VICO ACITILLO 124 - POETRY WAVE
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Direttore: Emilio Piccolo



Sans passion il n'y a pas d'art

Calamus
I poeti di Otto Anders


Emilio Villa

   
 1. Pezzo 1943: comizio
 2. Cosa c'è di nuovo
 3. Nottata di guerra
 4. L'amico socialista
 5. Pezzo 1941
 6. Il dopoguerra
 7. Semper pauperes
 8. Però tornare
 9. Quarantacinque
10. Il bersagliere svegliato morto
11. Però prima del vento
12. Una natura morta
13. Gli argomenti
14. A una mezz'alba
15. Pareva una
16. Dichiarazioni del soldato morto
17. Buonasera
18. Occasione
19. La ragazza di Sirtori
20. Sommario della rivista "Vanità"
21. Natus de muliere, brevi vivens
22. Refe d'una vestaglia
23. E lascia che vada




1. Pezzo 1943: comizio

Ma sarebbe faccia tosta, un gran bel becco, o stolte
beghe per mettere zizzania sulla terra dove cresce
soltanto il riso e il vento, o smoderare

e fare rutti a bruciapelo o folte cose
liberamente in centro alle navate che balugina e che stride
di fuori il tram sulle rotaie...

Ma non fa niente, ma non fa, ma gerbidi,
ma gerbidi e straniti, noi, se e quando gracchia
a mezz'aria la trombetta che ci chiama,

noi con l'orecchia tesa a foglia, con il rozzo
pube (quella poca pacchia, quella poca
fesa comprata a buon mercato, ove prurisna-

no una semenza taciturna, la gran nube,
e selvatiche stragrandi meraviglie
d'ogni risma, d'ogni calibro, d'ogni cupo

estro) ma gerbidi e straniti andiamo
allora di invenzione in invenzione verso
un non pensato mutamento; con l'orecchia tesa,

vigili sotto la trama dei dazi e degli abusi o sul dirupo
della febbre che non piglia e non si spenge,
dei mandorli squisiti, dei fiumi fatti d'acqua, dei respiri,

una stagione sempre un po' più in là,

e il bersò folto in piena massima che sgargia
sugli spalti a trine dei verecondi laghi, sulle absidi
in vigilia sensitiva: noi andiamo.

Lascia giù i santi, le maestà: lascia lì gli orinali
in fondo al naviglio, tremolanti, o nella gola
della pattumiera che non vanno giù, non sono aghi, è tolla
a smalto.

Con il turibolo della tarda primavera che gli scrosci
d'acqua evapora a fiore di maiolica nelle latrine
a pagamento, ove lì in giro in tribolo

girano le anime perdute, e i fessi
e mosci e tulipani in pista, il proprio turno ansiosamente
aspettando per fare le cose che si cela

ai podestà alle figlie di famiglia e di Maria,

tenendo duro sulla nostra via, noi si scivo-
la all'ingiù, verso la lista che è un distante,
che è un pericolo, verso i dissonanti lidi...

E c'è il corpo cresciuto lombardo e sderenato,
quel tal che va alla svelta, e saggio è nella morra
come il porcello nella palta, nel puzzo del conciato, che
che dissipati i grani e i foschi maneggii
dei retrobottega e delle banche strette
di manica, disperse le canicole

di cenere, le risse
sessuali delle bestie lungo i calcestri,
sconfitta la camorra e scancellati sui cantoni

e neologismi e targhe, senza risentimenti, e il novero
a veleggio degli illustri in sovrappiù,

solleverà il suo bavero scoltando l'aria tersa
quando traversa, come biscia lustra
che sguiscia se ci tiri a manolibera una pietra,

liscia l'aria nella patta unta, un gelido
prurito in cima a là, la cima in giù piegata
a mo' di salice piangente in riva dei palustri.

Chissà se ci daranno un paltò nuovo, su misura, d'aria
pura, per la nuova taglia, per i ranghi nuovi,
e un mazzolino che spunta di viole, all'asola, e uovi

ovali, e un sano frumentone sopra il cribbio

che non spande, un peso che non tema il frusto
e le intemperie, se ci daranno, e che non faccia ruggine;
e se semineranno, esempi solitari,

a paragone e gran soccorso, e a civil gusto,

oltre i strilli del nibbio tempestino, stanze
da star dritte perfino nel lavacro
brusco di nebbia scrollata giù ai geli,

ai fanghi, al salso, al tosco fuggi fuggi, al sacro
morso d'oblio, agli atti, al sangue, ed al silenzio
dove gode il bruco e la càmola lavora!!

Se ci daranno. Però

Nella corusca spola delle ri di rico
delle ricorrenze, dico, dei desiderata, degli affitti,
al di là udiremo con gli occhi della vergine natura

al di là d'usci e portici coi bruchi
in alto tribolare ancora adesso
che c'è fronda nelle scelte e negli incroci

e che siamo restati senza ordine e senza rivoluzione,
magnanimi e caduchi, e sembra bello
aver sbagliato in molti, in tutti;

in alto sopra, o a pie' dei letti lucidi
o sotto cupe spighe, oggi tribolare

una manciata di semenze tali e quali,
la verzura che riga nottetempo il gorgonzola,
e in alto i scenari di cemento armato;

cento dighe,
allegri poggi,
festevoli facciate,

o varie cose in senso nostalgico, canzoni
fiatate senza remissione, parole clamorose, colpe,

e orme, e tracce, e carregge e pedane a perdivista dileguanti,
e le chiome dei faggi nei cofani scarlatti delle corriere.

E filtra nel filone della schiena, e filtra nella costa
soda dei selleri giganti adagio, e adagio nei carciofi
e in altre sfere, e nei quarzi che aguzzano la vista alle censure,

ora al passaggio del marrosso nelle polpe
delle indugianti schiere, delle donne incinte,
che vergini tuttora paiono o maritate o nonne,

fiere come la moda vuole e fecer le nature,
filtra la cruda sedizione, quel retaggio d'inferno
traveduto in fantasmi di libidine inconsumata,

mappamondi festevoli e stridenti tomo un pemo...

Ogni nazione erano fronde screpolate dal gran secco,
o poco più: era una lisca del carpione sottaceto,
senza la carne tiepida e unita...

ora al passaggio del marrosso sui vagoni

della posta che vogan le tempeste calde falciando
e le stazioni transitando a branchi a branchi,
con siepi e fiori e nuvole di stinta carnagione:

così certa caligine sospiri
di madreperla alla bell'aria, parsa
quasi ardito zelo, per puntiglio, e in attimo di fuga

perenne si tramuti, ora che sosta là il marrosso
tra chiappette colore d'albicocca, e sempre in giro
sottoveste alle baggiane a tredicianni,

e dentro le lentigg-
ini: che frusciano se fossero cicale sulla luna
arsa in ama ai blandi pomeriggi: alle baggiane

già di pelo esuberante, o a maritate
per forza o per amor.

A noi sarà Siviglia, Maiorca, il Labrador
in fondo alla bottiglia dell'acqua minerale vera fonte,
che increspa, in terza classe, e si travasa, a ferragosto?

e il sole sarà come un gallinaccio, sarà come,
che scende giù a taboga e gira e gira, e tac
l'ha lì nel becco... ma è un cranio di mulo,

o un seme di linosa...

Ci porteremo via la nostra ratamaglia,
le lune dei posteggi, i campanelli con le resistenze
dagli stipiti in cancrena, la maglia feriale

e quanta masserizia più venale, e il rame, e i litri
con la tacca, e il bollo come un sole
di giustizia e libertà: muta

ormai la Singer:
le amene piantagioni dove a minger
rivavano le cagne, i cani-lusso: gli spadoni belli

e i mobili frasconi della tempr
a dei prati dopopranzo con in giro esanofele, e la botani-
ca rionale dentro ceste marce, a chili e chili:

a musica odorata in fantasia degli jukulele,
tutto portiamo via, o sparpagliamo ai vani
zefiri che fan vele e imbuti e spire a nidi

forse:

tenendo duro sulla nostra dritta, viene che
si scivola all'ingiù, verso una lista scura,
agli aguzzi lidi, in bili-

co, ma prima ci fa spendere l'anima di dio nei garofa-
nini di Ventimiglia nei chioschi di stazione,
venduti tra gli spruzzi, svenimenti e gridi

e battimani, già passi, già sgualciti, un diecimila
circa, poi ripartire verso una certa quale
qualunque parte d'universo:

in mani la cambiale, e una candela per vedere
i sassi, e mista a larga confusione qualche strofa.

