Per un
autunno che scivola
totalmente
sbiadito
o indulge
al gioco delle mutazioni,
dai luoghi
nulli
dove risveglia
i ricordi
semplicemente
l’ultima parola,
che si
balbetta al fondo di vertigini ,
alle attese
che facevan battere il cuore,
dalla cenere
dei colori ancorati
alle socchiuse
lenzuola,
errabondo
di immagini
sul fondo
delle assenze,
al conosciuto
profumo dell’ascolto,
nella bolgia
degli occhi
e le cornici
della tua sequenza,
lungo mura
diverse
traccio
ancora i miei giorni.
Cerco pazientemente
la ragione
per non
morire ancora.
E lavacri,
e ronzii,
e curve
attanaglio
ai profili incrinati dallo sguardo,
svuotando
le caviglie ripeto ancora gli spazi
per lacerare
i viali,
i capitelli
, le gesta , l’esplosione di arsure,
mentre
dall’alto dei contorni
precipita
la luna.
Qualcuno
gioca invece a nascondigli
per
l’imbarazzo
di stoviglie,
dai fianchi
disfatti
e la memoria del pugno
ed è
tutto nelle incerte minuzie,
il salto
e il passo,
che ripeto
a tastoni fra i motti e rimproveri
delle tue
finzioni.
Cedo a
quel piccolo schermo di violenze,
di soprusi,
di donne
affascinanti con il culo
segnato
dal Martini,
di agenti
alla ricerca del ninfomane,
di un posto
al sole,
strascicato
nell’eco ed in volute
che mi
riporto dentro.
Era il luogo
che fuggivo da tempo,
ed era
il tempo che mi abbatteva per sagome
in mille
dissonanze,
ed era
il tempo che non offriva retaggi,
non riusciva
a legare le forme della tua materia,
e ripiegavi
nei sogni sempre più sgomenti.
Un sordo
giorno ormai scivola
ai confini
dell’orecchio,
dico della
mia solitudine
dentro
la poesia,
e fingo
l’ironia dei silenzi,
perché
scoppia la realtà,
mentre
io ti uccido nei risvolti dei quaderni.
Tra la fronte
e le corde del cuore,
nel rauco
piglio dell’innocenza,
il conforto
è ben poco.
Troppo spesso
ho giocato variazioni
acuminando
le immagini e il delirio,
troppe
volte ho staccato il sorriso
nelle
indulgenze
di fanciullo,
al tuo
abbandono
mescolando
il diaframma
alle movenze
della gonna,
alla pelle
che affonda nelle arterie
nel gioco
di stanchezze,
furtivamente
divorando le labbra
per non
dire che
t’amo.
Perdere
la memoria,
cogliere
il freddo sballando nel miraggio,
e costringere
un urlo
a scivolare
fuori del creato.