualunque
parte d'universo:
in mani
la cambiale, e una candela per vedere
i sassi,
e mista a larga confusione qualche strofa.
Quel tanghero
lunatico, già pesto, ha una gran voglia
di buttar
sangue e soldi e gran madonne
fuor d'ogni
grazia o uso nelle altrui botteghe,
ha forza
di cambiare posto, a tutt'andare;
ha sacramenti
rotti che conosce lì per lì, ma non conosce
quanto
costa lui e quanto quel ricordo che non spiega
nemmeno
a se in persona, alla sua spoglia,
(se gli
dura il fiato che gli sbanfa, e l'asma!)
e che se
guardi bene bene rema
oltre il
bordo discosto delle cosce
m dove
i piro-piri bui e i piovanelli
e in dove il tordo
tramontano
concitati per tema del grosso nubifragio,
fuori dai
gangheri anche loro, ed il peso, sordo ma sordo,
scema di
una foglia curva ad ala,
luna appartata,
sventilata, e che patema
è
sceso! è tardi: buonasera,
e buonavita!
Forse sarebbe meglio
forse sarebbe
una fregatura, un'altra data, una piaga
per noialtri
noi che, stando alle cronache civili
sfumate
sui giornali, sui camion, nei registri
di carta,
si paga
quel po'
di calce, e quel celeste
che schivo
fa la guardia sopra gli embri-
ci, quel
po' di magra boria per un aci-
no convulso
di baldoria nella capa allegra,
di scatti
mortali e batticuori, e I baci
che rimembri
sinistri rimirando
il bel coppino
delle monache sottili
all'ombra
delle grate, o quello delle sguange
nell'ultimo
loggione; prego, e argentovivo
nelle costole
alle bambine
vedove
dal tempo della prima comunione in poi,
gli oswego,
e sangue di galline, e un bel corredo
a posto,
con le frange, coi bomboni.
E basta.
Adesso guardateci la mano com'è in alto;
esautorata;
cinque si pittura con l'ombria; pari e patta;
per ogni
dove; sul dritto della mura; fin che il sole
mulina;
ma datemi ascolto; oppure fate
finta;
datemi l'ultimatum; cinque s'allunga;
e già
venite, certo veniamo, vengo subito: le vedo-
ve, i gasisti,
le scalmanate; i tristi
suonatori
d'orchestra e tramvieri con le occhiaie
scombinate
a furia di mangiar rotaie e latta,
i ciclisti
serrando con affanno la moltiplica,
affittacamere,
mezzani di stallatico sugli argini,
teppisti
e manigoldi e ruffiani pentiti d'avere sesso e età,
astuti
fabbricatori di coramini da mettere in testa alle stecche da
[biliardo,
e chi ha
nutrito di spezie e coloniali e cucarache
e di ogni
canzonetta americana il lardo della pàpera
spedita
a nuova Troia sopra il Po; e chi le cedo-
le moltiplica
e i tagliandi per il riso cereale
nei specchi
signorili o nella gualma non salubre,
e poi scappa
come biscia se ci tiri un sasso;
e chi aveva
nascosto il morto sotto il crine, un palpirolo,
si presentino
tutti verso sera: (fallo per amor mio!
non
arrossire,
non impallidire, deh, licenziati! e fiuto
fine ci
vuole, e troverai la calma nuotare nelle vene,)
si presentino
verso sera molto in prescia, a volo,
i vari
ceti, duro tenendo sulla propria dritta
e nessun
cruccio per la sassaiola o l'ironia:
la mano
dritta, a calli e spessa, e passaporto
alto nel
palmo della mano torto a buccia,
e la fama
europea sull'unghie delle dita viola;
avanti,
con la grama confidenza, e il pomo sano, per corrobo-
rare e
teste di rapa e nati d'adulterio e sanguisughe
del globo
nostrano: rifiuteremo la natura
e ogni disgrazia
che ci càpiti, e i diritti
presi sul
serio, il torto di tra rughe e rughe, il putiferio
in coda
alla gran lite della vita;
e spediremo
alla fin fine un lauto vaglia
dall'al
di là del margine, a chi per avventura
resta solo
a stormire come un flauto nella vita
economica
del paese, o se la squaglia per suo conto
a far
l'assalto
all'ultima gerla, o séguita
a fare
festa e la scalmana: un vaglia
con scritto
sulla cedola: "O gran balordo che tu sei,
o tu non
senti che la Patria è morta,
già,
e non condona?"
Certo veniamo,
a ghirigoro
per ruscelli
e marciapiedi,
il fianco
quasi che trasuda, e duro il fianco
tenendo
sulla nostra dritta, e canzonando:
"Ohè
Americ' america mmerica
ma che
cos'è questa Merica?"
Che non
torca la gola, che non torca, che non giri
indietro
la ciera, il tacco con la suola; è troppa
cosa vedere
di persona, e fatto grave; gli alloggi, la dimo-
ra!, la
filitura d'aria che rifischia dall'usciolo un po'
soavemente
semiaperto, la chiave nella toppa
che trapela
un chiarino: e ti commuova il fatto, l'avventura;
a sorte
chi ritorna a spegnere la lampadina,
la luce
che si spreca o intorbidisce in nostra assenza!
o forse
i santi d'altri tempi con la calamita, in silenzio...
a sorte
chi
tomi a
piantare nell'asfalto, nel granito, nell'argilla
e pomice
e nel legno la sirena d'allarme come un seme.
E eleggendo
nell'ambiguo
molo degli
agrimensori, o i già citati uccelli, o bisce,
o liberi
piccioni e selvaggina, fuori dai gangheri anche loro;
o il frutto
solo
che ciondola
bruciando della Philips che è rimasta a lungo
accesa
per un puro sbaglio nei locali, o per scommessa,
e pare un
suono illuminato, obliato, tanto offeso... e che patema
la sirena
che esita faville e non fa urlo, il rutto
caglio
di volgo già italiano, se scampana
come odora
d'aglio! e allora:
pomice
e saliva su e giù per l'etra italico.
2. Cosa
c'è di nuovo
Di
nuovo c'è che ai giovanotti ramazzati via
non si
può tenere spalancate più le palpebre
con gli
stecchini a punta, vita non ce n'hanno più:
di nuovo
c'è gli occhi bianchicci dei maschi
milanesi
sui fili del filobus, dei tram, sui pali;
mica
sarà
triste seguitare a mirarsi negli occhi tristemente!
di nuovo
c'è che tra la polpa e l'osso c'è che fa caldo
e che fa
freddo a una ragazza che possiede gli occhi
come una
campagna arata dalla guerra, fuoriporta;
di nuovo
c'è che poche piante vanno avanti a venir su;
e mani
conciate di ragadi e di caligine
accendono
le stufe di ghisa, non c'è gas;
c'è
che trema la sostanza universale, e il nostro cuore
non per
vanto, né per forza, ma mi sembra buono, e trema
un rumore
di vie d'acqua, vie d'acqua e ferrovie:
il vento
ha lasciato solchi di pioggia e macchie d'unto
sull'intonaco
delle facciate larghe quindici metri,
e solchi,
cioè rughe, nella piazza lustra degli anziani;
le finestre
sono una semenza tra i fanali: e io
che semino
fiato e gran buontempo, e tu
che in
su e in giù passeggi per le arterie del centro;
e lo che
faccio stracci paragoni, e tu cne porti
la bellezza
malinconica e avara dentro l'ombra rossa
d'essere
ancora bella, ragazza come una campagna;
e io che
so fare complimenti dimenticati, e tu passare;
e tu che
pensi che bisogna guardare quello che bisogna,
e io che
penso agli animali barbelanti che torneranno
ancora come
una volta a pisciare vicino all'aria; e tu
fammi una
lista musicale di panni da asciugare
all'aria
generosa e sventurata della nostra camporella.
