Parte
I
“È
solo nella violazione — al livello della morte — dell’isolamento
individuale,
che fa la propria apparizione quell’immagine dell’essere amato
che per
l’amante rappresenta il senso di tutto ciò che esiste.”
Così Bataille
(L’erotismo, Mondadori, p. 28). Ma l’isolamento individuale di cui
parla
è
la prigionia nella figura di sé — violarne il fortilizio
è
davvero un
rischio
mortale —: l’apparizione di “quell’immagine dell’essere amato” è
innanzitutto
l’apparire della liberazione possibile, nella coniugazione col
mondo,
il senso appunto di tutto ciò che esiste. Al di sotto di ogni
psicodramma
dell’amore, negli inferi della carcerazione in sé, questa
è
la tragedia:
l’al di là di sé appare come una “immagine”, una cifra
simbolica della
totalità
agognata. Essa risplende di tutta la forza cresciuta nella
compressione
della manque à être, non tanto perché ne sia la
proiezione allucinatoria
(e in questo senso fittizia), quanto perché effettivamente la
manque
conosce e chiama l’être che le è assente, sa che esiste
fuori
dal sé,
lo aspetta e lo cerca da sempre. L’immagine
è dunque la promessa d’essere, e, insieme, la dimostrazione
della sua
concreta possibilità. Essa è infatti incarnata; è,
come infelicemente
ma realisticamente si è abituati a dire, una “persona”, ossia
la maschera
di un dramma, ma la maschera indossata da qualcuno che è, o
più esattamente
desidera essere. Una menzogna antichissima, e un’allucinazione
sempre
nuova, istituisce a questo punto una simmetria perfettamente
illusoria.
Due “persone” si trovano l’una in presenza dell’altra, si
desiderano
e si amano, non gli resta che congiungersi. Ma due “persone” non
possono,
letteralmente, congiungersi: non appena si apprestano a farlo,
ecco che
si separano, tanto più sostanzialmente quantopiù
formalmente
il congiungimento
appare ricco e animato. La ricchezza è accumulazione di
forme
metonimiche,
l’animazione è di figure, di cartoons. L’ostinazione
cieca con
cui due “persone” si sforzano di congiungersi è simile a quella
con cui
taluni animali, e i bambini, si sforzano di lottare, o di
congiungersi,
con la propria immagine riflessa nello specchio. A fronteggiarsi
sono infatti due immagini reciprocamente speculari, e
speculari
particolarmente nella loro diversità (l’alterità sessuale
e/o l’alterità
fisiognomica, in senso lato) e nella loro specificità
individuale.
L’angustia
— la sofferenza di cui parla Bataille (“l’amore ci impegna
pertanto
alla sofferenza, poiché la piena fusione è apparente; e
tuttavia l’amore
promette la fine della sofferenza”, ibid.) — implacabilmente
soffoca
il piacere in questo cozzo di due architetture o “machine”,
belliche
e carcerarie insieme. Ciascuno è per l’altro ciò che non
è in sé. Ciascuno,
per incontrare l’altro, deve uscire da sé. Di questo è
fatta l’estasi,
questa sortita armata fuori dal fortilizio del sé. Ma non appena
l’estasi
tende a spiegarsi, ad affermarsi, negarsi come istante e cercarsi
come
totalità
e come durata, l’altro si svela essere come una pietra o un
albero,
o come un idolo: un oggetto, una “cosa”, un’entità comune al
mondo delle
cose,
una cosa del mondo in cui il fortilizio ha fondamento. In
questo,
l’altro indica già, nell’istante stesso dell’estasi, la via del
ritorno
alla prigione, segnalandosi come cosa dell’orizzonte della
prigione,
significandosi come la pochezza in cui si disconoscono desideri e
volontà,
in cui si riconoscono frustrazione e inanità. Questo è
vero
per ciascuno;
è così che gli amanti conoscono insieme e nel medesimo
movimento la
gravità
del progetto contenuto nel desiderio e la miseria della
sconfitta
espressa dalla mancata realizzazione. O meglio: dalla
realizzazione
della mancanza. Ma guai a chi, di questa banalità del propriodestino,
fa la trappola in cui va a morire ogni destino. Chi cessa di
progettare
l’evasione, chi cessa di osare tendervi e di detestare la
miseria
della carcerazione nel sé, muore chiuso nel sé, fa di
sé
la storia di
una
morte mentre muore alla storia, pone fine alla sua via mentre resta
un ciottolo
della grande via.