Quel tanghero lunatico, già pesto, ha una gran voglia
di buttar sangue e soldi e gran madonne
fuor d'ogni grazia o uso nelle altrui botteghe,

ha forza di cambiare posto, a tutt'andare;
ha sacramenti rotti che conosce lì per lì, ma non conosce
quanto costa lui e quanto quel ricordo che non spiega

nemmeno a se in persona, alla sua spoglia,
(se gli dura il fiato che gli sbanfa, e l'asma!)
e che se guardi bene bene rema

oltre il bordo discosto delle cosce
m dove i piro-piri bui e i piovanelli
   e in dove il tordo

tramontano concitati per tema del grosso nubifragio,
fuori dai gangheri anche loro, ed il peso, sordo ma sordo,
scema di una foglia curva ad ala,

luna appartata, sventilata, e che patema
è sceso! è tardi: buonasera,

e buonavita! Forse sarebbe meglio
forse sarebbe una fregatura, un'altra data, una piaga
per noialtri noi che, stando alle cronache civili

sfumate sui giornali, sui camion, nei registri
di carta, si paga

quel po' di calce, e quel celeste
che schivo fa la guardia sopra gli embri-
ci, quel po' di magra boria per un aci-

no convulso di baldoria nella capa allegra,
di scatti mortali e batticuori, e I baci
che rimembri sinistri rimirando

il bel coppino delle monache sottili
all'ombra delle grate, o quello delle sguange
nell'ultimo loggione; prego, e argentovivo

nelle costole alle bambine
vedove dal tempo della prima comunione in poi,
gli oswego, e sangue di galline, e un bel corredo

a posto, con le frange, coi bomboni.

E basta. Adesso guardateci la mano com'è in alto;
esautorata; cinque si pittura con l'ombria; pari e patta;
per ogni dove; sul dritto della mura; fin che il sole

mulina; ma datemi ascolto; oppure fate
finta; datemi l'ultimatum; cinque s'allunga;
e già venite, certo veniamo, vengo subito: le vedo-

ve, i gasisti, le scalmanate; i tristi
suonatori d'orchestra e tramvieri con le occhiaie
scombinate a furia di mangiar rotaie e latta,

i ciclisti serrando con affanno la moltiplica,

affittacamere, mezzani di stallatico sugli argini,
teppisti e manigoldi e ruffiani pentiti d'avere sesso e età,
astuti fabbricatori di coramini da mettere in testa alle stecche da
       [biliardo,

e chi ha nutrito di spezie e coloniali e cucarache
e di ogni canzonetta americana il lardo della pàpera
spedita a nuova Troia sopra il Po; e chi le cedo-

le moltiplica e i tagliandi per il riso cereale
nei specchi signorili o nella gualma non salubre,
e poi scappa come biscia se ci tiri un sasso;

e chi aveva nascosto il morto sotto il crine, un palpirolo,
si presentino tutti verso sera: (fallo per amor mio!
non arrossire, non impallidire, deh, licenziati! e fiuto
fine ci vuole, e troverai la calma nuotare nelle vene,)

si presentino verso sera molto in prescia, a volo,
i vari ceti, duro tenendo sulla propria dritta
e nessun cruccio per la sassaiola o l'ironia:

la mano dritta, a calli e spessa, e passaporto
alto nel palmo della mano torto a buccia,
e la fama europea sull'unghie delle dita viola;

avanti, con la grama confidenza, e il pomo sano, per corrobo-
rare e teste di rapa e nati d'adulterio e sanguisughe
del globo nostrano: rifiuteremo la natura

e ogni disgrazia che ci càpiti, e i diritti
presi sul serio, il torto di tra rughe e rughe, il putiferio
in coda alla gran lite della vita;

e spediremo alla fin fine un lauto vaglia
dall'al di là del margine, a chi per avventura
resta solo a stormire come un flauto nella vita

economica del paese, o se la squaglia per suo conto
a far l'assalto all'ultima gerla, o séguita
a fare festa e la scalmana: un vaglia

con scritto sulla cedola: "O gran balordo che tu sei,
o tu non senti che la Patria è morta,
già, e non condona?"

Certo veniamo, a ghirigoro
per ruscelli e marciapiedi,
il fianco quasi che trasuda, e duro il fianco

tenendo sulla nostra dritta, e canzonando:
"Ohè Americ' america mmerica
ma che cos'è questa Merica?"

Che non torca la gola, che non torca, che non giri
indietro la ciera, il tacco con la suola; è troppa
cosa vedere di persona, e fatto grave; gli alloggi, la dimo-

ra!, la filitura d'aria che rifischia dall'usciolo un po'
soavemente semiaperto, la chiave nella toppa
che trapela un chiarino: e ti commuova il fatto, l'avventura;

a sorte chi ritorna a spegnere la lampadina,
la luce che si spreca o intorbidisce in nostra assenza!
o forse i santi d'altri tempi con la calamita, in silenzio...

a sorte chi
tomi a piantare nell'asfalto, nel granito, nell'argilla
e pomice e nel legno la sirena d'allarme come un seme.

E eleggendo nell'ambiguo
molo degli agrimensori, o i già citati uccelli, o bisce,
o liberi piccioni e selvaggina, fuori dai gangheri anche loro;

o il frutto solo
che ciondola bruciando della Philips che è rimasta a lungo
accesa per un puro sbaglio nei locali, o per scommessa,

e pare un suono illuminato, obliato, tanto offeso... e che patema
la sirena che esita faville e non fa urlo, il rutto
caglio di volgo già italiano, se scampana

come odora d'aglio! e allora:
pomice e saliva su e giù per l'etra italico.


2. Cosa c'è di nuovo

Di nuovo c'è che ai giovanotti ramazzati via
non si può tenere spalancate più le palpebre
con gli stecchini a punta, vita non ce n'hanno più:

di nuovo c'è gli occhi bianchicci dei maschi
milanesi sui fili del filobus, dei tram, sui pali;
mica sarà triste seguitare a mirarsi negli occhi tristemente!

di nuovo c'è che tra la polpa e l'osso c'è che fa caldo
e che fa freddo a una ragazza che possiede gli occhi
come una campagna arata dalla guerra, fuoriporta;

di nuovo c'è che poche piante vanno avanti a venir su;
e mani conciate di ragadi e di caligine
accendono le stufe di ghisa, non c'è gas;

c'è che trema la sostanza universale, e il nostro cuore
non per vanto, né per forza, ma mi sembra buono, e trema
un rumore di vie d'acqua, vie d'acqua e ferrovie:

il vento ha lasciato solchi di pioggia e macchie d'unto
sull'intonaco delle facciate larghe quindici metri,
e solchi, cioè rughe, nella piazza lustra degli anziani;

le finestre sono una semenza tra i fanali: e io
che semino fiato e gran buontempo, e tu
che in su e in giù passeggi per le arterie del centro;

e lo che faccio stracci paragoni, e tu cne porti
la bellezza malinconica e avara dentro l'ombra rossa
d'essere ancora bella, ragazza come una campagna;

e io che so fare complimenti dimenticati, e tu passare;
e tu che pensi che bisogna guardare quello che bisogna,
e io che penso agli animali barbelanti che torneranno

ancora come una volta a pisciare vicino all'aria; e tu
fammi una lista musicale di panni da asciugare
all'aria generosa e sventurata della nostra camporella.

3. Nottata di guerra

La notte che c'era il nubifragio, molte mamme
addormentate nella piena con la lingua secca,
io cominciavo a immagmarmi a ragazza
che adagio se la sfoglia, e dice: «ce l'ho lunga,
rara, rosa, bella» e trema come una foglia;

e l'erbe parvero sanguinare sotto la forbice dei lampi,
e noi non per niente dovevamo pensare alla salsa
inglese, alla trota moribonda con gli occhi nel sugo
delle vetrine tra le foglie di senna, con il prezzo
al minuto sul banco marmoreo, e alla stadera: allora,

primizia colore di pelle di pollastro, filamentosa,
una figliola in bianco poggiava le sue tette stagne
sul cristallo delle bacheche, e con il mignolo
piluccava l'uvetta nel mollo del panettone:

era la notte che c'era il nubifragio, e molte
ruote di lontano perdevano i tubolari nella palta,
e una zona di ragne baluginanti per l'aria alta,
orme sovrane e incerti passi sull'immobile
insonnia che divide i morti di qua dai vivi di qua.

