Roberto
Pagan: Biobibliografia
A
proposito di queste traduzioni
La
Casa del sonno (XI, vv. 592-615)
Orfeo
ed Euridice (X, vv. 8-59)
Apollo
e Dafne ( I, vv. 497-556)
A
proposito di queste traduzioni
a cura di
Roberto Pagan
Nell’ambito
di un’esperienza più volte praticata – tradurre da testi
stranieri,
antichi o moderni, è sempre un esercizio fondamentale se non
altro
per affinare il proprio mestiere – le presenti versioni da Ovidio sono
nate da un’occasione particolare. Si trattava di fornire a un’amica,
l’attrice
Giuliana Adezio, impegnata in un convegno di studi sul poeta di Sulmona
tenutosi a Edimburgo, alcuni brani delle Metamorfosi da servire a un
recital
dedicato all’opera ovidiana nel suo complesso.
Ora proprio
delle Metamorfosi – per quanto la cosa possa apparire strana –
scarseggiano
in Italia le traduzioni moderne di qualche dignità poetica. Era
dunque per me lo stimolo per far fruttificare una qualche consuetudine
e forse una certa affinità istintiva con un poeta che,
celebratissimo
nel passato, non ha goduto di grandi simpatie in tempi a noi più
vicini. E’ certo che, in un clima di imperante crocianesimo o di
sensibilità
“frammentista”, Ovidio è stato spesso e frettolosamente
coinvolto
nel fastidio per tutto ciò che poteva apparire “decorativo” o
“barocco”.
In
realtà, se si tralasciano gli aspetti più appariscenti, e
più superficiali, di un’attitudine indubbiamente portata al
colorismo
e all’ornamentazione, troviamo in Ovidio, e soprattutto nelle
Metamorfosi,
infiniti tesori di sottigliezza psicologica, mobilità
fantastica,
varietà di toni espressivi, capacità di orchestrazione
musicale.
Quasi come un Ciajkowskj – l’accostamento non sembri incongruo – che
più
rivela le sue native risorse di grande melodista là dove meno
cede
all’eloquenza e alla retorica del patetico o del monumentale (non a
caso
le sue partiture per balletto resistono al tempo meglio di un
sinfonismo
troppo corrusco e declamatorio), così forse Ovidio, quanto
più
si abbandona all’estro musicale, alla evocazione fantastica e fiabesca,
libero da ogni pretesa cosmologica e dottrinaria, tanto più
riesce
convincente e capace di sincera commozione; anche là dove non
manca
di quello sguardo un po’ smaliziato, o maliziosamente scettico, che
è
il portato di una civiltà troppo adulta, già sfiorata
dalla
“decadenza”. Ma è soprattutto per questo disincanto, questa
sottile
vena di malinconia, come di chi vorrebbe, e non può, lasciarsi
andare
del tutto alle consolazioni luminose del mito, è per questo, mi
pare, che sentiamo oggi Ovidio più vicino a noi.
Ora,
ammesso che questa sia una delle possibili chiavi interpretative utili
a riportare in gioco l’attualità soprattutto delle
Metamorfosi,
si trattava naturalmente di restituire l’accennata vibrazione
psicologica
in ritmi e forme che mediassero tra la fedeltà alla lettera e
una
dizione moderna, piana e non aulica, e nel contempo memore di una
squisitezza
espressiva cesellata e assaporata in tutte le sue sfumature, con tutto
il lusso di una irrinunciabile cantabilità. Da ciò
l’impianto
versificatorio fedele a una tradizione umanistica intesa a
privilegiare,
se non l’endecasillabo tout court, in una sua troppo marmorea
monoliticità,
l’accento portante dell’endecasillabo, pur in un più
libero
ventaglio di soluzioni metriche. E – per quanto concerne la
strutturazione
sintattica e la resa linguistica – una pronuncia familiare ma non
corriva
verso eccessi semplificatori, capace di sciogliere i nodi più
ostici
del testo costituiti spesso da ingombranti richiami mitologici o
termini
esornativi arcaicizzanti, sfumandoli dove possibile, pur senza
misconoscerli
o tradirli.
Il
lettore potrà giudicare del risultato. Quanto a me, ho potuto
assistere
alla replica del recital ovidiano che Giuliana Adezio ha proposto, alla
fine dello scorso mese di luglio, sugli spalti di Castel Sant’Angelo a
Roma. Ebbene – a rischio di incorrere in un peccato di immodestia
– devo confessare che le parole che avevo messo in bocca al poeta delle
Metamorfosi non suonavano in generale malissimo. Se poi in qualche caso
si avvicinavano al segno, merito, senza dubbio, della
valentìa
dell’attrice.
La
casa del sonno (XI, vv. 592-615)
Sta nel
paese dei Cimmerii un monte
incavato, una spelonca
profondamente incisa. E’ la dimora
inaccessibile del Sonno. Non vi giunge
il raggio del sole mai né quando sorge
all’alba né al tramonto o quando
più splende a mezzodì. Vapora
su dalla terra una caligine
nebbiosa, come un alone
di crepuscolo incerto.