3. Nottata
di guerra
La
notte che c'era il nubifragio, molte mamme
addormentate
nella piena con la lingua secca,
io cominciavo
a immagmarmi a ragazza
che adagio
se la sfoglia, e dice: «ce l'ho lunga,
rara, rosa,
bella» e trema come una foglia;
e l'erbe
parvero sanguinare sotto la forbice dei lampi,
e noi non
per niente dovevamo pensare alla salsa
inglese,
alla trota moribonda con gli occhi nel sugo
delle vetrine
tra le foglie di senna, con il prezzo
al minuto
sul banco marmoreo, e alla stadera: allora,
primizia
colore di pelle di pollastro, filamentosa,
una figliola
in bianco poggiava le sue tette stagne
sul cristallo
delle bacheche, e con il mignolo
piluccava
l'uvetta nel mollo del panettone:
era la notte
che c'era il nubifragio, e molte
ruote di
lontano perdevano i tubolari nella palta,
e una zona
di ragne baluginanti per l'aria alta,
orme sovrane
e incerti passi sull'immobile
insonnia
che divide i morti di qua dai vivi di qua.
4. L'amico
socialista
Abita
qui ancora in subaffitto quel tale che una sera d'agosto
che il
cielo era basso lì lì per cadere spiovendo
nei bicchieri
succhiati, nei fossi, e che diceva: "la civiltà
è
un paradosso, e basta"?
amarezza
e confusione producendo
indicibili
sul tavolo dei registri battesimali,
aveva
avariato
vagamente i suoi cognomi e i connotati;
e pochi
conoscevano a fondo la carnale profondità
delle sue
parole colorate dall'ignoranza,
e io l'ho
in mente ancora dopo tanto moto di anni, e fino
ricordo
il dondolo della pallina di vetro nel collo
della gazosa,
un verde smerigliato, chiaro:
era un
uomo che aveva sete di gazose e squinzani
la sera
del sabato di agosto che il cielo mollo mollo
era basso
e faceva un soffoco tremendo, un grande vomito,
anche a
tirar su le maniche di albene fino al gomito:
quel tale
che andava misurando la piazza
nel vortice
tenero viola delle case lì intorno
con la
corda d'attaccare il bucato la moglie, e contare
così
su per giù i salari, e le sere cadute nel volo delle sere...
e io per
me mi tengo in mente la mimosa estasiata nel giardino
della
canonica,
che mugolava vedendosi nell'orlo del fossato
tremare
e la vasca solitaria abitata dal freschetto,
i fiori
blu accesi del salnitro in fondo alla cisterna; il rubinetto:
ora, in
segreto, alla rinfusa, il vino degli uomini fermenta
per una
sera estrema in cui le trombe alte in mezzo al rosso
parapiglia
sveglieranno gli ignoti e il rimorso delle opere inutili;
così
che quando uno adesso si addormenta nel mugghio
invernale
che odora, con in bocca noccioli di prugne o liquerizia
o cicca
americana, senza aver finito di guardare la sevizia
degli affitti,
una forbice arrotata
gli branca
la rotella del ginocchio, e tric,
un taglio,
o questa cartilagine qui all'orecchio.
Ma lui non
ha potuto sentir bene quella volta che venivo
a bussare
alla sua porta perché il tuono di tutta l'Europa
confondeva
e cieli e piazze e giardinaggi senza pietà,
mi bagnava
le nocche, e il vento urlando
saltava
qua e là come una bestiola disperata,
e io dovevo
scappare alla svelta per paura
di restar
lì come quello dei fichi a prendere ancora la pioggia
e tuono,
e altro, dentro le giunture o i buchi
o nei poveri
stracci del polmone... E di là dalla porta
venivano
bocconi di una musica imprecisa, danneggiatissima,
dietro
le spalle le montagne stavano per spegnersi
e sparire,
e dovevo andar via, e tu dirai:
"beh, ma
che c'entra tutto questo?"; eh, se c'entra!
Perché
insieme io e lui noi due andare potremmo a trar respiro
dalla grigia
profondità delle nazioni e delle terre
altrui,
e ormai di tutti, ad annusare il fiato
nella filitura
che connette notte e giorno; del filo d'erba
che vuoi
crescere sollevando il pietrame che lo pigia;
o qualche
cosa di più grande ancora che vallate
e prati
e piazze e nazioni e cateratte: il temporale!
5. Pezzo
1941
Potrebbe
darsi
che l'aria
un giorno
qualunque,
viaggiasse
per l'aria
a malincuore,
e ma se
il lago di Garda non recupera col tempo
tutta la
polvere mangiata dai ciclisti in gare assurde,
i chilometri
che non contano, fatti per niente,
e ma fin
quando agli stradali con le pioppe nichelate
parlino
l'ozono e la pioggia a fil di terra d'ideali
giubilei,
di comunismo fresco 'me 'ne rosa
e ci succeda allora quasi
come se
nel seno martoriato dalle lance,
devozioni
premurose, tenerezze, vanità,
le nostre
diocesi annegassero una per una
un po'
alla volta, e dentro l'altro
effimero
vaso dell'aria con un riso fraterno
sopra a
galla la gente naufragata
salissero,
ma senza il corpo folto come il corpo o come cosa
e fin quando
il cappone renitente,
prigioniero
sul ciglio delle nebbie o nelle
stoppie
violette dell'autunno, non morisse
eroicamente
colpito da quel temperino che si tira
per caso,
e che lo sbuca a sangue in uno stinco; o
l'odore
dei vagoni strisci ai posti di blocco
e sappia
alfine che le notti della terra
e i mugli
dalle stalle briantine, e il fiato
del foraggi
forestieri, e l'aria piena
di stufato
con il manzo nostrano, e il resto
sullo zinco
in sonanti nichelini, come mani
brinate
toccheranno il firmamento: e qualche
biglia d'agata
recondita nel panico ronfare
delle pioppe
ci farà o lume o scuro
e
mica i cieli
sono un
capitale sicuro, senza fondo, o una mmiera
priva di
patria e sentimento
pertanto
corrano le truppe a far ombre coi pastrani
sul lavorerio
di frontiere per le miglie e miglia,
anno per
anno; e più l'ascoso affanno dei respiri
qui in
patria cresce e con più gela
nel caos,
e qui trapela
come una
nostalgia obbligatoria il pesce
della lume
settentrionale, le voltate
a biscia
del vagone, le sue soste, i giri
in campagna
lunghissimi, in mezzo alla pittura
notturna
dell'acqua fina fina e della guazza
per cui,
matto di debolezza in faccia al terrestre sogno
dove i
sassi maturino d'Europa, o galleggino
come rottami
i giardini patrizi nel naviglio della pace,
le nazioni
escogitate nel sogno degli strani
cancellieri
con la testa piena di pigne
matto di
sentimenti l'ultimo navigante o macchinista
o marinaro
d'acqua dolce e chiusa, o corridore
in pista,
dimenticati gli argenti dei canali e delle verze,
il mormorio
delle posate d'alpacca che si nettano
dopo desinare
in una fiacca lenta dalle porte
spalancate
per le alzaie, se ne vada
al di
là
dell'anima
e che al
di là dell'anima ogni cosa è specchio
d'una celeste
cattolica confusione, né vogliamo
credere
troppo al nostro corpo, questo specchio, e basta,
per questo
tempo, con la luce che ci dà fastidio
però
noialtri intanto siamo, con timore,
con
reverenza,
e gli uni e gli altri, e poi,
su dai
registri indaffarati dei poveri del comune,
noi
transitiamo,
come la nuvola patita, verso il buono
liquore
dell'atlantico, in fondo alla provincia,
senza rumore
di frontiere o corridoi: è là
che tutto
sarà vago e irreprensibile, tutto
comune;
non una spanna di penombra
più
forte mai appare là più della notte
elettrica,
da pesci.