4. L'amico socialista

Abita qui ancora in subaffitto quel tale che una sera d'agosto
che il cielo era basso lì lì per cadere spiovendo
nei bicchieri succhiati, nei fossi, e che diceva: "la civiltà
è un paradosso, e basta"?

amarezza e confusione producendo
indicibili sul tavolo dei registri battesimali,
aveva avariato vagamente i suoi cognomi e i connotati;

e pochi conoscevano a fondo la carnale profondità
delle sue parole colorate dall'ignoranza,
e io l'ho in mente ancora dopo tanto moto di anni, e fino

ricordo il dondolo della pallina di vetro nel collo
della gazosa, un verde smerigliato, chiaro:
era un uomo che aveva sete di gazose e squinzani

la sera del sabato di agosto che il cielo mollo mollo
era basso e faceva un soffoco tremendo, un grande vomito,
anche a tirar su le maniche di albene fino al gomito:

quel tale che andava misurando la piazza
nel vortice tenero viola delle case lì intorno
con la corda d'attaccare il bucato la moglie, e contare
così su per giù i salari, e le sere cadute nel volo delle sere...

e io per me mi tengo in mente la mimosa estasiata nel giardino
della canonica, che mugolava vedendosi nell'orlo del fossato
tremare e la vasca solitaria abitata dal freschetto,
i fiori blu accesi del salnitro in fondo alla cisterna; il rubinetto:

ora, in segreto, alla rinfusa, il vino degli uomini fermenta
per una sera estrema in cui le trombe alte in mezzo al rosso
parapiglia sveglieranno gli ignoti e il rimorso delle opere inutili;

così che quando uno adesso si addormenta nel mugghio
invernale che odora, con in bocca noccioli di prugne o liquerizia
o cicca americana, senza aver finito di guardare la sevizia

degli affitti, una forbice arrotata
gli branca la rotella del ginocchio, e tric,
un taglio, o questa cartilagine qui all'orecchio.

Ma lui non ha potuto sentir bene quella volta che venivo
a bussare alla sua porta perché il tuono di tutta l'Europa
confondeva e cieli e piazze e giardinaggi senza pietà,

mi bagnava le nocche, e il vento urlando
saltava qua e là come una bestiola disperata,
e io dovevo scappare alla svelta per paura

di restar lì come quello dei fichi a prendere ancora la pioggia
e tuono, e altro, dentro le giunture o i buchi
o nei poveri stracci del polmone... E di là dalla porta

venivano bocconi di una musica imprecisa, danneggiatissima,
dietro le spalle le montagne stavano per spegnersi
e sparire, e dovevo andar via, e tu dirai:

"beh, ma che c'entra tutto questo?"; eh, se c'entra!

Perché insieme io e lui noi due andare potremmo a trar respiro
dalla grigia profondità delle nazioni e delle terre
altrui, e ormai di tutti, ad annusare il fiato

nella filitura che connette notte e giorno; del filo d'erba
che vuoi crescere sollevando il pietrame che lo pigia;
o qualche cosa di più grande ancora che vallate
e prati e piazze e nazioni e cateratte: il temporale!

5. Pezzo 1941

Potrebbe darsi
che l'aria un giorno
qualunque, viaggiasse
per l'aria a malincuore,

e ma se il lago di Garda non recupera col tempo
tutta la polvere mangiata dai ciclisti in gare assurde,
i chilometri che non contano, fatti per niente,

e ma fin quando agli stradali con le pioppe nichelate
parlino l'ozono e la pioggia a fil di terra d'ideali
giubilei, di comunismo fresco 'me 'ne rosa

   e ci succeda allora quasi
come se nel seno martoriato dalle lance,
devozioni premurose, tenerezze, vanità,
le nostre diocesi annegassero una per una
un po' alla volta, e dentro l'altro
effimero vaso dell'aria con un riso fraterno
sopra a galla la gente naufragata
salissero, ma senza il corpo folto come il corpo o come cosa

e fin quando il cappone renitente,
prigioniero sul ciglio delle nebbie o nelle
stoppie violette dell'autunno, non morisse
eroicamente colpito da quel temperino che si tira
per caso, e che lo sbuca a sangue in uno stinco; o

l'odore dei vagoni strisci ai posti di blocco
e sappia alfine che le notti della terra
e i mugli dalle stalle briantine, e il fiato

del foraggi forestieri, e l'aria piena
di stufato con il manzo nostrano, e il resto
sullo zinco in sonanti nichelini, come mani
brinate toccheranno il firmamento: e qualche

biglia d'agata recondita nel panico ronfare
delle pioppe ci farà o lume o scuro

  e mica i cieli
sono un capitale sicuro, senza fondo, o una mmiera
priva di patria e sentimento

pertanto corrano le truppe a far ombre coi pastrani
sul lavorerio di frontiere per le miglie e miglia,
anno per anno; e più l'ascoso affanno dei respiri
qui in patria cresce e con più gela
nel caos, e qui trapela
come una nostalgia obbligatoria il pesce
della lume settentrionale, le voltate
a biscia del vagone, le sue soste, i giri
in campagna lunghissimi, in mezzo alla pittura
notturna dell'acqua fina fina e della guazza

per cui, matto di debolezza in faccia al terrestre sogno
dove i sassi maturino d'Europa, o galleggino
come rottami i giardini patrizi nel naviglio della pace,
le nazioni escogitate nel sogno degli strani
cancellieri con la testa piena di pigne

matto di sentimenti l'ultimo navigante o macchinista
o marinaro d'acqua dolce e chiusa, o corridore
in pista, dimenticati gli argenti dei canali e delle verze,
il mormorio delle posate d'alpacca che si nettano
dopo desinare in una fiacca lenta dalle porte
spalancate per le alzaie, se ne vada
al di là dell'anima

e che al di là dell'anima ogni cosa è specchio
d'una celeste cattolica confusione, né vogliamo
credere troppo al nostro corpo, questo specchio, e basta,
per questo tempo, con la luce che ci dà fastidio

però noialtri intanto siamo, con timore,
con reverenza, e gli uni e gli altri, e poi,
su dai registri indaffarati dei poveri del comune,
noi transitiamo, come la nuvola patita, verso il buono
liquore dell'atlantico, in fondo alla provincia,
senza rumore di frontiere o corridoi: è là

che tutto sarà vago e irreprensibile, tutto
comune; non una spanna di penombra
più forte mai appare là più della notte

elettrica, da pesci.

6. Il dopoguerra

E' un pomeriggio di temporale,
di indulgenze, di emozioni
intense, e odorando il sale
e il tramonto di tante nazioni,

le alleanze in corpo alle zanzare
che ronzano a matto, e sulle ragna-
tele, e un'illusione pare,
sostanza che va in fumo e bagna;

e vidi il nero; e in un presagio
me medesimo vidi tornar
e nel trigesimo requiem, nel lustrale
andante di stoviglie, adagio

percosse e di scodelle ai lavandini,
pensando le liquide contrade
al neon, e i lampi dei cerini
sotto le stelle grandi, rade:

son tornato con tutta la pelle,
con la sciabola al costato,
fresco e bello, e rivoltelle,
come se niente fosse stato;

son tornato dalla guerra stolta
con la piaga stretta in pugno:
scolta in aria che mugugno,
che ronfar sulla terra stravolta.

E' passata la bufera,
è accaduto il temporale,
chi fe' il bene e chi fe' il male
cerca soldi e bella aera;

nella mente strepe la gran voce,
è già sotto anche il poiano,
senza pepe e zafferano
il risotto non si cuoce.

Mi meravigliai della strada
dove tre uomini lontani
come tre uove, sembravan più umani
di quell'uomo che da solo guada,

che finge di chiedermi con vaga
ingenuità soltanto un cerino,
e mostrando sui diti grosse raga-
di, si spinge col gomito vicino,

e poi domanda in sordina: "Tu
cosa ne hai fatto di quei porchi?
cosa ne hai fatto del tuo cuore, al bu-
io? cosa ne pensi adesso?

e in vista a chi sembri più uomo?"
E io feci: "Ecco, qui... qui siamo
tutti negli stessi panni; Adamo
è il teppista, onesto è solo il pomo.

