Troppopeso
alzare una testa randagia. Distrutti gli scarafaggi,
nelle
vecchie cantine i ladri di frumento amalgamano
il
pane. Cristallisudore, immaginazione,
graffito.
Le facce intorno digrignano, maschere del Valentino.
Evacua
una rovina dai porifumosi a la luna
in
convogli di cenere. Rimastico di gomma questa corsa,
inutile
forare la notte perché la parete si spiani. Tramonto
senza
il ranno che insegue carene scrostate dal mare: la voce,
nido-di-formiche
scava sotto gli alberi nelle aiole,
dove
corolle i grandinegozi anneriscono a sera.
Ritmo
schiumoso, le ombre le parole girano invischiate
in
un ramosecco. Lungocoltello dell’alba. Se ricerchi poesia
devi
conquistare nemici.
Capanne-frasche
accumulate, nei sentieri dove s’avvita il fumo,
trincea
di melma e ruggine. Aria linguastrappata questa corrente,
mura-tatuaggio
del falco che polarizza verdi cristalli. Noi non vedemmo:
in
legno artigiano curvo come a tornar virgulto, crolliamo
grondaie
disperate di nebbia, all’esterno schiumose, e vuote.
Hanno
ripetuto binari di latta i trenini giallicci al collaudo,
il
capostazione conservava piccoli denti sotto celluloide.
Avvolto
l’arcobaleno in fuoco petrolio e bianche secrezioni,
marionette
raspate dalla sofferenza, assorbiamo la vernice senza grido.
Satellite
della rada, l’uomo dei moncherini ignora
vele
antenne catene, guizza spallepapiro per aurore in piccole branchie
e
corrode i suoi ultimi anni. Inghiottisce parole e riprende
immemore
come da un’onda rossi filacci sopra scafi neri.
Cigliamemoria
dove ci siamo smarriti, per una scommessa
su
acque rotte in bianche caverne. Ci ritroviamo
pesciolini
ordinati in buste di plastica, ventre-pallido
senza
spazio per morire. Cacciatore di vermi, un vecchio
sogna
il suo amo, corrugando piccoli occhi.
Disperata
certezza contro le cose, in ginocchio fra montiruggine
di
barattoli, impasto a folle densiscarichi che muovono
indifferenti
e soffici e chiare sotto la grandine. Scienza
degli
esseri umani, feti mostruosi nel vetro abitatori modello
per
due vani con bocche di lupo. A piccole bollicine condizionati
li
guidano per caverne infette di sirene. Tu risciacqui rossemani,
tele
di foreste e di città in rivolta, e trovi il tempo
dentro
la sua scorza.
Il
sole dei mattatoi ingloba vitelli ciechi rimossi a una gabbia
che
tossiscono infantili al gas squamacittà e piangono di sete
prima
di morire. Pendolo e tornasole la resa, orari zampe di ragno
amalgamare
per terra, soffici tappeti, incidenti percentuali
di
fabbrica, norma putrida nelle corsìe d’ospedale. Per viadotti
scivoli
solitari a lo stagno, il mio strepito imbeve
alberi
e innamorati radi persi delle proprie dita, conficcato
sopra
larghimoli fra cataste di merci e di gente,
che
schizza catrame.
Pareti
lungobuio ricongiunte, impenetrabili increspate di parole,
arruffate
verità come vento dentro il cerchio dei piccioni a vite,
geometrico
penetrar dei migratori, ossa coperte sotto le conchiglie.
Lunghi
marciapiedi, strade degli astri ibernate nel catrame,
il
mio tramonto ha occhi clandestini, candeggia
i
tùmuli gonfi di marinai e saldatori squamosi.
Calamita,
masso per schizzare al cielo, in una gran catapulta
albelavoro
e bandiere ridipinte e tavoli in legno e palme logorate:
i
dolori come maglie senzafine, renapietrisco strascinati ai fiumi,
cesti
di vimini e sacchi di granturco, un dormire sottotronchi,
guance
di olio e farina amara. Come il mare assorbe le meduse
questapoesia
ricuce la sua strada per lembi di giacca e corse
sottomina
e sferze d’onda e secco di carene
e
il sospiro dei bambini morti.
|