6. Il dopoguerra
E'
un pomeriggio di temporale,
di
indulgenze,
di emozioni
intense,
e odorando il sale
e il tramonto
di tante nazioni,
le alleanze
in corpo alle zanzare
che ronzano
a matto, e sulle ragna-
tele, e
un'illusione pare,
sostanza
che va in fumo e bagna;
e vidi il
nero; e in un presagio
me medesimo
vidi tornar
e nel
trigesimo
requiem, nel lustrale
andante
di stoviglie, adagio
percosse
e di scodelle ai lavandini,
pensando
le liquide contrade
al neon,
e i lampi dei cerini
sotto le
stelle grandi, rade:
son tornato
con tutta la pelle,
con la
sciabola al costato,
fresco
e bello, e rivoltelle,
come se
niente fosse stato;
son tornato
dalla guerra stolta
con la
piaga stretta in pugno:
scolta
in aria che mugugno,
che ronfar
sulla terra stravolta.
E' passata
la bufera,
è
accaduto il temporale,
chi fe'
il bene e chi fe' il male
cerca soldi
e bella aera;
nella mente
strepe la gran voce,
è
già sotto anche il poiano,
senza pepe
e zafferano
il risotto
non si cuoce.
Mi meravigliai
della strada
dove tre
uomini lontani
come tre
uove, sembravan più umani
di quell'uomo
che da solo guada,
che finge
di chiedermi con vaga
ingenuità
soltanto un cerino,
e mostrando
sui diti grosse raga-
di, si
spinge col gomito vicino,
e poi domanda
in sordina: "Tu
cosa ne
hai fatto di quei porchi?
cosa ne
hai fatto del tuo cuore, al bu-
io? cosa
ne pensi adesso?
e in vista
a chi sembri più uomo?"
E io feci:
"Ecco, qui... qui siamo
tutti negli
stessi panni; Adamo
è
il teppista, onesto è solo il pomo.
Certezza
senza scampo o limi-
ti, gente
discesa con la piena,
tutto il
sangue è uguale a rena,
tutta la
brezza è uguale ai primi
moti, al
premito dei poli
dentro
i voli di una passera
che nuoti
e frulli sola a scuro".
Dissi.
Ma a riva del muro,
ma le notti
fiacche e tremende
che si
sentiva piovere latte
e passere
come pecore matte
si scaldavano
sotto le bende
nostre,
sotto le giacche, e al tatto
il polpaccio
tremava, divisa
la fava
tra superstiti piatto-
le, e il
ghiaccio delle rise, le notti
in cui predi
predicavo: "Venga,
deh, che
venga all'uomo bianco,
sempre
in piedi, dentro il manco
gluteo
la vecchia legge del Menga!
Venga pura
nella scalmana
che
carbonizza
tutti i profili
dalle nostre
parti civili
di qui,
senza ragione sana,
venga la
penuria carnale,
tomino
i Caduti, dementi
e fraterni,
dove loro consente
la furia
del bene e del male!"
Poi mi strinsi
nelle spalle
questa
schiena che si slega:
uomo che
magari se ne frega,
ma che
sotto gli brucian le palle.
Con saette
che scottavano i piedi,
gridavano
in balia al nebbione:
"Fermati,
ferma!
se no vai
dentro, via! Vedi
che bagna,
che palta, si va dentro,
ci si perde
i tacchi! E sembra...".
E là,
in quel chiaro dove è l'erma
che fa
lagna e ride con il ventre,
il piazzale
era concitato
per pochi
nichel di valsente,
tutto si
vendeva a buon mercato,
temi secchi
e sale per niente;
vendevano
perfino i cardelli,
assassinati
dentro in gabbia
con una
fina machiavell-
ica, con
un guizzo di rabbia.
Un po' di
sangue, un po' di sabbia,
un po'
di tetta e un po' di pene,
un po'
di morte, come conviene
a chi vuoi
vita e non ce l'abbia;
lasciando
ai miseri spigolare
le schegge
sparse sui marciapiedi,
la zizzania
da masticare,
la letania
del "mangia e siedi";
e avremo
per paga il fiato umi-
do, rancido
dei tubolari
di cicli
e motocicli, i fumi
del carburo
in giro ai fari.
Anche la
nebbia è passita,
nebbia
che era solo un fiume,
solo per
scordare il proprio lume
e discerner
chi non è più in vita;
e al peggio
fosco, nel volubile
fascheggio
dei Caduti,
son quei
pioppi d'aria muti
in gola
a un tempaccio e a troppe nubi.
Con i fulmini
che emana-
vano,
gridammo
nel nebbione:
"C'è
stato questo e quello, ma...
ma ancora
è niente in proporzione!"
Gallina
omnis divisa
est in
partes omnes, i fiaschi
sono
scoppiati,
e l'oriente
salirà
in mente ai maschi.
Ti ricordi,
Italia, quella sera,
là
seduti sui bordi del mare,
e io ti
dissi che in primavera
ci dovevam
lasciare?
7. Semper
pauperes
Semper
pauperes vobiscum habebitis,
sed me
non semper habebitis.
S. Matteo
Già
da lontana breda, già da tempo, con l'indice levato
a tramontana,
quel medesimo che uccise sulla scorza
del gelso
due formiche in assolute faccende,
con l'indice
levato noi segnammo, per prudenza,
per un
vago bisogno di ricordi e per la forza
stessa
del semplice pensare, quella casa
che da
lontano chiama e ci sospira, così piena
ancora
di romantici sentimenti, e del profumo
di defunti
che neppure in lontananza vorrebbero scommettere
la
verità
dei nostri connotati, la giustizia dei nostri documenti,
altri liquori
d'ombre e di figure travasando,
non
già
le nostre, stanche e provvisorie nell'agire,
come una
pianta senza nome, di nessuno, senza categoria
plausibile
al sorteggio dei suoi temporali,
dove anche
i passeri, anche i passeri, e perfino
i passeri,
perfino gli uccelletti, orbi nel fumo
della mente
e privi di un governo autoritario,
fondano
nel volo senza scampo, senza gradi, l'arco
della notte
ventura in un osanna, sempre al divario
d'una sorte
continua che li scava; e poi sparire.
E adesso
quei rondoni, tuttavia, io mi domando,
quando
gli autunni cominciano la marcia, come reggimenti
ravvolti
nei pastrani sugli asfalti leggeri,
dal San
Gottardo, avranno tuttavia
i loro
cari defunti disegnati sulle foglie del cielo?
Scapole
d'un giovanotto
nell'azzurro
solitario,
nel cielo
le giornate
son
più
lente degli uccelli,
orbi nella
mente di sale.
Ma poi la
rondine ritoma ad infierire:
non muta
la sorte delle foglie, tale
che in
altro largo serbi un'espèride preclusa
ai
censimenti,
stanze di pomice, lucenti
ghiaie
ebbre, nel suono dei palazzi viola;
che in
altro largo serbi un continente
come l'ala
d'un aprile a banderuola,
senza mercati
alla pianura di Saronno, e piova,
povero,
i mantelli, le lenzuola, le mutande,
le formiche
e i lampioni agonizzando; e poi sparire.