Certezza senza scampo o limi-
ti, gente discesa con la piena,
tutto il sangue è uguale a rena,
tutta la brezza è uguale ai primi

moti, al premito dei poli
dentro i voli di una passera
che nuoti e frulli sola a scuro".
Dissi. Ma a riva del muro,

ma le notti fiacche e tremende
che si sentiva piovere latte
e passere come pecore matte
si scaldavano sotto le bende

nostre, sotto le giacche, e al tatto
il polpaccio tremava, divisa
la fava tra superstiti piatto-
le, e il ghiaccio delle rise, le notti

in cui predi predicavo: "Venga,
deh, che venga all'uomo bianco,
sempre in piedi, dentro il manco
gluteo la vecchia legge del Menga!

Venga pura nella scalmana
che carbonizza tutti i profili
dalle nostre parti civili
di qui, senza ragione sana,

venga la penuria carnale,
tomino i Caduti, dementi
e fraterni, dove loro consente
la furia del bene e del male!"

Poi mi strinsi nelle spalle
questa schiena che si slega:
uomo che magari se ne frega,
ma che sotto gli brucian le palle.

Con saette che scottavano i piedi,
gridavano in balia al nebbione:
"Fermati, ferma!
se no vai dentro, via! Vedi

che bagna, che palta, si va dentro,
ci si perde i tacchi! E sembra...".
E là, in quel chiaro dove è l'erma
che fa lagna e ride con il ventre,

il piazzale era concitato
per pochi nichel di valsente,
tutto si vendeva a buon mercato,
temi secchi e sale per niente;

vendevano perfino i cardelli,
assassinati dentro in gabbia
con una fina machiavell-
ica, con un guizzo di rabbia.

Un po' di sangue, un po' di sabbia,
un po' di tetta e un po' di pene,
un po' di morte, come conviene
a chi vuoi vita e non ce l'abbia;

lasciando ai miseri spigolare
le schegge sparse sui marciapiedi,
la zizzania da masticare,
la letania del "mangia e siedi";

e avremo per paga il fiato umi-
do, rancido dei tubolari
di cicli e motocicli, i fumi
del carburo in giro ai fari.

Anche la nebbia è passita,
nebbia che era solo un fiume,
solo per scordare il proprio lume
e discerner chi non è più in vita;

e al peggio fosco, nel volubile
fascheggio dei Caduti,
son quei pioppi d'aria muti
in gola a un tempaccio e a troppe nubi.

Con i fulmini che emana-
vano, gridammo nel nebbione:
"C'è stato questo e quello, ma...
ma ancora è niente in proporzione!"

Gallina omnis divisa
est in partes omnes, i fiaschi
sono scoppiati, e l'oriente
salirà in mente ai maschi.

Ti ricordi, Italia, quella sera,
là seduti sui bordi del mare,
e io ti dissi che in primavera
ci dovevam lasciare?

7. Semper pauperes
Semper pauperes vobiscum habebitis,
sed me non semper habebitis.
        S. Matteo

Già da lontana breda, già da tempo, con l'indice levato
a tramontana, quel medesimo che uccise sulla scorza
del gelso due formiche in assolute faccende,
con l'indice levato noi segnammo, per prudenza,
per un vago bisogno di ricordi e per la forza
stessa del semplice pensare, quella casa
che da lontano chiama e ci sospira, così piena
ancora di romantici sentimenti, e del profumo
di defunti che neppure in lontananza vorrebbero scommettere
la verità dei nostri connotati, la giustizia dei nostri documenti,
altri liquori d'ombre e di figure travasando,
non già le nostre, stanche e provvisorie nell'agire,
come una pianta senza nome, di nessuno, senza categoria
plausibile al sorteggio dei suoi temporali,
dove anche i passeri, anche i passeri, e perfino
i passeri, perfino gli uccelletti, orbi nel fumo
della mente e privi di un governo autoritario,
fondano nel volo senza scampo, senza gradi, l'arco
della notte ventura in un osanna, sempre al divario
d'una sorte continua che li scava; e poi sparire.

E adesso quei rondoni, tuttavia, io mi domando,
quando gli autunni cominciano la marcia, come reggimenti
ravvolti nei pastrani sugli asfalti leggeri,
dal San Gottardo, avranno tuttavia
i loro cari defunti disegnati sulle foglie del cielo?

Scapole d'un giovanotto
nell'azzurro solitario,
nel cielo le giornate
son più lente degli uccelli,
orbi nella mente di sale.

Ma poi la rondine ritoma ad infierire:
non muta la sorte delle foglie, tale
che in altro largo serbi un'espèride preclusa
ai censimenti, stanze di pomice, lucenti
ghiaie ebbre, nel suono dei palazzi viola;
che in altro largo serbi un continente
come l'ala d'un aprile a banderuola,
senza mercati alla pianura di Saronno, e piova,
povero, i mantelli, le lenzuola, le mutande,
le formiche e i lampioni agonizzando; e poi sparire.

8. Però tornare

Però tornare a casa soltanto per pietà,
andare e ritornare per civile sollecitudine,
quasi per sola cortesia, e riudire in strada
la giovinezza, o nella mente, che esclama
"dammi una libertà, dammi anche tu
la pace, dammi la pace che non posso"

e dunque ricordi, a ricordare con l'usato
strepito della polvere sui frasconi, odore di barzuola
sulla pelle del taxì, e ricordare
il palpito vano di strade orbe di bambini perché piove,
e il fiato speciale di åascuna donna, quando
torna su in gola, e sempre il palpito

degli anni difficili, e l'opera segreta
nei baleni del polso, ed i veleni nella brezza
dei colori in città

e dunque molto ricordare in questo modo
come tu sei solo, il grande confidente, e una semenza,
una parvenza alitante a titolo d'insensata tenerezza
sui girasoli di celluloide o in mezzo a civiche
sollecitudini, tra un pensiero e l'altro,

uno che cammina per la strada solo, e sente
la giovinezza che gli esclama: "dammi la libertà"
e questa sorte chiusa nel gran lume della sorte,
e "per te, per il tuo corpo, ormai non c'è già più sviluppo

e rispondere: "libertà, spendimi, spreca,
sprecami tutto, libertà, che forse
i nostri defunti di lassù lavorano
guadagnano risparmiano per noi,
i nostri defunti di lassù"

   e credo di ricordare
così le nostre navigazioni nel corso della polvere,
e il lenzuolo che sbatte sopra gli altipiani...

Quaggiù presto finisce, e il vivere
comune naviga a galla, così usato,
e che una vita sopra la bilancia
delle due mani pesa appena appena,
quasi niente, come una mancia onesta
e misurata, e a me mi pare

a volte quella polvere sui fari poco accesi
negli scali o nei pubblici posteggi
alla nebbia dei piazzali, quale inane
e fiera libertà!

  Tra vivi e morti siamo ancora
in molti, qui, e siamo il docile
pane per tutte le moderne fantasie del millesimo,
almeno quelle tante che mirano alla caligine
blu delle nostre quotidiane navigazioni;
e tale gente

ospite di riguardi e d'irruenze, tale gente,
a furia di pensieri di pane di saliva,
chiedendo e spalancando porte e porte
sull'orlo delle ringhiere popolari;

tale gente chiedeva ai calendari le domeniche
e i rossori, domeniche e scalogne, tale gente
chiedeva alle sue tempie

quell'ozio che consuma piano,
e le sue varie conseguenze; e tale gente,
così viva, e c'è chi dice: "la conocchia

"la conocchia con un fil di lana, e con la frusta
usino i governi al giorno d'oggi, e labili e labili
promesse in vario elenco e tono assurdo,
e labili promesse ben nutrite sopra l'orlo
delle ringhiere ruggini, come rapaci
come rapaci cavallette..."

ma un posto sottovoce anche per me in questa magra
generazione degli uomini naturali, o dove possa
carezzare la testa dei pedoni milanesi
in una volta sola, prima che colmi
la sua ringhiera e affolli, un posto qualunque,
un posto a occhio guercio, un posto in croce

e tra le donne: forse conosco poco
quello che giova, il prezzo, la roba, e nutro
con me solo questo braccio e questa bocca

spensieratamente; a titolo d'insensata
tenerezza. Ebbene, anche se non mi tocca,
ebbene, guardami per ora nella polvere
tenera dei capelli: la primavera è lunga
meno di uno sguardo adorabile, e farò pasqua
con una musica americana, farò i mici fatti,

farò: celebrando magari gli uccelli intristiti
che non possono tornare, nemmeno per cortesia,
nemmeno per fedeltà tornare verso il nord, e qualche
povera legislazione che ritarda
da tanto tempo, che trafela.

