Il
portatore di fuoco
Abbiamo nel cuore
Canzone d'estate
Ultimi versi
Il
portatore di fuoco
nudo
smagrito le ossa forti
corre
gli altipiani e si nasconde
tra
fronde, dove scintilla quel lume,
e
le foglie ne primeggiano l’ombra;
inseguito
assomiglia l’inseguitore a
nulla,
notte non offre specchio,
il
suo volto, da nulla apparso, là
dove
biforcano a sella i rami
d’una
sacra querce, è sottile
e
non ha occhi come stelle
bocca
che meravigli un sorriso,
e
spavento e meraviglia
al
fulmine che breccia le stelle –
l’ampio
gesto che atteggia lontano
il
braccio a ricevere l’ampio
lontano
frastuono di nebbie
su
chiarità d’acque, nelle acque
quel
gesto non specchia
altrimenti
che schegge scagliate
da
dita che han l’unghie
lambite
dal filo d’un chiaro lucore;
sull’acqua
chetata a disappunto
le
bianche spille del fuoco
rapiscono
un crepito, ramifica
il
loro disegno sottili cristalli,
le
valli s’accolgono al varco
d’un
lago, le cime spezzate
dei
monti d’intorno, alle rive
circolari
accrescono creste
poi
cespi rovéti e l’intera
foresta
–
avvertono
i passi, e il profumo
di
siepe avvicina quel fiato,
una
cagna e i miti ospiti
dei
nidi, trema il manto
della
gazzella, lascia cadere uno spigo;
non
corre il portatore di fuoco
s’è
riconosciuto in quel luogo
e
riposa il dolore ove nasconderlo
è
stolto;
nel
vuoto più sotto una rupe
s’apre
la chiara lontananza
del
mare, e su quelle altre rive
gli
abitanti –
abitarono
dove non s’accorse
divieto,
il più gramo, o fu povero
d’offese
il vento lavico, e abitarono
propria
riconoscenza dove poi
abiterà
l'inganno, abiteranno
il
borgo amico e abiteranno
il
borgo pavido, come abitarono
il
crinale di schisti ove nascondersi,
abiteranno
un tempo là
dove
abitarono non visti,
non
visti e infine fatti arguti
menzogneri
d’un limite
malinconici
gli abitanti –
l’alba
respira, ammirando, le nebbie
s’animano,
adesso corre
lasciando
l’orma brillare
il
portatore di fuoco, solitario
animale,
animano le sue peste
mille
abbagli, iscrizioni egli
incontra
sulle vie, nei sentieri
le
sue orme una brina, scintille
di
ghiaccio, sfavilla –
adesso
la preda ha preso vigore
attraverso
deserti pochi fiori
piccole
corolle rosa dell’erica
sono
le faville, il portatore
di
fuoco demone alato erede
d’ogni
dono, regnante ignoto
s’è
fermato;
ascolta
nelle mani lo strepito
le
prime parole avvezze
al
cieco dimorare,
e sulla terta gocciano
da quelle mani i petali
raccolti, le rosee scintille,
e quella terra ha nuova
tetra vitalità,
dimenticato è il fuoco –
sotto
una roccia a tetto, e fuori
è
nuvolo, lampeggia, un fuoco,
un
nido raccolto splende,
il
soffio che entra nel coperto
spuma
le faville, un vortice
le
brilla contro l’urlo aperto,
il
dispiegato paese di bufera –
Abbiamo
nel cuore
Abbiamo nel cuore un
solitario
amore,
nostra vita infinita,
e negli
occhi il cielo per nostro vario
cammino. Le
spiagge i cieli, la riva
su cui sassi
e rovi e il solitario
equisèto,
e colli erbosi grassi
rioni,
città dispiegate come
belle
bandiere, e nude prigioni.
Questa
è la nostra vita. Questi nostri
volti
vagabondi come musi
di cani ci
somigliano. Il vento
il sole le
corolle rosse e blu,
i sogni mai
sognati i nostri sogni.
Questa
è la nostra vita e nulla più.
Canzone
d'estate
I
m’appare
sempre risolto
ogni
giorno d’estate
ogni
moto dell’aria ogni sogno
posa
più affranto che lacero
io
soffro il dolore di vivere
la
vita già sognata
adesso
che cieche ammende ognuno sa
scegliere
a cesello, e anch’io,
nel
fregio svilito d’un gioiello
nel
vuoto tempo che ripete specchi
ansia
sofferta di morire
l’inanimato
mestiere
provo,
lo strido che mi possa
avvincere,
nei volti nelle cure
trovo
di tutti la vecchiezza
dimentica,
il
deserto smemorato ricordo
dove
bianchi impossibili abbagli
dove
tremano rari tenaci
fuscelli
consunti, bruciate
cortecce
arrossano,
e
sanno di brezze saline
i
labbri umidi,
più
lontano è chi sprezza
sul
limite d’uno stagno falso
prima
di colli piani e calmi
l’ilare
libertà dell’ebbro.