Non qui il gallo crestato che vegli
o che chiami l’aurora, non cani
inquieti che rompano
col loro latrato il silenzio, né oche
più accorte dei cani, non greggi
o bestie selvatiche o rami
mossi al soffio del vento, non voci
o lingue umane che mandino un suono.
La muta quiete vi posa. Ma esce
giù dalla rupe un rivolo del Lete
e la lambisce e col sussurro
lieve sui
ciottoli ci induce
al sonno.
E all’ingresso dell’antro
fiorisce
folto il papavero e altre
erbe vi
nascono innumerevoli. Spreme
da quei
succhi il sopore
l’umida
notte e l’ombrosa
terra ne
irrora. In tutta la casa
non una
porta - girando sui cardini
farebbe
rumore - né sulla soglia
un custode.
In mezzo allo speco
si leva
d’ebano un letto, un giaciglio
di piume
d’un solo colore e velato
di scuro.
Lì, sciolte le membra
al languore,
il dio stesso riposa:
e intorno
confusi ogni forma imitando
i sogni
lo cingono fatti di nulla
tanti quante
spighe ha una messe
quante
foglie una selva o i granelli
di sabbia
che il mare depone
sul lido…
Orfeo
ed Euridice (X, vv. 8-59)
Mentre vagava
sui prati la sposa
novella
in compagnia delle Naiadi
la
punse al tallone una serpe
e
morì.
Dopo aver pianto e invocato
quanto
poteva i celesti, il poeta
del
Ròdope
- nulla voleva
lasciare
intentato – si volse
allora
alle ombre. E fino allo Stige
osò
scendere giù per la porta
di
Ténaro:
e tra quelle schiere
senza
più
peso e i fantasmi
di gente
sepolta al cospetto
fu di
Perséfone
e in faccia al Signore
che tiene
quel pallido regno.
E così
tentando le corde
della sua
lira diceva:” O potenti
di questo
mondo che giace sotterra
ove noi
tutti torniamo, mortali
quanti
siam nati, mi si conceda
di dire
il vero senza ambagi, senza
parole
ipocrite: io non sono
sceso
quaggiù
per visitare il buio
regno del
Tartaro o per stringere
alle tre
gole irsute di serpente il drago
ch’è
figlio di Medusa. A questo viaggio
la mia
sposa mi induce che una vipera
offesa
dal suo piede col veleno
fece morire
e la strappò dal fiore
degli anni.
Avrei voluto sopportare
fosse stato
possibile. Ho tentato,
lo giuro.
Ma l’amore ha vinto: un dio
ben noto
sulla terra. Qui tra voi
non so,
ma spero che lo sia: se è fama
non mentita
qua giù di un rapimento
antico,
pure voi strinse l’amore.
Per questi
luoghi di sgomento e i vasti
silenzi
dell’abisso, ecco io vi prego:
ritessete
la vita di Euridice, il filo
troppo
presto spezzato. A voi noi tutti
torniamo
o prima o poi dopo una breve
stagione
al mondo, qui, a quest’unica
meta
precipitiamo.
Questa è l’ultima
nostra
dimora: e voi sul genere
umano avete
signoria infinita.
Anche costei,
quando sarà compiuto
il giusto
giro dei suoi anni, vostra
sarà
di diritto, ormai matura
per voi.
Non dono, un prestito vi chiedo.
Ma se un
fato mi nega questa grazia
per la
mia sposa, è certo ch’io non torno
lassù:
gioite dunque di due morti”.
Mentre
così diceva accompagnando
col suono
le parole lo seguivano
in pianto
quelle anime esangui.
Per una
volta Tantalo si astenne
dall’acqua
fuggitiva, s’incantò
stupita
la ruota di Issione, gli avvoltoi
non
straziavano
il fegato di Tizio,
non accorsero
alle anfore le figlie
di Belo
e tu, Sisifo, immobile
ti sedesti
sul masso, ecco, e si videro
per una
volta scendere alle Erinni
sulle gote
le lacrime a quel canto
commosse.
E non resiste
alla
preghiera
la regina, non si oppone
il re,
signore dell’abisso, no: si convochi
dunque
Euridice. Stava tra le ombre
discese
appena: e venne a passi lenti
per la
ferita. Orfeo la accolse e seppe
anche la
legge: non si volga indietro
e non la
guardi fin che non sia uscito
dalle valli
d’Averno, oppure vana
sarà
la grazia. Prendono un sentiero
arduo,
in salita dentro a quell’opaco
silenzio,
ripido, affondato
nella folta
caligine. Lontano
ormai non
era il margine del mondo
dei vivi:
Orfeo che teme
che sia
smarrita e brama di vederla
si volge
e guarda innamorato. Sùbito
lei fu
ghermita: scivolava indietro
tese le
braccia a prendere, a esser prese.
Ma nulla
strinse se non l’aria
vuota.