9. Quarantacinque

Stavano schiacciati sotto il portone come una pigna di sassi,
ma che bisognava ingozzarsi anche il fiato,
ma tenere ben bene l'odio stretto al pomo della gola
e ai fianchi, perché l'assalto all'ultima carovana
era da un momento all'altro, ancora poco, niente: un segnale,
all'altezza della pertica del trolley.

Ha strisciato sopra gli embrici una sirena lunga,
gli abbaini ne sapevano molto più degli altri:
mancava perfino la volontà di stare al mondo.
Ma poi frignava un fiato grigioverde,
da aperture filiture crepe saracinesche e compensati,
quando nel mattino colore d'erba ruta

siamo andati di fuori a contare i primi morti, i cadaveri
borlati giù come birilli, come pere tocche: i cani
spenti tra un marciapiede e quello in faccia, con la schiena
sugli strisci dei battistrada e sopra la pollina
di cavallo, o con il ventre incollato sugli assiti:
un po' di cervello sulla lamiera con i manifesti.

Ma poi frignava un fiato grigioverde
da aperture filiture crepe saracinesche e gelosie:
come una cesta piena di anguille matte
era la nostra simpatica città, e sordo agli spari
il nemico rotolava con la bava nera; cani
spenti sopra un marciapiede o quello di faccia,
i vetri sbarrati, e il solito cervello qua e là a pezzi e bocconi.

Ma un fiato frignava grigioverde, caro Mario,
da aperture filiture crepe saracinesche e dal tombino.
"Però non dalle ganasce inchiodate di quei porchi"
diceva uno della gap a un po' di gente, e "tiratevi via,
non ci tirate fuori più neanche una parola dalla bocca,
né un argomento, né ragione, manco a tirarla col rampino".

La sera che è venuta quella sera sui quadrelli
rossi delle macerie e vari caseggiati, un partigiano
della gap, un tipo evoluto, sanguinario e buono
aveva il braccio insecchito: sentì
ancora tre ariette di sudore sull'addome,
nell'erba dei capezzoli, e sotto il coppino,

e un fil di refe rosso, un filo di sangue dal costato:
la febbre grattava dove c'è la cintura di corame: era
"il grano profumato che verrà dall'URSS, in una volta
sola, una vera manifestazione" pensò, e chiuse gli occhi,
che erano già da spaccare col martello.

10. Il bersagliere svegliato morto

C'è chi sogna in sogno i guadi degli specchi, e chi nel sogno,
e c'è chi mangia in sogno radi
minestroni d'avena o di tritello con i ceci secchi, e mela

gelata:

però non sapevi dire le cose che so dire io, c'è differenza
seria, e facile
forse non ti sembra il dire le cose di valore
sull'argomento di un soldato morto, anche

davanti a un gregge di colonnelli repubblicani
in adunata: eppure parli;

parli, e c'è chi misura il terreno e chi il creato,
chi governa la patria desolata dei fenomeni,
senza o durante il buio: rode

allora umiltà la tua umiltà, e requie
la tua requie:

è larga come il sacco a bottino la tua voglia
paesana di morire in tanti, a mille e mille
e non più mille, in grande abbondanza:
e si sa mai, si sa: la branda
carica, la mattina del 15/6
di giugno, si sa mai: o è scoppiata una bomba
a mano in sogno, e il cuore
non ha tenuto: oppure hai sognato una fame
così viva, così generosa, così
per tutti, da morire tu da solo, uno
per tutti noi che dormivamo vicini alla tua branda,
rattrappiti, come zampe di gallina

nel gelo:

 sveglia, Remo, salta su,
c'è la stufa da inviare, la vita
della vita incomincia dopo la sveglia;
e ricomincia dopo il contrappello, quella tromba; e

"durare" te lo dissi in fondo alla palta in postazione
"e durare è un'usura, un sopruso", le parole
di un intellettuale sono profonde...

ma chi m questi giorni, a queste aree crepa
è un fesso, è un mascalzone, un traditore:

e tu lì smorto come una patta lavata,
e guardavi fiorire di coralli e miche e colla
i fili delle vergini sulle travi del plafone;

la saliva era il sapore, nel cielo del palato,
dell'ultima mattina di tua vita, tremolava
come l'acqua specchiandosi sul cielo degli archi

nei pomeriggi che c'è sole: nessuna femmina
potrà mai scrivere di essere stata tua moglie,
adesso che i tuoi testicoli uno direbbe che sono

il collo del tacchino assassinato fuori del campo:
e penserebbe cosa strana di trovare
il bottoncino madreperla delle mutande

cucito con il refe nero: e tu non puoi continuare
a vedere i tuoi occhi fiorire nel gelo, i tuoi occhi
non vedono più il tuo sguardo scintillare come la

negli oblò dei tendoni le sere verso il tardi:
e l'aria del tuo cranio ora rimonta la rugiada
teutonica, il cranio è un uovo spaccato nottetempo

contro le cripte della sigfrido:

e così solo tu mi sembri la medesima
tua décade, il tuo

stesso nemico senza fine, e poca
lealtà: mentre le facciate lunghe di Milano
sorridono malinconiche chilometri e chilometri

di nebbia al di là delle alpi: il merlo
è volato sul cotogno: e c'è chi sogna
il sogno; e la trasferta?

Senti dalla finestra una voce rovinata:
 E il terzo battaglione
 è il figlio della vacca?
 la truppa è stanca morta
 un mazzo che ti spacca!

11. Però prima del vento

Però, prima del vento,
prima che il vento piova
a lungo andare, a stesa,

i verbi coniugati a malapena, e i gemi-
ti, e imprese, e faccende e càno-
ni, e il bene della vita,

sono i semi riscaldati tra le dita
di una sola mano, di una lingua
sciolta, di una lingua nuova;

e le radici semplici o gemi-
nate, nel nuvolo sommerso
dei parlari, per un secolo

almeno! E siete voi pronti
a non conoscere, e a negare.
a pronunciare detti assurdi,

come così: "Credo quia..."?
"credo che è ora di andar via",
"credo che tutto", e "penso che"?

Però prima che venga
prima che l'ombra della bellezza
annuvoli i moderni continenti,

però prima che venga
tardi, e che qualcuno
bussi alla porta, o il telefono

squilli e ci interrompa,
facciamo tutti insieme qualche cosa:
la speranza non è finita, ma comincia:

quella cosa nel pieno delle cose
ci darà la frase giusta
di riverberi, da usare

come una lama, come una decisione
nel groviglio, nel tumulto:
appena ripensando

a un affarino vegetale che profuma
di pomi e di carrube, o le formiche
in pista sul davanzale della metropo-

li e una faccia nostrana alla finestra,
e le braccia assai lunghe, e di lontano,
solo tra cielo e cielo, il ciel che sfuma,

un strido di folle e di gavette:

pensando così a delle secche
pitture per indigeni o croati, e acqua
per dopo, acqua per sempre;

e un temporale non scabroso, rozzo,
candido e immobile, silenzioso
e senza vento, dell'autentico

colore dell'acqua in fondo al pozzo,
per i figli della legge, bei figlioli
di sentenza varia e panni scarsi.

12. Una natura morta

Spirito buono, pesce, uova,
sassi, serpente, luce
di panorama

  rulla, o nuova
Britannia, rulla, in fondo
in fondo al mare è l'oceano,
meravigliosa unica confusione e basta

 signori colendissimi, miei
ottimi nemici e commensali in giro
al legno tondo:

(i bicchieri rotti rintoccano
sul transatlantico che la tempesta
coglie in pieno naviglio: per navigare
fa d'uopo prudenza e confidenza,
e luce accesa)

(si udivano gli uccelli
gli uccelli più rapaci
risalire da profondi baci,
le uccelle pazze e gioconde
ritornare dalla giovine meta)

non più rapina e iniquità
(battendosi il petto, ma per tosse
repentina, triste sevizia,
il brodo si travasa sopra il moga-
no e la bava sul martino di seta:

per una volta tanto il cenone
vede frutta abbondante,
nel chiodo il revolver che non spara più, e il melone:)

viver con parsimonia
e forte aspetto!

(e l'augurio che io sciupo
a fin di tavola, con fetta
d'anguria in cima alla patena:)

la bocca al culo
e il lupo alla balena.

E fe' suggel: lo spirito
correva in su e in giù
per le giunture e nelle pieghe:
mani pure, niente,
manco a pagarle.