8. Però
tornare
Però
tornare a casa soltanto per pietà,
andare
e ritornare per civile sollecitudine,
quasi per
sola cortesia, e riudire in strada
la
giovinezza,
o nella mente, che esclama
"dammi
una libertà, dammi anche tu
la pace,
dammi la pace che non posso"
e dunque
ricordi, a ricordare con l'usato
strepito
della polvere sui frasconi, odore di barzuola
sulla pelle
del taxì, e ricordare
il palpito
vano di strade orbe di bambini perché piove,
e il fiato
speciale di åascuna donna, quando
torna su
in gola, e sempre il palpito
degli anni
difficili, e l'opera segreta
nei baleni
del polso, ed i veleni nella brezza
dei colori
in città
e dunque
molto ricordare in questo modo
come tu
sei solo, il grande confidente, e una semenza,
una parvenza
alitante a titolo d'insensata tenerezza
sui girasoli
di celluloide o in mezzo a civiche
sollecitudini,
tra un pensiero e l'altro,
uno che
cammina per la strada solo, e sente
la giovinezza
che gli esclama: "dammi la libertà"
e questa
sorte chiusa nel gran lume della sorte,
e "per
te, per il tuo corpo, ormai non c'è già più
sviluppo
e rispondere:
"libertà, spendimi, spreca,
sprecami
tutto, libertà, che forse
i nostri
defunti di lassù lavorano
guadagnano
risparmiano per noi,
i nostri
defunti di lassù"
e credo di ricordare
così
le nostre navigazioni nel corso della polvere,
e il lenzuolo
che sbatte sopra gli altipiani...
Quaggiù
presto finisce, e il vivere
comune
naviga a galla, così usato,
e che una
vita sopra la bilancia
delle due
mani pesa appena appena,
quasi niente,
come una mancia onesta
e misurata,
e a me mi pare
a volte
quella polvere sui fari poco accesi
negli scali
o nei pubblici posteggi
alla nebbia
dei piazzali, quale inane
e fiera
libertà!
Tra
vivi e morti siamo ancora
in molti,
qui, e siamo il docile
pane per
tutte le moderne fantasie del millesimo,
almeno
quelle tante che mirano alla caligine
blu delle
nostre quotidiane navigazioni;
e tale
gente
ospite di
riguardi e d'irruenze, tale gente,
a furia
di pensieri di pane di saliva,
chiedendo
e spalancando porte e porte
sull'orlo
delle ringhiere popolari;
tale gente
chiedeva ai calendari le domeniche
e i rossori,
domeniche e scalogne, tale gente
chiedeva
alle sue tempie
quell'ozio
che consuma piano,
e le sue
varie conseguenze; e tale gente,
così
viva, e c'è chi dice: "la conocchia
"la conocchia
con un fil di lana, e con la frusta
usino i
governi al giorno d'oggi, e labili e labili
promesse
in vario elenco e tono assurdo,
e labili
promesse ben nutrite sopra l'orlo
delle
ringhiere
ruggini, come rapaci
come rapaci
cavallette..."
ma un posto
sottovoce anche per me in questa magra
generazione
degli uomini naturali, o dove possa
carezzare
la testa dei pedoni milanesi
in una
volta sola, prima che colmi
la sua
ringhiera e affolli, un posto qualunque,
un posto
a occhio guercio, un posto in croce
e tra le
donne: forse conosco poco
quello
che giova, il prezzo, la roba, e nutro
con me
solo questo braccio e questa bocca
spensieratamente;
a titolo d'insensata
tenerezza.
Ebbene, anche se non mi tocca,
ebbene,
guardami per ora nella polvere
tenera
dei capelli: la primavera è lunga
meno di
uno sguardo adorabile, e farò pasqua
con una
musica americana, farò i mici fatti,
farò:
celebrando magari gli uccelli intristiti
che non
possono tornare, nemmeno per cortesia,
nemmeno
per fedeltà tornare verso il nord, e qualche
povera
legislazione che ritarda
da tanto
tempo, che trafela.
9. Quarantacinque
Stavano
schiacciati sotto il portone come una pigna di sassi,
ma che
bisognava ingozzarsi anche il fiato,
ma tenere
ben bene l'odio stretto al pomo della gola
e ai fianchi,
perché l'assalto all'ultima carovana
era da
un momento all'altro, ancora poco, niente: un segnale,
all'altezza
della pertica del trolley.
Ha strisciato
sopra gli embrici una sirena lunga,
gli abbaini
ne sapevano molto più degli altri:
mancava
perfino la volontà di stare al mondo.
Ma poi
frignava un fiato grigioverde,
da aperture
filiture crepe saracinesche e compensati,
quando
nel mattino colore d'erba ruta
siamo andati
di fuori a contare i primi morti, i cadaveri
borlati
giù come birilli, come pere tocche: i cani
spenti
tra un marciapiede e quello in faccia, con la schiena
sugli strisci
dei battistrada e sopra la pollina
di cavallo,
o con il ventre incollato sugli assiti:
un po'
di cervello sulla lamiera con i manifesti.
Ma poi frignava
un fiato grigioverde
da aperture
filiture crepe saracinesche e gelosie:
come una
cesta piena di anguille matte
era la
nostra simpatica città, e sordo agli spari
il nemico
rotolava con la bava nera; cani
spenti
sopra un marciapiede o quello di faccia,
i vetri
sbarrati, e il solito cervello qua e là a pezzi e bocconi.
Ma un fiato
frignava grigioverde, caro Mario,
da aperture
filiture crepe saracinesche e dal tombino.
"Però
non dalle ganasce inchiodate di quei porchi"
diceva
uno della gap a un po' di gente, e "tiratevi via,
non ci
tirate fuori più neanche una parola dalla bocca,
né
un argomento, né ragione, manco a tirarla col rampino".
La sera
che è venuta quella sera sui quadrelli
rossi delle
macerie e vari caseggiati, un partigiano
della gap,
un tipo evoluto, sanguinario e buono
aveva il
braccio insecchito: sentì
ancora
tre ariette di sudore sull'addome,
nell'erba
dei capezzoli, e sotto il coppino,
e un fil
di refe rosso, un filo di sangue dal costato:
la febbre
grattava dove c'è la cintura di corame: era
"il grano
profumato che verrà dall'URSS, in una volta
sola, una
vera manifestazione" pensò, e chiuse gli occhi,
che erano
già da spaccare col martello.
10. Il bersagliere
svegliato morto
C'è
chi sogna in sogno i guadi degli specchi, e chi nel sogno,
e c'è
chi mangia in sogno radi
minestroni
d'avena o di tritello con i ceci secchi, e mela
gelata:
però
non sapevi dire le cose che so dire io, c'è differenza
seria,
e facile
forse non
ti sembra il dire le cose di valore
sull'argomento
di un soldato morto, anche
davanti
a un gregge di colonnelli repubblicani
in adunata:
eppure parli;
parli, e
c'è chi misura il terreno e chi il creato,
chi governa
la patria desolata dei fenomeni,
senza o
durante il buio: rode
allora umiltà
la tua umiltà, e requie
la tua
requie:
è
larga come il sacco a bottino la tua voglia
paesana
di morire in tanti, a mille e mille
e non
più
mille, in grande abbondanza:
e si sa
mai, si sa: la branda
carica,
la mattina del 15/6
di giugno,
si sa mai: o è scoppiata una bomba
a mano
in sogno, e il cuore
non ha
tenuto: oppure hai sognato una fame
così
viva, così generosa, così
per tutti,
da morire tu da solo, uno
per tutti
noi che dormivamo vicini alla tua branda,
rattrappiti,
come zampe di gallina
nel gelo:
sveglia,
Remo, salta su,
c'è
la stufa da inviare, la vita
della vita
incomincia dopo la sveglia;
e ricomincia
dopo il contrappello, quella tromba; e
"durare"
te lo dissi in fondo alla palta in postazione
"e durare
è un'usura, un sopruso", le parole
di un
intellettuale
sono profonde...
ma chi m
questi giorni, a queste aree crepa
è
un fesso, è un mascalzone, un traditore:
e tu lì
smorto come una patta lavata,
e guardavi
fiorire di coralli e miche e colla
i fili
delle vergini sulle travi del plafone;
la saliva
era il sapore, nel cielo del palato,
dell'ultima
mattina di tua vita, tremolava
come l'acqua
specchiandosi sul cielo degli archi
nei pomeriggi
che c'è sole: nessuna femmina
potrà
mai scrivere di essere stata tua moglie,
adesso
che i tuoi testicoli uno direbbe che sono
il collo
del tacchino assassinato fuori del campo:
e penserebbe
cosa strana di trovare
il bottoncino
madreperla delle mutande
cucito con
il refe nero: e tu non puoi continuare
a vedere
i tuoi occhi fiorire nel gelo, i tuoi occhi
non vedono
più il tuo sguardo scintillare come la
negli oblò
dei tendoni le sere verso il tardi:
e l'aria
del tuo cranio ora rimonta la rugiada
teutonica,
il cranio è un uovo spaccato nottetempo
contro le
cripte della sigfrido:
e così
solo tu mi sembri la medesima
tua
décade,
il tuo
stesso nemico
senza fine, e poca
lealtà:
mentre le facciate lunghe di Milano
sorridono
malinconiche chilometri e chilometri
di nebbia
al di là delle alpi: il merlo
è
volato sul cotogno: e c'è chi sogna
il sogno;
e la trasferta?
