Lo scriba.
(Ipotesi prima)
Ove venisse riscontrata nelle sue opere un’attività/funzione
testamentaria di valori da trasmettere secondo codici garantiti
da un “imprimatur” strutturale, Villa a buon diritto potrebbe reclamare
il complesso armamentario “scientifico” di interrogazione, di analisi,
di ermeneutica. La
necessità
consolatoria (retorica) di un’indagine/analisi sarebbe allora il
prezzo
“logico” da pagare ad ogni livello ad una poesia che vive e fonda il
suo
essere forma su un modello discorsivo e grammaticale, proprio dello scriba,
d’altronde, incontrarsi circolarmente con se stesso e riconoscersi nonostante
i giochi combinatori, sapientemente tra scritti, della Parola. D’altra
parte, in una simile eventualità, non sarebbe il Villa-scriba a reclamare
d’essere messo agli atti; non ne avrebbe infatti il tempo. Perché,
a pensarci bene, nell’obbligo amanuense e nella funzione testamentaria
il rapporto col tempo come rivendicazione a trasmettere se stesso,
è automatico; resterebbe aperto, semmai, il problema dell’amministrazione
economica di sé, discorso interessante da affrontare se
non
fosse inficiato da una grossa monotonia: in un modo o nell’altro, lo scriba
vende se stesso come promessa di godimento, partecipazione intima, apparizione/sparizione
dell’ordine linguistico, messa in gioco della sua stessa
castrazione (tutta energia sessuale sprecata) con proiezioni universalistiche.
Ora, se lo scriba è l’urna funeraria in cui si mima la ricostruzione
del cosmo, con le parole/cenere ricomposte, conservate, tramandate
(passaggio esse stesse da un non senso biologico ad un senso culturale/cultuale)
il supporto logico di tale funzione testamentaria è un pre-testo
come intuizione univoca del mondo, misticamente accettata e sacralmente
tradotta. Non solo. L’economia stessa della sua funzione consiste
in una scansione logica e discorsiva del processo, in cui l’esperienza
di secoli ha fondato equilibri simmetrici e contraddizioni risolte
ed egli sa pure, ma finge di ignorarlo, che la necessità della
sua funzione
poggia su una in/differenza per il mondo stesso. Il suo compito è quello
di espropriare il mondo della sua eterogeneita e di creare un rapporto
“inventato”, grammaticale che se ha un senso lo trova nell’irresponsabilita
che lo caratterizza. Donde il privilegio della sua posizione,
senza dignità, senza diritti e senza doveri, in una condizione biologica
parassitaria che egli vive, nel migliore dei casi, con la protervia
e la sfacciataggine di colui che “ha ragione”. Il compito dello scriba
è identico a quello della polizia militare: impedire che
l’eccesso come
individualità,
come possibilità a gestire se stessi, si riversi fuori da
una
frattura del codice per diventare arbitrarietà di un linguaggio
e di
comportamenti.
La prescrizione come teofania non può ammettere il diverso dall’Uno.
E la civiltà come teofania è salva. “La nostra
civiltà
ha poco da temere
da parte dei colti e degli intellettuali. La sostituzione dei motivi religiosi
ai fini del comportamento civile con altri laici avverrebbe in loro
senza
rumore, inoltre sono essi stessi in buona parte portatori di civiltà.
Le cose stanno altrimenti a proposito della grande massa degli incolti,
degli oppressi, che hanno ogni motivo per essere nemici della civiltà”.
(Freud). Il
mito
di un “grado zero” non tanto del dire, quanto del vivere, di un silenzio
come espropriazione “terroristica” di una facoltà
incontrollabile, perché
equivoca e imprevedibile, passa attraverso la funzione notarile e rogatoria
di una scrittura/archivio in cui tutto è chiaro tranne il suo diritto
ad esserci. Ma la sua cittadinanza è inevitabile, il suo diritto
si fonda
sulla
morte del biologico, sulla morte del mostruoso che è il desiderio
stesso di una comunicazione/altra, sulla protezione iterativa di un
universo
accentrato. È l’alfabeto significò potere,
autorità
e controllo a
distanza
delle strutture militari “. (Mc Luhan). La
cancellazione
insieme con l’indipendenza, del diritto ad essere “luoghi”,
“spazi”, “buchi neri” di energia, passa attraverso una scrittura che
ci
consegna al paradigma, alla necessità/significazione, recupero costante
di possibili implosioni. Lo scriba, come pensiero semiotico, ha bisogno
infatti di un universo esploso, cui applicare un processo grammaticale,
instaurazione di un rapporto di civiltà e di colonizzazione cosi
esasperato
che “di una risposta che non si può formulare non può formularsi
neppure la domanda”. Laddove
l’implosione è l’enigma come riorganizzazione/rappropriazione di una
complessità
di funzioni e di spazi (a partire dal corporeo) contro l’Estremo
Semplice, lo spazio teologico.
Villa.
De/monstro. (Ipotesi seconda)
L’espulsione del possibile come vivibile
avviene attraverso un costante rimando al mondo delle idee oppure un
‘assunzione
del reale come catalogo mediante l’uso impietoso, perché categorico
e formale, di un’intelligenza alfabetica di cui sono caratteristiche
la pertinenza, la coerenza, il ritmo, l’economia strutturale.
Il principio d’identita del segno che è poi la garanzia di “normalità”
per un’instaurazione del non-umano, funziona da vero e proprio carattere
genetico ereditario e non è poi tanto difficile ritrovarlo, sotto forma
di
virus (pur con le dovute variazioni sul tema) nei tanti scribi nostrani.