Tutti scappati, svergognati,
sconfusi: nessuno sapeva
spartire all'unisono,
insieme, il dolore,
l'eleganza, il seme, e gli usi:

(pendono i prosciutti freddi
e salati dall'alto della trave
che li impicca tutti)

(cessa la pioggia a valzer
delle dattilo, cessa la detta
disperata: "guarda se ci son su le stelle,
che andiamo a numerarle,
a fare patti.")

e mi domando io, e cosa
sui piatti spunterà, o nel tegame?
nelle scodelle? due occhi
rossi, o gli spinaci, o pavoni,
o sassi o fame? un pasto
omerico, o pranzo d'orsi?

"Non più rapina e iniquità"
sgrana una voce "ma le tonnellate
e tonnellate delle provvigioni:

ma bande e salmerie e aromi,
e internazionalizzare i boschi
di betulle per rifare i troni,

signori colendissimi, mii ottimi
nemici e commensali! no, non più
rapina e iniquità: la morte

ci fa grande pena e grande
soggezione: vivere
con parsimonia e con un forte aspetto:

noi promettiamo mari e monti,
ogni merce raffinata è un gioco
plastico evoluto sentimentale:

noi promettiamo i mari
e non i monti: noi faremo
un monastero per leoni. "

Sbattete pure la bocca,
fate rumore e schiocca
sul cielo del palato,

sbattete pure le palpe-
bre: ma chi mangia la foglia
non ne vuoi sapere, non ne ha voglia:

c'è un abisso, c'è
tra un dente e l'altro
dente, c'è un secolo
di cose, c'è un'alpe.

13. Gli argomenti

A der la baia, o condannare
in aperto l'indizio, all'aperto,
le piante, segate a filo

di catrame, la forza malinconica
del marciapiede inaffiato,
il disonore e il diritto del portello

dove stride la città
con cose da fare, e con vago
bagliore di rame

che è il primo serenare
e l'ultimo navigare
nel quintino trepilante

di squinzano col frego della tacca.

Tutte le tribù cadute
al di là della spalletta, dentro il fiume
per alzare il livello dell'acqua,

per saggiarne la fisica
profondità, per naufragare,
per patire e maturare,

alzando le mani,
sforzando la fronte,
fregandosi la cispa,

amor di pietra amore
di pietra antelucana
e di facciate, stralunghe,

con la vita sana,
con la vista vispa,
il primo serenare

e l'ultimo navigare,
quaggiù, lassù, le nuvole
docili, mansuete, come mosche,
italiarde, tosche, lombane..

ardi abbastanza, così,
vena povera, consigliata
nella vera amarezza?

14. A una mezz'alba

A una mezz'alba trista e fina, esposti a nord, sopra la porta
sciacqueremo i denti, si ameranno nel nervo dei cardini
su e giù per poggi, in tutte le fattorie ereditarie
gli usci spavaldi, e le latrine: con la voce corta
mangeremo fettine di vitella congelata. O il legno
con la carie, e strilli pullulanti dai gusci.

Caro il mio caro amico, padrone di un segno e servo
dei foraggi, con gli spilli stagionati puoi scoppiare
l'uva rigonfia e la malora, su e giù per i paraggi
che consumano lo zucchero nell'aria
dei grilli: l'alba mangia l'alba a quest'aria;
tutta in silenzio, e dopo un'ora la furia delle mucche.

Ma cosa è successo, cosa è successo dei soldati, cosa strana,
che lussuria! Racimoliamo i lampi del volframio, le
gavette: l'esercito è sparito in questo cielo senza volta
sopra i camion, muniti di bandiera
falsa, la bandiera di tutti: i nostri più prossimi parenti
sono la stolta, stolta

patria oramai e l'aria densa, queste faccende occulte:
pignatte che levano il bollore in tutta Italia e l'umido
che semina un ovale color alito, un flauto basso,
e penso a Montale che fa il verso alla ghiandaia,
alla bellezza oscura, al sasso irato, con un strido
ma forse troppo corneo, o più puro lamento.

15. Pareva una

Pareva una di quelle gran buonore quando preme
altrove solitaria linda semirosa
la fragola, lasciando intravedere il seme
e intenerire una tinta senza corpo o cosa

e pochissimo fiato e ardire nullo

e andava soffiando l'odore della luna
sempre meno e gli aranci della fioritura
man mano si spegnevan nella cruna
della nottata stretta e ferma e scura

come una stanza d'albergo ancora da rifare,

dove marmorea confidenza, tutta nuova
era e gelata nelle braccia del cielo, poi gli aranci
morendo sventavano dalle finestre odorate la piova
che indugiava e indugiava sui celesti ganci,

e pareva uno smeriglio a grani: il vento

bussa dentro il cielo curvo, poi si efiata,
ed è l'umanità quel tragi-
co sgomento e la efiducia trasandata
del militare che non vede posta, né re magi

dal fosco oriente a menar qui la pace ed un congedo:

Sirio invisibile bruiva più di tutte, e febbre
inoculava nel corpo dell'equino che nitriva
rimasto solo sulle strade ebbre
a fare notte: un mare sembrava la saliva.

16. Dichiarazioni del soldato morto

La guerra è là sull'orlo di finire,
e fui soldato, pigro di patria,
maschio, mite di sentimenti,
mi sono comportato poco, anzi niente,
una minuta recluta da niente, una frasca,

minuta recluta esclusa da pietà, se tu consideri
pietà, odio, e patria non essere in natura:

però nel luglio liquido seguivo
col corpo a rondinella tesa
che rada fosco laminato di smeraldo
e aranclo,

un lunghissimo esercito di folli leghe
marcianti su un settore di chilometri scarsi;

ero impiegato straripante di solitudine
nel giuoco indiavolato delle furerie,
parapiglia di alluminio a ogni rancio;

e già per segreltissimo scrutinio lo sapevo,
chi non cura la canna, e non la tira
a pomice, interamente a specchio,
e chi non cura la bandiera sensitiva
nel fodero di seta;

i plotoni a fiumana dentro quattro mura,
il reggimento dentro un guscio d'uovo,
o dentro i secchi;

colonne di registri, bagagli di intendenze,
e le camorre al ciclostilo, e le matricole
di zinco gelato tintinnando

sull'ossa dello sterno, e chi non sfrutta
ogni fil d'erba sul terreno frale, chi non riesce
a rompersi uno stinco nel cadere,
o l'osso del collo, che soldato sei?

Mi mettevo in un cantone della stanza di picchetto,
tra la muffa, a scuro, a leggere il giornale
all'incontrario, sempre con una fretta irragionevole.

"Uomo da niente, recluta senza
seme e numero" gridavo al filo del telefono
da campo, "così come sono

perdetemi di forza, ma salvatemi,
consideratemi nel nerbo dei pochi,
un numero segreto, senza scampo,
non cresciuto, ma salvatemi
le penne, e io ci sto! Anch'io

ho lavato il corredo,
il grasso della gavetta,
come tutti, in fondo alla vasca...

E voglio un esercito gentile, un'arma
sana, per tagliar fuori il Po
con una sega in tanti pezzi, colonnello!
quanti sarebbero i coperti sulla mensa
ufficiali, o nelle stalle, qualche istante
prima della battaglia che non scocca!

Piove. Piove senza rimedio. Storna,
ah, storna da me, gentile colonnello,
questi pensieri coraggiosi...

e in ogni crepa d'arido un fringuello
in gabbia, con foglie di lattuga
a volontà perché si nutra prima della fuga

e in ogni lista di sabbia una matricola
fosforescente di fucile, un mortaio
da I4I che spari sotto l'acqua

e spari lune; un bersagliere
con di molta scabbia.

Siamo nel pieno della nostra cosa,
siamo nel giusto della nostra usanza,
siamo in guerra, in pianto, nell'errore,

ho ancora carità abbastanza che ci vuole
per ripensarmi uomo, per sentirmi in posa
dipinto sull'attenti e gli occhi all'infinito,
per chiamarmi vinto. Vinto."

Ciò detto confermato e sottoscritto per esteso,
credevo allora d'essere sincero,
perfetto, esaurito, e finalmente
fermo in un attenti che non veda
più terreni accidentati o panorami o aria

grigia, o il polso ancora morbido, commisto
alla figura dritta come un legno
vivente di una sola tarma,
una ramazza smessa per disuso,

e allora: "Signor colonnello
dei miei stivali, io vorrei
permesso per andare libero alla caccia
di lepri, di lumache, di gazzelle,
d'api, con la faccia, qui nei dintorni,
tra gli abeti che seminano il bello,
l'umido e la penombra...