Senti dalla
finestra una voce rovinata:
E
il terzo battaglione
è
il figlio della vacca?
la
truppa è stanca morta
un
mazzo che ti spacca!
11. Però
prima del vento
Però,
prima del vento,
prima che
il vento piova
a lungo
andare, a stesa,
i verbi
coniugati a malapena, e i gemi-
ti, e
imprese,
e faccende e càno-
ni, e il
bene della vita,
sono i semi
riscaldati tra le dita
di una
sola mano, di una lingua
sciolta,
di una lingua nuova;
e le radici
semplici o gemi-
nate, nel
nuvolo sommerso
dei parlari,
per un secolo
almeno!
E siete voi pronti
a non
conoscere,
e a negare.
a pronunciare
detti assurdi,
come così:
"Credo quia..."?
"credo
che è ora di andar via",
"credo
che tutto", e "penso che"?
Però
prima che venga
prima che
l'ombra della bellezza
annuvoli
i moderni continenti,
però
prima che venga
tardi,
e che qualcuno
bussi alla
porta, o il telefono
squilli
e ci interrompa,
facciamo
tutti insieme qualche cosa:
la speranza
non è finita, ma comincia:
quella cosa
nel pieno delle cose
ci
darà
la frase giusta
di riverberi,
da usare
come una
lama, come una decisione
nel
groviglio,
nel tumulto:
appena
ripensando
a un affarino
vegetale che profuma
di pomi
e di carrube, o le formiche
in pista
sul davanzale della metropo-
li e una
faccia nostrana alla finestra,
e le braccia
assai lunghe, e di lontano,
solo tra
cielo e cielo, il ciel che sfuma,
un strido
di folle e di gavette:
pensando
così a delle secche
pitture
per indigeni o croati, e acqua
per dopo,
acqua per sempre;
e un temporale
non scabroso, rozzo,
candido
e immobile, silenzioso
e senza
vento, dell'autentico
colore dell'acqua
in fondo al pozzo,
per i figli
della legge, bei figlioli
di sentenza
varia e panni scarsi.
12. Una natura
morta
Spirito
buono, pesce, uova,
sassi,
serpente, luce
di panorama
rulla,
o nuova
Britannia,
rulla, in fondo
in fondo
al mare è l'oceano,
meravigliosa
unica confusione e basta
signori
colendissimi, miei
ottimi
nemici e commensali in giro
al legno
tondo:
(i bicchieri
rotti rintoccano
sul
transatlantico
che la tempesta
coglie
in pieno naviglio: per navigare
fa d'uopo
prudenza e confidenza,
e luce
accesa)
(si udivano
gli uccelli
gli uccelli
più rapaci
risalire
da profondi baci,
le uccelle
pazze e gioconde
ritornare
dalla giovine meta)
non più
rapina e iniquità
(battendosi
il petto, ma per tosse
repentina,
triste sevizia,
il brodo
si travasa sopra il moga-
no e la
bava sul martino di seta:
per una
volta tanto il cenone
vede frutta
abbondante,
nel chiodo
il revolver che non spara più, e il melone:)
viver con
parsimonia
e forte
aspetto!
(e l'augurio
che io sciupo
a fin di
tavola, con fetta
d'anguria
in cima alla patena:)
la bocca
al culo
e il lupo
alla balena.
E fe' suggel:
lo spirito
correva
in su e in giù
per le
giunture e nelle pieghe:
mani pure,
niente,
manco a
pagarle.
Tutti scappati,
svergognati,
sconfusi:
nessuno sapeva
spartire
all'unisono,
insieme,
il dolore,
l'eleganza,
il seme, e gli usi:
(pendono
i prosciutti freddi
e salati
dall'alto della trave
che li
impicca tutti)
(cessa la
pioggia a valzer
delle
dattilo,
cessa la detta
disperata:
"guarda se ci son su le stelle,
che andiamo
a numerarle,
a fare
patti.")
e mi domando
io, e cosa
sui piatti
spunterà, o nel tegame?
nelle
scodelle?
due occhi
rossi,
o gli spinaci, o pavoni,
o sassi
o fame? un pasto
omerico,
o pranzo d'orsi?
"Non più
rapina e iniquità"
sgrana
una voce "ma le tonnellate
e tonnellate
delle provvigioni:
ma bande
e salmerie e aromi,
e
internazionalizzare
i boschi
di betulle
per rifare i troni,
signori
colendissimi, mii ottimi
nemici
e commensali! no, non più
rapina
e iniquità: la morte
ci fa grande
pena e grande
soggezione:
vivere
con
parsimonia
e con un forte aspetto:
noi promettiamo
mari e monti,
ogni merce
raffinata è un gioco
plastico
evoluto sentimentale:
noi promettiamo
i mari
e non i
monti: noi faremo
un monastero
per leoni. "
Sbattete
pure la bocca,
fate rumore
e schiocca
sul cielo
del palato,
sbattete
pure le palpe-
bre: ma
chi mangia la foglia
non ne
vuoi sapere, non ne ha voglia:
c'è
un abisso, c'è
tra un
dente e l'altro
dente,
c'è un secolo
di cose,
c'è un'alpe.
13. Gli argomenti
A
der la baia, o condannare
in aperto
l'indizio, all'aperto,
le piante,
segate a filo
di catrame,
la forza malinconica
del
marciapiede
inaffiato,
il disonore
e il diritto del portello
dove stride
la città
con cose
da fare, e con vago
bagliore
di rame
che è
il primo serenare
e l'ultimo
navigare
nel quintino
trepilante
di squinzano
col frego della tacca.
Tutte le
tribù cadute
al di
là
della spalletta, dentro il fiume
per alzare
il livello dell'acqua,
per saggiarne
la fisica
profondità,
per naufragare,
per patire
e maturare,
alzando
le mani,
sforzando
la fronte,
fregandosi
la cispa,
amor di
pietra amore
di pietra
antelucana
e di
facciate,
stralunghe,
con la vita
sana,
con la
vista vispa,
il primo
serenare
e l'ultimo
navigare,
quaggiù,
lassù, le nuvole
docili,
mansuete, come mosche,
italiarde,
tosche, lombane..
ardi abbastanza,
così,
vena povera,
consigliata
nella vera
amarezza?
14. A una mezz'alba
A
una mezz'alba trista e fina, esposti a nord, sopra la porta
sciacqueremo
i denti, si ameranno nel nervo dei cardini
su e
giù
per poggi, in tutte le fattorie ereditarie
gli usci
spavaldi, e le latrine: con la voce corta
mangeremo
fettine di vitella congelata. O il legno
con la
carie, e strilli pullulanti dai gusci.
Caro il
mio caro amico, padrone di un segno e servo
dei foraggi,
con gli spilli stagionati puoi scoppiare
l'uva
rigonfia
e la malora, su e giù per i paraggi
che consumano
lo zucchero nell'aria
dei grilli:
l'alba mangia l'alba a quest'aria;
tutta in
silenzio, e dopo un'ora la furia delle mucche.
Ma cosa
è successo, cosa è successo dei soldati, cosa strana,
che lussuria!