Il fatto è che troppo spesso, vuoi per quella strana forma di complicità
che è l’idiozia, vuoi per un’innata aspirazione alla menzogna e alla
mistificazione
(irresponsabilità propria del politico e del sacerdote: Dracone
e la Pizia), un’assoluta non-volontà di trasgressione è
stata “venduta”
per diversità effettiva come progetto/altro. L’entropia di alcuni testi,
infatti, non scalfisce minimamente quel progetto di Salvezza (del sapere,
del ruolo, dell’etimo) in cui lo scriba identifica la sua esistenza;
anzi, del sapere giustificativo pietrificato in cultura,
dell’universo
come luogo chiuso, tale entropia risulta essere la citazione, come
incapacità
a mettere in discussione totale il rapporto scriba-progetto metafisico.
È la paura di riconoscersi soli e la conseguente omertà,
la paura
di
una scrittura come luogo in cui la diversità ha cittadinanza storica
come gioco dialettico raffinato, funzione della Verità. E lo
scriba tiene
il
diario di questo luogo dove la “distanza da riconquistare”, l’espropriazione
da ri/vendicare diventa misera anagrafia, come “ trascrizione
(dispersione-ri/concentrazione) della stessa logica” (Caruso). Oppure
le istanze “radicali” diventano mitologia di bisogni anti-istituzionali
da soddisfare. Perché quel che conta nel ruolo dello scriba
mercante è il parlare comunque, è lo scrivere comunque, rappresentare
il rischio del rifiuto e fame vivere il disagio fino in fondo,
tranne poi a salvare capre e cavoli col guizzo finale di un’interrogazione
lasciata sospesa: proprio quando la mitologia dell’uomo nuovo,
della “rifondazione” poteva diventare la critica spregiudicata degli stessi
meccanismi di interrogazione. Allora, proprio allora, scatta la furberia
di chi vuol rimanere nel gioco, nell’amministrazione della cultura come
patrimonio
di San Pietro, di chi scambia la sua autonomia con la rappresentazione
di essa nello spettacolo verbale. Ed è proprio allora che la
sospensione
della domanda riafferma, con la forza di un discorso binario (si/no),
l’ossessione di un Verbo non discoperto e onnipresente e, perché tale,
Imperativo.
A questo punto bisognerebbe far cuocere il discorso dall’altra
parte, dalla parte di Villa-ombra, onde avere una torta critica impeccabile.
Ebbene ci piace sottrarre il lievito di un paragone, di una dimostrazione
sicura e acclarata, di un Villa gastronomico e semiotizzabile,
semantizzabile, analizzato, frugato, tesaurizzato. Potremmo ripetere
la gioia scritturale di mangiarne le reliquie, di salvarlo, di disperderlo
al vento, di fame un diario e metterlo in bottiglia. E ci troveremmo,
come lui stesso dice in “Attributi “, tra le mani paralitiche il
suo
provocatorio, il limite Niente. Siamo insomma su un terreno minato: da
una
parte il nostro desiderio di fuggire da lui, dai suoi versi di Oramai,
di E ma dopo, suoi margini incontrollati nell’“omertà su”, dall’altra
parte la necessità (fino a che punto giusta e fino a che punto “nostra”
non sappiamo) di un minimo di capacità conoscitiva su questo
luogo che
ci
ostiniamo a chiamare Villa, quasi a esorcizzarlo in un banalissimo gioco
nominalistico.
E se fosse altrove la ragione di questo nostro atteggiamento,
del nostro desiderio a fuggire da lui, dai suoi versi di Oramai,
di E ma dopo, di Si, ma lentamente? Forse il nostro è il disagio per
la
mostruosità stessa di una scrittura in cui “l’etimo corroso dalle iride
foniche,
/ l’etimo immaturo, / l’etimo colto, / l’etimo negli spazi avariati,
/ nei minimi intervalli, / nelle congiunzioni, / l’etimo della solitudine
posseduta, / l’etimo nella sete,...” diventano il corpo mistico provocatorio,
i gangli informi di un “corpus” da sempre semiotizzato, oppresso,
annichilito, che adesso si tocca, si palpa, monta su di sé, dirompente
nella “pienezza dei tempi”.
Il mito
forse dell’incarnazione? Piuttosto, noi crediamo, lo sforzo di rendere
conto a se stesso del proprio essere-tempo, del proprio scorrere in un
non-luogo
comeconsuetudine verbale, come società conoscibile unicamente per
litteras.
È l’ipotesi concreta di un linguaggio/mondo in cui lo scarto mentale,
vissuto come stravolginiento di ogni schema e di ogni limite, brucia
le sue stesse ragioni di verbalismo esasperato fino a tagliarsi i ponti
con
quel non-luogo rassicurante e “reale”. Oltre a quanto di sciamanico,
di esoterico c’è nella sua poesia noi piuttosto proveremmo a guardare
alla distanza incommensurabile che, appunto, egli ri/stabilisce da quel
non-luogo/ambiente
dove ogni “concatenazione di segni nello stesso tempo
vuoti
di significati, può salvare con poca fatica dal silenzio costernato
di fronte all’inesplicabile”. Il che significa, allora, andare a ricercare
il colpo di mano, il gesto di assunzione e di padronanza che Villa
realizza
nei suoi testi a scapito di quelle condizioni di articolazione
logica che ogni comunicazione falsamente ”trasparente” o “idealizzante”(il
che poi è lo stesso) presuppone. E questo colpo di mano egli
l’aveva
annunciato quasi in sordina: “Parlà, parlà de sender, de rusada,
parlà / cui occ saraa, cui laber che cicaren / de per lur, sensa vurè,
parlà / l’é cume di: “Nagott. Pasiensa. Amen…”. Parlare
come vagabondaggio,
come un continuum il cui senso più probabile e in un esperienza
come superamento del non-luogo in cui la morte ha eletto il suo spettacolo.