Apollo
e Dafne ( I, vv. 497-556)
Guarda i
capelli scenderle scomposti
giù
dalla nuca. “E che, se fossero –
si dice
– pettinati?”. Ecco brillare
come stelle
gli occhi e poi le labbra
le vede
e di guardarle
non è
mai sazio e loda quelle dita
e le mani
e le braccia seminude:
sarà
ancor meglio quel che non si vede?
Fugge
più
svelta lei del venticello
lieve
né
porge alle parole orecchio
di chi
la chiama: ”O ninfa, o figlia di Peneo,
férmati,
ninfa, te ne prego: io non ti inseguo
come un
nemico. Già: l’agnella fugge
davanti
al lupo, e fugge la cerbiatta
per il
leone, e le colombe all’aquila
con penne
trepidanti fuggono, ognuno
ha i suoi
nemici. Ma io per amore
ti inseguo.
Ahimè, non voglio che tu inciampi
che ti
pungi tra i rovi le caviglie
senza
peccato,
no, non farti male
per causa
mia. Sono selvaggi i luoghi
là
dove corri, vai più adagio, frena
la fuga.
E anch’io più adagio
ti
seguirò.
Ma almeno, via, considera
a chi piaci.
Non sono un montanaro
e nemmeno
un pastore, io, né un bifolco
guardiano
qui di pecore e di buoi.
Non sai
chi fuggi, temeraria,
ed è
perciò che fuggi. Io son signore
di Delfi
e Claro e Ténedo e di Pàtara
regale.
Ed è mio padre Giove.
Quel che
sarà, che fu, che è, tutto si svela
per me
e per me si accordano
i suoni
della lira, ecco, e infallibile
è
la mia freccia, sì: ma un’altra è stata
più
infallibile ancora e m’ha colpito
al cuore
all’improvviso. Io guaritore
d’ogni
male del mondo, io che ho inventato –
mi si loda
di ciò – la medicina,
e delle
erbe possenti ho signoria,
ahi, che
non trovo l’erba che risani
d’amore:
e l’arte mia famosa
e che a
tutti ha giovato a me non giova”.
Altro ancora aggiungeva: la figlia
di Peneo,
via sempre di corsa, lo lascia
con la
parola a metà. Oh, certo era bella
anche allora
a vedersi: le membra
che il
vento scopriva, le vesti
dal soffio
agitate, i capelli
dietro
la nuca fluttuanti. La fuga
stessa
era grazia. Non regge
il
giovane dio, non sopporta
di sprecare
blandizie. Sospinto
da amore
accelera il passo. Sì, è un bracco
che ha
scorto nella radura la lepre:
lui pensa
alla preda e l’altra alla vita,
l’uno
è
già quasi sopra, già spera
ghermirla,
la bocca che anela
e passo
su passo la incalza, e l’altra
non sa
se è già presa, al morso si strappa
tra le
zanne gli sfugge. E’ la stessa
tra il
dio e la fanciulla la gara.
A lui la
speranza dà ali, a lei la paura.
Ma chi
insegue con penne d’amore
è
più lesto e tregua non lascia
a chi fugge,
la insidia da presso,
le sfiora
col fiato la chioma
sul collo.
Stremata dalla fatica
e pallida
in viso la ninfa
si volse
alla vena del fiume
Peneo e
“Aiutami, padre –
invocava
– se avete, voi fiumi,
un divino
potere, dissolvi
trasforma
questa mia forma
per cui
troppo piacqui”. Nemmeno
finita
questa preghiera, un torpore
profondo
negli arti la prese:
il tenero
petto si fascia
di una
corteccia sottile, i capelli
s’allungano
in fronde, e in rami
le braccia,
e il piede già così agile
s’abbarbica
fermo
in una
radice, il volto si affusola
in una
cima. Rimane di lei
a splendere
solo una luce.
Ma l’ama
Febo anche
così. E, posata la mano
sul tronco,
vi sente battere il cuore
sotto la
scorza recente, le stringe
tra le
sue braccia quei rami,
le bacia
quel legno. Ma il legno
i suoi
baci respinge.
Roberto
Pagan: Biobibliografia
Nato
nel 1934 a Trieste, Roberto Pagan ha potuto conoscere e frequentare gli
ultimi rappresentanti di quella grande stagione mitteleuropea: Saba,
Giotti,
Stuparich, Marin. Nella poesia ha esordito molto giovane (nel 1957 era
vincitore del I Premio Triveneto di poesia dialettale) per dedicarsi
poi
agli studi classici e all’insegnamento nei licei. E’ stato tra i
redattori
della rivista di narrativa Nuova Prosa. Ha pubblicato quattro libri di
versi: Sillabe, Il Ventaglio, Roma, 1983, Genealogie con
ritratti,
Bastogi, Foggia, 1985, Il velen dell’argomento, Edizioni del Giano,
Roma,
1992 e Per linee interne, Interlibro, Roma, 1999, con il quale è
risultato finalista al Premio Frascati 1999 e al Premio Jovine 2000.
Suoi
testi di critica e di poesia sono presenti in varie riviste e
antologie.
Dal 1969 vive tra Roma e la Maremma toscana.