Racimoliamo i lampi del volframio, le
gavette:
l'esercito è sparito in questo cielo senza volta
sopra i
camion, muniti di bandiera
falsa,
la bandiera di tutti: i nostri più prossimi parenti
sono la
stolta, stolta
patria oramai
e l'aria densa, queste faccende occulte:
pignatte
che levano il bollore in tutta Italia e l'umido
che semina
un ovale color alito, un flauto basso,
e penso
a Montale che fa il verso alla ghiandaia,
alla bellezza
oscura, al sasso irato, con un strido
ma forse
troppo corneo, o più puro lamento.
15. Pareva una
Pareva
una di quelle gran buonore quando preme
altrove
solitaria linda semirosa
la fragola,
lasciando intravedere il seme
e intenerire
una tinta senza corpo o cosa
e pochissimo
fiato e ardire nullo
e andava
soffiando l'odore della luna
sempre
meno e gli aranci della fioritura
man mano
si spegnevan nella cruna
della nottata
stretta e ferma e scura
come una
stanza d'albergo ancora da rifare,
dove marmorea
confidenza, tutta nuova
era e gelata
nelle braccia del cielo, poi gli aranci
morendo
sventavano dalle finestre odorate la piova
che indugiava
e indugiava sui celesti ganci,
e pareva
uno smeriglio a grani: il vento
bussa dentro
il cielo curvo, poi si efiata,
ed è
l'umanità quel tragi-
co sgomento
e la efiducia trasandata
del militare
che non vede posta, né re magi
dal fosco
oriente a menar qui la pace ed un congedo:
Sirio invisibile
bruiva più di tutte, e febbre
inoculava
nel corpo dell'equino che nitriva
rimasto
solo sulle strade ebbre
a fare
notte: un mare sembrava la saliva.
16. Dichiarazioni
del soldato morto
La
guerra è là sull'orlo di finire,
e fui
soldato,
pigro di patria,
maschio,
mite di sentimenti,
mi sono
comportato poco, anzi niente,
una minuta
recluta da niente, una frasca,
minuta recluta
esclusa da pietà, se tu consideri
pietà,
odio, e patria non essere in natura:
però
nel luglio liquido seguivo
col corpo
a rondinella tesa
che rada
fosco laminato di smeraldo
e aranclo,
un lunghissimo
esercito di folli leghe
marcianti
su un settore di chilometri scarsi;
ero impiegato
straripante di solitudine
nel giuoco
indiavolato delle furerie,
parapiglia
di alluminio a ogni rancio;
e già
per segreltissimo scrutinio lo sapevo,
chi non
cura la canna, e non la tira
a pomice,
interamente a specchio,
e chi non
cura la bandiera sensitiva
nel fodero
di seta;
i plotoni
a fiumana dentro quattro mura,
il reggimento
dentro un guscio d'uovo,
o dentro
i secchi;
colonne
di registri, bagagli di intendenze,
e le camorre
al ciclostilo, e le matricole
di zinco
gelato tintinnando
sull'ossa
dello sterno, e chi non sfrutta
ogni fil
d'erba sul terreno frale, chi non riesce
a rompersi
uno stinco nel cadere,
o l'osso
del collo, che soldato sei?
Mi mettevo
in un cantone della stanza di picchetto,
tra la
muffa, a scuro, a leggere il giornale
all'incontrario,
sempre con una fretta irragionevole.
"Uomo da
niente, recluta senza
seme e
numero" gridavo al filo del telefono
da campo,
"così come sono
perdetemi
di forza, ma salvatemi,
consideratemi
nel nerbo dei pochi,
un numero
segreto, senza scampo,
non
cresciuto,
ma salvatemi
le penne,
e io ci sto! Anch'io
ho lavato
il corredo,
il grasso
della gavetta,
come tutti,
in fondo alla vasca...
E voglio
un esercito gentile, un'arma
sana, per
tagliar fuori il Po
con una
sega in tanti pezzi, colonnello!
quanti
sarebbero i coperti sulla mensa
ufficiali,
o nelle stalle, qualche istante
prima della
battaglia che non scocca!
Piove. Piove
senza rimedio. Storna,
ah, storna
da me, gentile colonnello,
questi
pensieri coraggiosi...
e in ogni
crepa d'arido un fringuello
in gabbia,
con foglie di lattuga
a
volontà
perché si nutra prima della fuga
e in ogni
lista di sabbia una matricola
fosforescente
di fucile, un mortaio
da I4I
che spari sotto l'acqua
e spari
lune; un bersagliere
con di
molta scabbia.
Siamo nel
pieno della nostra cosa,
siamo nel
giusto della nostra usanza,
siamo in
guerra, in pianto, nell'errore,
ho ancora
carità abbastanza che ci vuole
per
ripensarmi
uomo, per sentirmi in posa
dipinto
sull'attenti e gli occhi all'infinito,
per chiamarmi
vinto. Vinto."
Ciò
detto confermato e sottoscritto per esteso,
credevo
allora d'essere sincero,
perfetto,
esaurito, e finalmente
fermo in
un attenti che non veda
più
terreni accidentati o panorami o aria
grigia,
o il polso ancora morbido, commisto
alla figura
dritta come un legno
vivente
di una sola tarma,
una ramazza
smessa per disuso,
e allora:
"Signor colonnello
dei miei
stivali, io vorrei
permesso
per andare libero alla caccia
di lepri,
di lumache, di gazzelle,
d'api,
con la faccia, qui nei dintorni,
tra gli
abeti che seminano il bello,
l'umido
e la penombra...
Io vorrei
darmi in braccia, a una grande primavera
teutonica,
a pie' dei lecci: o lupo
di favola,
o lupo di convento
o di
ringhiera
o di trincea, orinare
controvento
nel dirupo, questa è la vera,
questa
è la sola naia; poi morire
con la
morte in cuore e con il cuore in gola."
17. Buonasera
In
fondo a una giornata corrosa per i chiasmi
e tormentata
per i crepacuori, per puntigli vani,
per i cari
fantasmi dei pani, dei soldi, della faccia,
e per gli
allarmi falsi, e per i primi
numeri
che certo appariranno
al di
là
degli ultimi, per tutto
che ci
tuffa giorno e giorno, da mattina
a sera
in lei, la meraviglia, il lotto, la caccia,
si ricordano
degli stradoni, un po' perduti
in mezzo
alla giovane rugiada,
i miei
stivali impallati sulla terra terrena,
ove un
telefono osi dalla patria superna
di tenermi
a bada, e darmi lena; e mi riporti
in una
cadenza milanese o madrilena, una rada
"buonasera",
l'onda alterna, l'illimite
sgomento,
gli orgogli dell'affetto e il sentimento
dei cugini
vivi: con loro, prima di prender sonno,
scommettere
una per una le faccende trasognate
dei pani
dei soldi della faccia: la parentela
sola è
il lavoro di tutte le giornate, in tutto pari
all'invisibile
salario: e le generazioni, casa per casa...
Ma ormai
son grande, e quasi un uomo, e vario: e qui
pensa di
scnvere un romanzo un po' lontano,
pensa a
un temporale che cadesse sugli omeri
pianino
o su robinie nude di fianco agli stradoni,
e poi pulsava
il tuono in gola alle livide serate
come lo
squarcio in cui ognuno sogna di avere un sonno tremendo
con insalata
cruda e nebbia e le robinie
e tutto.
Allora probabilmente tu sospetti che la terra
è
un albergo in disordine che ci aspetti noi
e clienti
di riguardo per avventura ritornati
adagio
indietro, in punta di piedi.
18. Occasione
Qualcuno
ardeva di sapere
se, al
di là delle ante serrate,
la luna
perenne nel gelo
illividisse,
e al di là delle ante
certo che
il vento si comportava
piuttosto
male tra i rami
di neve,
e al di là delle ante
la neve
era alta quanti chilometri.