Io vorrei darmi in braccia, a una grande primavera
teutonica, a pie' dei lecci: o lupo
di favola, o lupo di convento
o di ringhiera o di trincea, orinare
controvento nel dirupo, questa è la vera,
questa è la sola naia; poi morire
con la morte in cuore e con il cuore in gola."

17. Buonasera

In fondo a una giornata corrosa per i chiasmi
e tormentata per i crepacuori, per puntigli vani,
per i cari fantasmi dei pani, dei soldi, della faccia,
e per gli allarmi falsi, e per i primi
numeri che certo appariranno
al di là degli ultimi, per tutto
che ci tuffa giorno e giorno, da mattina
a sera in lei, la meraviglia, il lotto, la caccia,

si ricordano degli stradoni, un po' perduti
in mezzo alla giovane rugiada,
i miei stivali impallati sulla terra terrena,
ove un telefono osi dalla patria superna
di tenermi a bada, e darmi lena; e mi riporti
in una cadenza milanese o madrilena, una rada
"buonasera", l'onda alterna, l'illimite
sgomento, gli orgogli dell'affetto e il sentimento
dei cugini vivi: con loro, prima di prender sonno,
scommettere una per una le faccende trasognate
dei pani dei soldi della faccia: la parentela
sola è il lavoro di tutte le giornate, in tutto pari
all'invisibile salario: e le generazioni, casa per casa...

Ma ormai son grande, e quasi un uomo, e vario: e qui
pensa di scnvere un romanzo un po' lontano,
pensa a un temporale che cadesse sugli omeri
pianino o su robinie nude di fianco agli stradoni,
e poi pulsava il tuono in gola alle livide serate
come lo squarcio in cui ognuno sogna di avere un sonno tremendo
con insalata cruda e nebbia e le robinie
e tutto. Allora probabilmente tu sospetti che la terra
è un albergo in disordine che ci aspetti noi
e clienti di riguardo per avventura ritornati
adagio indietro, in punta di piedi.

18. Occasione

Qualcuno ardeva di sapere
se, al di là delle ante serrate,
la luna perenne nel gelo
illividisse, e al di là delle ante
certo che il vento si comportava
piuttosto male tra i rami
di neve, e al di là delle ante
la neve era alta quanti chilometri.

Sulla tavola, i prosciutti
accidiosi pendevano dalle travi,
e solo Isai, il cristallino
Isai, solingo tra tutti,
questo fosco parente
delle nuvole filistine,
dei profetici rutti,
era in relazione finanziaria
con la famiglia del Re di Grecia
e qualche capriolo. Ah,

questi ebrei, assicurati
contro i rischi dei bagagli,
contro l'odore delle ferrovie,
contro l'odore degli agli,
contro altro! La torta
arrossava sul tavolo,
sapeva di saccarina e di flauti,
sapeva di fiele e di candele,
ma nessuno sapeva sapere
se, al di là delle ante serrate,
la luna raccolta nel gelo,
illividisse. "Come
una sera a Granada dopo cena"
io cominciai: ma soltanto
il vecchio Isai nel suo plaid
solo il vecchio possedeva
deserte parentele
anche nella Spagna illuminata,
e fin nel golfo di Botnia,
e nei regni molteplici.

Allora desiderai oscuramente
fino all'ugola bagnata
una magra cameriera
dal grembiule di satino,
e mentre muti, al crepuscolo,
vagavano nella cornea
della vergine cameriera
gli equatori
o i geli delle foreste adiacenti,
e la bianca balena nelle fiamme
bruciava nel camino,
intento al crepuscolo le dissi,
una scapola sullo spigolo
dell'armadio nella cucina:

"Giardini verdi, ombrosi
recessi, e camporelle
con gli aereoplani sopra!
Ma che maniera di vestire è questa,
d'avvolgere in funesta
caligine di satino
la sua pelle bianca, signorina!
Questa sera a Granada dopo cena,
passa da me, vieni a trovarmi, è tanto
semplice! Dormirà
la padrona innocente
senza dentiera, ed Isai, il candido
vecchio, l'illustre giudeo,
sarà nel bagno, forse."

Isai avrebbe potuto comprare,
volendo, celebri pitture
al di là e al di qua di parecchi
equatori, ma la luna no,
e non la luna, non ella
al di qua e al di là delle ante
o per le valli vagante lattea
dopo le inondazioni
mirabili, o il disgelo;
qui non resta più la luna
al di qua al di là delle ante,

ma il maligno consenso
della magra cameriera
vergine fino all'ugola,
e la sua testa gelata
ch'è sparita, e che concede
una semplice angoscia
solitaria al mio colore,
come la sete dei caprioli che al sugo
del torrente già calavano,
e il rigurgito dell'ostriche
mangiate a mezzogiorno:
ostriche di febbre, e il gelo
allungava il velo delle montagne,
e i pensieri dell'equatore,
di Capo Horn, della balena
bianca nel soave fuoco:
verso le sei della sera,
senza dir niente a nessuno,
l'altra vergine padronale,
dai capelli color del risotto,
verso le sei della sera
è fuggita nella tormenta,
a sfogare il suo carattere
esasperato perché la vita a
ccade ogni giomo,
ogni giomo si fa più sotto,
senza sosta o un sorso di pietà.

"Mettere quelle guscie
secche asciugate dal vento
corrucciato e dal limone
sopra la nostra ferita
che odora di vino brulé."

La magra cameriera,
qualche passo avveduto,
venne. Tutti i discorsi,
e le sue mani nervose,
e le mie mani sopra le sue
stringendo il fusto ardente,
e promesse e scommesse.
Ma penso alle mie parole
estreme, guardando al di là delle ante
la vergine bionda ancora fuggire
via nella tormenta.
"Quante volte, quante volte,
hai già dovuto dirmi,
in faccia a tutti, a tavola,
che c'è troppo poco zucchero
qui in giro, da queste parti,
per poter preparare
tutti i giorni preparare
ai clienti di riguardo
tutte le sere il vin brulé?"

19. La ragazza di Sirtori

Per ballare la carmagnola,
per saltare la furlanetta
(tenere vertebre, piccoli cuori,
menti conserte, che crudeltà
sotto le vesti amor prepara)
i tuoi denti son di stagnola
la tua vestina s'è fatta stretta.

Con una luna così rotonda,
a sottana così leggera,
in noi casca una nebbia più vera
di me, una cosa di me più profonda.

Della legge i figli eravamo,
della legge i figli, per caso
(piccole vertebre, teneri cuori,
cosce sottili, felicità,
mani di febbre amore impara)
quando il cielo da notti è invaso
è la stagione che scalda in mano.

Con una luna lassù tutta ebbra
tu sai che tonfo di dolce,
dava in quell'attimo tra bacio e labbra:
c'era la spola del sangue, ronfava.

Un bagordo, famoso, d'acque
sul fondale del tuo talento
(piccole vertebre, piccoli cuori,
mani conserte, di falpalà
mani di febbre amor ripara)
con i passeri perduti al vento,
si fè sentire, bruciava, tacque.

Giornate molli come saliva
nel tuo corpo crescono a trama
(dolci vertebre, piccoli cuori,
spume devote, per carità
non ci ridate la febbre avara)
come sfera che estrosa avviva
a raggiera baleni di lama.

E sui tuoi passi di cenere, ora
udiremo stremire, a volte
dentro labili spire, sciolte
come nel nembo, il grembo di una venere.

20. Sommario della rivista "Vanità"

Io dico: primo, emigrare
emigrare

Lavorare all'asciutto
per i carpentieri, per il povero
magutto

E il cuore di dietro alle tendine,
bel racconto, a puntate, di

virtù come le altre: i
crumiri

Magri popoli: molte
mosche sembrano aver sentore
della pelle umana: l'idillio
è spezzato. Nell'idillio molti
hanno le unghie bruciate.

C'era una gamba senza gamba,
o cittadini: non può stare in piedi!
indovinello a premio.

Comunisti e liberali, alle urne,
alle boscaglie!

Note di redazione: del pessimo
gusto dei cittadini nella scelta
dei propri governi. Ascetiche
viltà, licenze fortunose.

Mordersi il coccige. Risposta
al duce. Tu morderai.

Terra d'avorio con le strade nere,
liquide, pastose, ho visto.

