Roma
mi
guarda col suo occhio strabico,
da un insieme
di distanze incalcolabili, di labili
percezioni,
di cancellazioni, di nulla: col suo occhio
strabico
stracotto ch’è una rosa di stoffa, gialla,
sporca
di rossetto, e ora simula una stolta margherita
dello stesso
colore tubercolotico, e si lascia
stringere
nella notte che cresce tra cielo e cristallo
-superficiale
vanità- da un nastro assai poco astrale
di carta
plastificata blu, dentro un vasetto Deruta.
Roma fa
prove di sopravvivenza nella notte, con funesto
scialo
di lampi, donne svampite, squagli
di
cioccolata,
mutismi da tagliagole. Affonda
nell’onda
del suo ombelico di pietra dolce, è un manichino
moltiplicato
che mi guarda col suo occhio strabico, cadendo
in una
pozzanghera con tutta la sua flotta
sbandata
che passa da un ritardo all’altro senza mai
approdare
a un castello giusto.
Roma mi
fissa in francese, e non mi vede, col suo grande
visage
tumefatto: e si sogna in un caffè storicamente
determinato,
in un pezzo di Rinascimento postmoderno, indossando
scarpe
di coccodrillo miliardarie e reliquie
che le
permettono più di un pentimento, di una
lacrima
elettronica, un singhiozzo: mentre
con qualche
chilo di goffaggine più del necessario
mi muovo,
vecchio ippopotamo cieco, e mi congedo
da quasi
tutto. Chapeau.