Sulla tavola,
i prosciutti
accidiosi
pendevano dalle travi,
e solo
Isai, il cristallino
Isai, solingo
tra tutti,
questo
fosco parente
delle nuvole
filistine,
dei profetici
rutti,
era in
relazione finanziaria
con la
famiglia del Re di Grecia
e qualche
capriolo. Ah,
questi ebrei,
assicurati
contro
i rischi dei bagagli,
contro
l'odore delle ferrovie,
contro
l'odore degli agli,
contro
altro! La torta
arrossava
sul tavolo,
sapeva
di saccarina e di flauti,
sapeva
di fiele e di candele,
ma nessuno
sapeva sapere
se, al
di là delle ante serrate,
la luna
raccolta nel gelo,
illividisse.
"Come
una sera
a Granada dopo cena"
io cominciai:
ma soltanto
il vecchio
Isai nel suo plaid
solo il
vecchio possedeva
deserte
parentele
anche nella
Spagna illuminata,
e fin nel
golfo di Botnia,
e nei regni
molteplici.
Allora desiderai
oscuramente
fino
all'ugola
bagnata
una magra
cameriera
dal grembiule
di satino,
e mentre
muti, al crepuscolo,
vagavano
nella cornea
della vergine
cameriera
gli equatori
o i geli
delle foreste adiacenti,
e la bianca
balena nelle fiamme
bruciava
nel camino,
intento
al crepuscolo le dissi,
una scapola
sullo spigolo
dell'armadio
nella cucina:
"Giardini
verdi, ombrosi
recessi,
e camporelle
con gli
aereoplani sopra!
Ma che
maniera di vestire è questa,
d'avvolgere
in funesta
caligine
di satino
la sua
pelle bianca, signorina!
Questa
sera a Granada dopo cena,
passa da
me, vieni a trovarmi, è tanto
semplice!
Dormirà
la padrona
innocente
senza
dentiera,
ed Isai, il candido
vecchio,
l'illustre giudeo,
sarà
nel bagno, forse."
Isai avrebbe
potuto comprare,
volendo,
celebri pitture
al di
là
e al di qua di parecchi
equatori,
ma la luna no,
e non la
luna, non ella
al di qua
e al di là delle ante
o per le
valli vagante lattea
dopo le
inondazioni
mirabili,
o il disgelo;
qui non
resta più la luna
al di qua
al di là delle ante,
ma il maligno
consenso
della magra
cameriera
vergine
fino all'ugola,
e la sua
testa gelata
ch'è
sparita, e che concede
una semplice
angoscia
solitaria
al mio colore,
come la
sete dei caprioli che al sugo
del torrente
già calavano,
e il
rigurgito
dell'ostriche
mangiate
a mezzogiorno:
ostriche
di febbre, e il gelo
allungava
il velo delle montagne,
e i pensieri
dell'equatore,
di Capo
Horn, della balena
bianca
nel soave fuoco:
verso le
sei della sera,
senza dir
niente a nessuno,
l'altra
vergine padronale,
dai capelli
color del risotto,
verso le
sei della sera
è
fuggita nella tormenta,
a sfogare
il suo carattere
esasperato
perché la vita a
ccade ogni
giomo,
ogni giomo
si fa più sotto,
senza sosta
o un sorso di pietà.
"Mettere
quelle guscie
secche
asciugate dal vento
corrucciato
e dal limone
sopra la
nostra ferita
che odora
di vino brulé."
La magra
cameriera,
qualche
passo avveduto,
venne.
Tutti i discorsi,
e le sue
mani nervose,
e le mie
mani sopra le sue
stringendo
il fusto ardente,
e promesse
e scommesse.
Ma penso
alle mie parole
estreme,
guardando al di là delle ante
la vergine
bionda ancora fuggire
via nella
tormenta.
"Quante
volte, quante volte,
hai
già
dovuto dirmi,
in faccia
a tutti, a tavola,
che
c'è
troppo poco zucchero
qui in
giro, da queste parti,
per poter
preparare
tutti i
giorni preparare
ai clienti
di riguardo
tutte le
sere il vin brulé?"
19. La ragazza
di Sirtori
Per
ballare la carmagnola,
per saltare
la furlanetta
(tenere
vertebre, piccoli cuori,
menti
conserte,
che crudeltà
sotto le
vesti amor prepara)
i tuoi
denti son di stagnola
la tua
vestina s'è fatta stretta.
Con una
luna così rotonda,
a sottana
così leggera,
in noi
casca una nebbia più vera
di me,
una cosa di me più profonda.
Della legge
i figli eravamo,
della legge
i figli, per caso
(piccole
vertebre, teneri cuori,
cosce
sottili,
felicità,
mani di
febbre amore impara)
quando
il cielo da notti è invaso
è
la stagione che scalda in mano.
Con una
luna lassù tutta ebbra
tu sai
che tonfo di dolce,
dava in
quell'attimo tra bacio e labbra:
c'era la
spola del sangue, ronfava.
Un bagordo,
famoso, d'acque
sul fondale
del tuo talento
(piccole
vertebre, piccoli cuori,
mani
conserte,
di falpalà
mani di
febbre amor ripara)
con i passeri
perduti al vento,
si fè
sentire, bruciava, tacque.
Giornate
molli come saliva
nel tuo
corpo crescono a trama
(dolci
vertebre, piccoli cuori,
spume devote,
per carità
non ci
ridate la febbre avara)
come sfera
che estrosa avviva
a raggiera
baleni di lama.
E sui tuoi
passi di cenere, ora
udiremo
stremire, a volte
dentro
labili spire, sciolte
come nel
nembo, il grembo di una venere.
20. Sommario
della rivista "Vanità"
Io
dico: primo, emigrare
emigrare
Lavorare
all'asciutto
per i
carpentieri,
per il povero
magutto
E il cuore
di dietro alle tendine,
bel racconto,
a puntate, di
virtù
come le altre: i
crumiri
Magri popoli:
molte
mosche
sembrano aver sentore
della pelle
umana: l'idillio
è
spezzato. Nell'idillio molti
hanno le
unghie bruciate.
C'era una
gamba senza gamba,
o cittadini:
non può stare in piedi!
indovinello
a premio.
Comunisti
e liberali, alle urne,
alle
boscaglie!
Note di
redazione: del pessimo
gusto dei
cittadini nella scelta
dei propri
governi. Ascetiche
viltà,
licenze fortunose.
Mordersi
il coccige. Risposta
al duce.
Tu morderai.
Terra d'avorio
con le strade nere,
liquide,
pastose, ho visto.
I calamai
del Cellini, i foschi
intrighi
di Torquato Tasso.
Si meritan
la morte e forse peggio.
21. Natus de
muliere, brevi vivens
L'uomo
in natura senza dubbio
fu inventato
come un grido
a bruciapelo:
odio,
ira, indumenti;
propagato
nella
apparenza,
o febbre
universale:
nato a sentire
legge e
fede, nato di donna
per mangiar
la foglia, per contarla
lunga,
per contarla corta,
manda giù
quanto più può
saliva;
nato di donna
per mangiar
la foglia, parla e vuole
maniere
d'ogni sorta,
secco il
corame delle suole,
fa digrignare
i denti; agisce
azioni chimiche,
cose
che son
lecite o non sono, a voglia,
oneste
che fan gran figura, o diso-
nore: commerciali,
generose,
che fregano
il prossimo, e consumano
i desideri
e la freschezza al viso;
che non
arrivano a niente, fredde
che mettono
i brividi; servili
che umiliano
serviti e servitori;
pubbliche,
che son strapazzi
mica tanto
lievi, che molta
opera
chiedono,
e non cuore,
finalmente!;
nato di donna,
sacramenta
e fa i suoi fatti, scaltro
o no,
igienici
o immortali; s'arrangia,
legge nei
cuori, negli occhi,
nelle pietre,
nei giomali,
e, appena
può, muore; mangia,
costruisce
sentimentali agglomerati
sugli elenchi
telefonici, sbatte
quadrelli
uno in pigna all'altro,
i quadrelli
rossi, che mangiano
calcina,
difendono gli arti
e le giunture
dai colpi d'aria,
e va bene
ma non
possono parlare
come
né
i fiori, come né i denti:
fare l'uomo
non è che una
maniera
come un'altra
per scamparla
bella:
uomo, nessuno
gli dà mai ragione,
e né
la ragione e né il torto,
e né
la legge e né la fede;
e allora
gareggia: azioni
che non
può sapere né volere,
misura,
vende, crede, tribola
e non ottiene:
sarà cibo
al morbus
novus, esca
ai batteri
più scuri: perché
perché
la salma è stretta; l'aria tira
forte,
e via con essa l'alma
sfugge,
temeraria, vile,
forte presa
dal piacere
nazionale:
e forse è
che forse
qui bisogna cambiar aria
tutti quanti:
è un consiglio,
un argomento
decisivo.