I calamai del Cellini, i foschi
intrighi di Torquato Tasso.

Si meritan la morte e forse peggio.

21. Natus de muliere, brevi vivens

L'uomo in natura senza dubbio
fu inventato come un grido
a bruciapelo: odio,

ira, indumenti; propagato
nella apparenza, o febbre
universale: nato a sentire

legge e fede, nato di donna
per mangiar la foglia, per contarla
lunga, per contarla corta,

manda giù quanto più può
saliva; nato di donna
per mangiar la foglia, parla e vuole

maniere d'ogni sorta,
secco il corame delle suole,
fa digrignare i denti; agisce

azioni chimiche, cose
che son lecite o non sono, a voglia,
oneste che fan gran figura, o diso-

nore: commerciali, generose,
che fregano il prossimo, e consumano
i desideri e la freschezza al viso;

che non arrivano a niente, fredde
che mettono i brividi; servili
che umiliano serviti e servitori;

pubbliche, che son strapazzi
mica tanto lievi, che molta
opera chiedono, e non cuore,

finalmente!; nato di donna,
sacramenta e fa i suoi fatti, scaltro
o no, igienici o immortali; s'arrangia,

legge nei cuori, negli occhi,
nelle pietre, nei giomali,
e, appena può, muore; mangia,

costruisce sentimentali agglomerati
sugli elenchi telefonici, sbatte
quadrelli uno in pigna all'altro,

i quadrelli rossi, che mangiano
calcina, difendono gli arti
e le giunture dai colpi d'aria,

e va bene
ma non possono parlare
come né i fiori, come né i denti:

fare l'uomo non è che una
maniera come un'altra
per scamparla bella:

uomo, nessuno gli dà mai ragione,
e né la ragione e né il torto,
e né la legge e né la fede;

e allora gareggia: azioni
che non può sapere né volere,
misura, vende, crede, tribola

e non ottiene: sarà cibo
al morbus novus, esca
ai batteri più scuri: perché

perché la salma è stretta; l'aria tira
forte, e via con essa l'alma
sfugge, temeraria, vile,

forte presa dal piacere
nazionale: e forse è

che forse qui bisogna cambiar aria
tutti quanti: è un consiglio,
un argomento decisivo.

22. Refe d'una vestaglia

Lume della lume, di lume forestiera
dentro semplice aria, per far prima
del tempo un aldilà, lume da pietra, gote vive
strofinano da presso la tua brina
convulsa: accende una preghiera
il nostalgico esvoto delle ogive.

Sospirata apparizione delle vie
vergini, le più rasenti e adorne; fatti rari,
nel fruscìo degli asfalti sopra cui, dèste
al nubilo velo del suo uscio, dei suoi fari,
non furono mai poche le malinconie,
mai stanche, adesso pungerebbero le mani: queste

sul gelo delle panche, colme d'un sonno insano,
colma natura senza veri mali.
E pur sempre chi guardano, dal chiodo,
le filze, i fichi infarinati, là a Saronno? Lungo i pali
salgano, pernottando, insieme, non in vano,
alle ringhiere, ai fili d'alta tensione, i fiumi delle lodole,

della malinconia, spirto avventato,
senza seme; refe d'una vestaglia
negra sopra le ortiche in parasceve!

Ma qui rimani, in fondo, per frondar la neve, la paglia
e la pollina; poi, fuggire il dazio: lo Stato
non casca o muta per contrabbando così lieve.

23. E lascia che vada

Mio padre, muratore
ardente, pratico, pulito,
tiene un braccio indurito
come una leva, stanco
oramai, leggero; ha le vene
grosse, dove transitano
le forze rosse e i dispiaceri, il bene
unico che conosce.

E musico estemporaneo
alla pergola degli Scotti,
alle nozze dei suoi fratelli
magri e crespi come i pioppi.

Dunque sei tu, con quella guancia
se ancora la tua casa,
casa è la nostra oramai,
e sospesa in mezzo al secolo
ventesimo, tra il popolo
d'oro? la tua casa e la nostra
s'è spanta nella nebbia.

E la nebbia è come quando
tu le palpebre socchiudi
alla serena, e sudi
per sensibile ripensando
a una piova di traverso
sul largo di Milano: e una torma
di passeri nell'orma
pura delle rughe, lume
ove una carreggia è un fiume
e un bosco le lattughe
alla morbida misura
della nostra nostalgia
conforme a sottil costume.

Là ho trovato pel tuo sangue
celtico una luce varia,
quella di brina che lamina
le tettoie cariche d'aria
nelle domeniche quando l'anima
rimane un po' più in là,
come una primavera che langue.

Con la bocca piena di sangue
e un lampo nelle caviglie
ti scongiuravo: "Soffiami
il naso, non posso, se no
sono fottuto per sempre, sono
vissuto, ma vissuto adagio,
fantasia, malanno ed offesa!"

La storia come lunga
sarebbe a recitare;
non ho fiato, e la saliva
non ci basta a perorare
questa causa già perduta.

Fu come in sogno, ed ogni
che torna non ci trova
più, neanche la piova,
neanche il popolo dei passeri
oltre dove seguiremo
a chiamarci ancora dopo,
anche dopo, nella brina
fresca e ardita del cognome.

Sì, la storia, la storia,
la storia s'oscura:
quel lacero nel lobo?
la mamma dove tiene le boccole
che rilucevano al di là del paese?

Io ti narrerei del cuore
a caso? Ed il cuore
il cuore dove? Chiamami,
se per caso non è tutto

quel fruscìo delle falde,
quando i carabinieri
con le mani larghe e calde
nel diluculo sulle melighe,
furtiva colpa della notte,
furtiva spiga nel tuo cuore,
ti rapiscono un fratello
magro e crespo come un pioppo,
troppo piano!

Sfoltisce la casa nei giorni, e dirada;
foscamente in seno piscia
così un passero di più
che da lunga piova torni e
posi agli orli della roggia
dove tu t'insogni folti
i contratti sindacali
e la tua rosa dei venti liscia.

Addio, ma cercala, a più non posso,
come cerchi l'unità
coniugale, ch'è si ligia
al tesoro delle vene
grosse, erte. Ma cercala
ancora, perché nel tuo corpo
nostri passi hanno creato
l'uomo fisico: un garofano rosso.

Solerte fronte, come l'onda
del ginocchio silenzioso,
tutto mosso; tonda e saporita!
là ti lambisce
con memorie la brina.

Quella è una fina
Lombardia, dentro e fuori
del tuo petto; resta rada
e visibile la schietta
opera umana. Quindi lascia

e lascia che vada
come viene: i tempi
non mutano, non mutan
come il vento, ma più piano
ancora, perché nel tuo corpo
nostri passi hanno creato l'uomo
fisico: un garofano sano.

E musico estemporaneo
alla pergola degli Scotti,
alle nozze dei suoi fratelli
mio padre, murator
e ardente, pratico, pulito,
e sullo stomaco un dito di pelo.

Ma ogni notte ogni giorno
ogni nuvola, perdiamo
di vista, noi due così discosti,
interamente il medesimo cielo.

Sai tu se l'anima
si unisce, così giovane,
così sola? e si salva? Io
tuo figlio, tuo ramo,

immagino, ed immagino
dalle nostre parti la brina
e il latte e l'aria di mattina
sia una cantata matta
ma un'armonia: un danno!

Ebbene. Ebbene tu conosci
al giorno d'oggi, proletario
nel lume della tuta,
albe utili e pure, di tempo
in tempo. Minuta
è l'ora che ti duole
e dolce spira in tutto
quel che arrivo a immaginare.

Ma mi piace se il tuo universo
non è mai, segretamente,
sottonebbia, un po' diverso,
almeno, da quello che è.

Hai sempre una cosa
da ridere, in tasca,
un sacro profitto, una frasca
del risparmio. Giocheremo
quindi il giuoco della vita
con la tua eredità?

Qualche notte io gridavo:
"Tu, tu, ..."
  Milano è un cuore
mortale nei fianchi
della nebbia, una ferita.

Oh, non credi che risuoni,
in terremoto o in giubilo
il corno di Roncisvalle,
e come una bandiera,
di là dalla tua moto,
di là dalla frontiera?

Così crederò fermamente,
mio padre, muratore,
che tra la notte e il nubilo
fiato delle castagne, fischi
la tua moto monotona
o veloce come il polso
in costa alle montagne,
ed una lancia arrischi
il clakson nei galoppi
delle melighe e dei pioppi.


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