II
vivono
e il mio sogno è destarli fuoco
m’avvampa
e inchino a quell’oro tocca
più
in alto il cielo di fuoco il mio fuoco
e
poi lontano in un segno che scocca
chiare
ali dal nuvolo son nate
s’avvertono
i ritorni delle fiere
bestie
e uomini s’incontrano nati
in
un simile vuoto di chimere
oggi
al fuoco s’è raccolta una gente
avvilita
nel mondo ha occhi attenti
avvampano
quegli occhi e membra afflitte
cedono
alla venia del sonno – mette
chiedere
s’è desto il mondo davanti
a
quanto ha roso il ferro della notte?
Ultimi
versi
Ultimi
versi
di
lume bianco ora m’assembra lieta
e
povera e lieve luce questa mia
terra
dei morti dove all’alzata ormai
dei
giorni io nascondo, m’ha aperta
la
finestra non so quale dei venti
m’ha
veduto di là forse uno strambo
bimbo
morto, io dormo in un presepe
di
fango e di lucerne, a quest’alba
nel
gelo una lista d’ombra mi schiara
per
mezzo e in me dimora, schiva face
a
quegli occhi nel viso fa cenno
cenere
di bistro, l’avviva, chiara
è
la vita e tutta viva a questo mio
mare
di mezzo in me vero e dolente,
di
che l’insegna in ciclo buio oscura.
.
da
che t’affanni in levitare eloquio
a
strambo stile dei versi e d’abbandono
hai
limite e sicura abilità
di
dire in eguale virtù e vuoto,
so
che ti par selvatica una tale
miseria
di questione e vanti
libertà
dell’occhio e della preda
che
verità fosse e senza idea.
.
passione
a ricercare avida meta,
più
che in te certa attenzione è in quella,
a
che cristallo di fragile corso
di
rugiada giù dal ramo si figuri
e
intenda e da sé rappresentato
l’ordine
del mondo in suo disordine.
.
del
tempo mio sogno d’universo
che
si dispone a compiere è l’eguale.
in
sua misura e per sua misura
ogni
cosa ch’è in sé non sa misura
e
cosa, ma per intanto vanità
e
verità sono quelle ammirate
che
tutto a questo perdifiato colto
stolto
mi fan sembrare. non quelle
alle
finestre tue le belle insegne,
non
è che sogno nudo silenzioso,
io
m’avvedo alla morte, è là la morte.
.
cosa
immortal minima dice lode.
misura
non è per ridere di Leopardi.
io
non ho tempo, e non ho voglia all’arte.
.
l’angiole
che son matte non son dèi,
volano
alte in cielo. Quando molte
al
suo trogolo le mele mézze dei
porci
sembrano verdazzurre frotte
di
nubi in cielo e son corolle false
d’arcigno
odore in un brago fetente,
in
vespro arde ferrigna l’aria, terse
celesti
l’iridi ammalate tonde
del
verro versano nella pietra e
nel
ciclo.
Esclamativo
il vano moto
sgraziato
che assomma, a far dello
universo
l’epifonematico
velo.
Io segno nero
su
bianco.
.
-
tanto può
e
vale
gentilezza
italiana!
.
la
notte ha reso le pareti bianche
della
mia stanza e le parole bianche,
i
petali della rosa sfioriti
su
le pagine aperte dei Riti
di
Castità, io non so più mentire,
tra
le mie morte cose vivere,
.
seguitar
me m’abbandono, canto
e
di mai veri ricordi l’impazzire
del
mondo e le sue rime serrate, io,
sono
quasi cieco attorno a me la notte,
vivo
già morto e affanno a cose cieche
che
una cieca pencolante illumina,
.
la
luna dal lucernaio azzurra,
il
letto bianco.
.
cose
davvero vaste e silenziose
intorno,
poi tanta castità del male,
ancora
la pietà perdonami
un’ultima
volta, un’ultima volta
ammaestra
d’una soltanto mia pace
la
tenebrosa maraviglia stolta
cui
mi piace cennare e mi conduce
per
mano or questa fida voluttà
al
mio danno al mio silenzio all’ironia
della
sorte ineluttabile fato.
ma
più per questo buio che io so
m’annego,
per vedere da vitrea
superficie
il funebre raccatto,
e poi
davvero infinita follia.
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