22. Refe d'una
vestaglia
Lume
della lume, di lume forestiera
dentro
semplice aria, per far prima
del tempo
un aldilà, lume da pietra, gote vive
strofinano
da presso la tua brina
convulsa:
accende una preghiera
il nostalgico
esvoto delle ogive.
Sospirata
apparizione delle vie
vergini,
le più rasenti e adorne; fatti rari,
nel
fruscìo
degli asfalti sopra cui, dèste
al nubilo
velo del suo uscio, dei suoi fari,
non furono
mai poche le malinconie,
mai stanche,
adesso pungerebbero le mani: queste
sul gelo
delle panche, colme d'un sonno insano,
colma natura
senza veri mali.
E pur sempre
chi guardano, dal chiodo,
le filze,
i fichi infarinati, là a Saronno? Lungo i pali
salgano,
pernottando, insieme, non in vano,
alle
ringhiere,
ai fili d'alta tensione, i fiumi delle lodole,
della malinconia,
spirto avventato,
senza seme;
refe d'una vestaglia
negra sopra
le ortiche in parasceve!
Ma qui rimani,
in fondo, per frondar la neve, la paglia
e la pollina;
poi, fuggire il dazio: lo Stato
non casca
o muta per contrabbando così lieve.
23. E lascia
che vada
Mio
padre, muratore
ardente,
pratico, pulito,
tiene un
braccio indurito
come una
leva, stanco
oramai,
leggero; ha le vene
grosse,
dove transitano
le forze
rosse e i dispiaceri, il bene
unico che
conosce.
E musico
estemporaneo
alla pergola
degli Scotti,
alle nozze
dei suoi fratelli
magri e
crespi come i pioppi.
Dunque sei
tu, con quella guancia
se ancora
la tua casa,
casa è
la nostra oramai,
e sospesa
in mezzo al secolo
ventesimo,
tra il popolo
d'oro?
la tua casa e la nostra
s'è
spanta nella nebbia.
E la nebbia
è come quando
tu le
palpebre
socchiudi
alla serena,
e sudi
per sensibile
ripensando
a una piova
di traverso
sul largo
di Milano: e una torma
di passeri
nell'orma
pura delle
rughe, lume
ove una
carreggia è un fiume
e un bosco
le lattughe
alla morbida
misura
della nostra
nostalgia
conforme
a sottil costume.
Là
ho trovato pel tuo sangue
celtico
una luce varia,
quella
di brina che lamina
le tettoie
cariche d'aria
nelle
domeniche
quando l'anima
rimane
un po' più in là,
come una
primavera che langue.
Con la bocca
piena di sangue
e un lampo
nelle caviglie
ti
scongiuravo:
"Soffiami
il naso,
non posso, se no
sono fottuto
per sempre, sono
vissuto,
ma vissuto adagio,
fantasia,
malanno ed offesa!"
La storia
come lunga
sarebbe
a recitare;
non ho
fiato, e la saliva
non ci
basta a perorare
questa
causa già perduta.
Fu come
in sogno, ed ogni
che torna
non ci trova
più,
neanche la piova,
neanche
il popolo dei passeri
oltre dove
seguiremo
a chiamarci
ancora dopo,
anche dopo,
nella brina
fresca
e ardita del cognome.
Sì,
la storia, la storia,
la storia
s'oscura:
quel lacero
nel lobo?
la mamma
dove tiene le boccole
che
rilucevano
al di là del paese?
Io ti narrerei
del cuore
a caso?
Ed il cuore
il cuore
dove? Chiamami,
se per
caso non è tutto
quel fruscìo
delle falde,
quando
i carabinieri
con le
mani larghe e calde
nel diluculo
sulle melighe,
furtiva
colpa della notte,
furtiva
spiga nel tuo cuore,
ti rapiscono
un fratello
magro e
crespo come un pioppo,
troppo
piano!
Sfoltisce
la casa nei giorni, e dirada;
foscamente
in seno piscia
così
un passero di più
che da
lunga piova torni e
posi agli
orli della roggia
dove tu
t'insogni folti
i contratti
sindacali
e la tua
rosa dei venti liscia.
Addio, ma
cercala, a più non posso,
come cerchi
l'unità
coniugale,
ch'è si ligia
al tesoro
delle vene
grosse,
erte. Ma cercala
ancora,
perché nel tuo corpo
nostri
passi hanno creato
l'uomo
fisico: un garofano rosso.
Solerte
fronte, come l'onda
del ginocchio
silenzioso,
tutto mosso;
tonda e saporita!
là
ti lambisce
con memorie
la brina.
Quella è
una fina
Lombardia,
dentro e fuori
del tuo
petto; resta rada
e visibile
la schietta
opera umana.
Quindi lascia
e lascia
che vada
come viene:
i tempi
non mutano,
non mutan
come il
vento, ma più piano
ancora,
perché nel tuo corpo
nostri
passi hanno creato l'uomo
fisico:
un garofano sano.
E musico
estemporaneo
alla pergola
degli Scotti,
alle nozze
dei suoi fratelli
mio padre,
murator
e ardente,
pratico, pulito,
e sullo
stomaco un dito di pelo.
Ma ogni
notte ogni giorno
ogni nuvola,
perdiamo
di vista,
noi due così discosti,
interamente
il medesimo cielo.
Sai tu se
l'anima
si unisce,
così giovane,
così
sola? e si salva? Io
tuo figlio,
tuo ramo,
immagino,
ed immagino
dalle nostre
parti la brina
e il latte
e l'aria di mattina
sia una
cantata matta
ma
un'armonia:
un danno!
Ebbene.
Ebbene tu conosci
al giorno
d'oggi, proletario
nel lume
della tuta,
albe utili
e pure, di tempo
in tempo.
Minuta
è
l'ora che ti duole
e dolce
spira in tutto
quel che
arrivo a immaginare.
Ma mi piace
se il tuo universo
non è
mai, segretamente,
sottonebbia,
un po' diverso,
almeno,
da quello che è.
Hai sempre
una cosa
da ridere,
in tasca,
un sacro
profitto, una frasca
del
risparmio.
Giocheremo
quindi
il giuoco della vita
con la
tua eredità?
Qualche
notte io gridavo:
"Tu, tu,
..."
Milano è un cuore
mortale
nei fianchi
della nebbia,
una ferita.
Oh, non
credi che risuoni,
in terremoto
o in giubilo
il corno
di Roncisvalle,
e come
una bandiera,
di là
dalla tua moto,
di là
dalla frontiera?
Così
crederò fermamente,
mio padre,
muratore,
che tra
la notte e il nubilo
fiato delle
castagne, fischi
la tua
moto monotona
o veloce
come il polso
in costa
alle montagne,
ed una
lancia arrischi
il clakson
nei galoppi
delle melighe
e dei pioppi.