L’amore,
prescrive il cinismo dei proverbi, è una lotta. Di questa
saggezza miserabile
si inorgoglisce il sorriso dei vili: a che vale, muoversi alla
ricerca
dell’estasi, quando sai che non potrai trovare se non il corpo del
niente,
che il desiderio della fusione e della sortita dalla prigionia si
conoscerà,
stravolto, come un corpo a corpo di fantasmi? Se è anche vero
che l’amore
è una lotta, è più vero che la lotta è di
ciascuno
contro la propria
miseria e contro la propria prigionia. Non si lotta contro l’altro,
si lotta
contro il sé. Nessun manuale di strategia amorosa vede la
moralità di questa
lotta. È più osceno il presunto realismo delle “astuzie”
d’amore che
le
iaculazioni sul viso della pornografia. Bataille scrive,
temerariamente:
“L’essere amato è, per chi lo fa oggetto d’amore, la
trasparenza
del mondo. Ciò che attraverso l’essere amato appare (...)
è l’essere
pieno, illimitato, cui l’individualità non oppone più
barriere”. L’essere
amato èla trasparenza del mondo finché non si riduce ad
apparire come
l’oggetto
d’amore, e non appena appare come l’oggetto d’amore ogni
trasparenza
dilegua, l’opacità spezza lo sguardo, la specularità lo fa
regredire
al passato. Guarda l’essere che ami nel cuore di un paese:
vedrai,
se l’amore è forte, quanto è grande il paese del tuo
cuore,
e come esso
è
un regno, e come la tua e quella dell’essere amato volga ad essere
la signoria
senza schiavitù. Ma guarda ancora l’immagine della persona che
ami al
centro di un paesaggio: vedi la serva-padrona che fu tua madre e il
forzato-sbirro
che fu tuo padre, al centro focale del tuo passato, proiettato
come un incubo onnivoro e ossessivo, sopra ogni presente, contro
ogni futuro.
Fai del progetto amoroso un oggetto d’amore e vedrai il tuo
passato
come la barriera specchiante che ti separa dal presente.
Sei mia
sono tua, la mia donna, il mio uomo: l’essere è già
sgominato, l’avere
già si impone con il suo contenuto di niente. Eppure non è
liquidando
la fedeltà alla scelta, la temerarietà di un progetto
comune, che
si
supera la pietrificazione e l’annientamento. Se è vero che due
amanti
giacciono l’uno “con” l’altro come due amuleti, o due figure di un
gioco tetro,
o due bracci di un congegno, è però vero che essi solo
così trattengono,
nella loro ostinazione a volere, e anche quando essa appare
come
un’immotivata
coazione a distruggersi, il sogno di una cosa che è al
di là
della cosalità in cui giacciono, il progetto d’essere che
effettivamente
è la loro sola ragione d’esistere, il loro solo onore, e il
solo onore
che trapassi l’atrocità dell’infanzia.
“È,
in una parola, la fusione dell’essere visto come liberazione a partire
dall’essere
dell’amante” scrive ancora Bataille, e: “C’è in quest’apparenza
un’assurdità,
un’orrenda mescolanza: ma, al di là dell’assurdità, della
mescolanza,
della sofferenza, splende una verità miracolosa. Niente, a
conti fatti,
è illusorio nella verità dell’amore: l’essere amato
equivale, per
chi
lo fa oggetto d’amore, e naturalmente solo per chi lo faccia
oggetto
d’amore (ma che importa?) alla verità dell’essere. Vuole il caso
che, tramite
l’oggetto d’amore, sparita la complessità del mondo, l’amante
scorga
il fondo dell’essere, la semplicità dell’essere”. Ciò che
l’amante vede
nell’amato,
l’ho già detto, è la concretezza possibile esistente fuori
di sé,
nella generalità, di un progetto d’essere che è, al tempo
stesso, suo
e
non-suo,
squisitamente personale, individuale e unico e patentemente
sovrapersonale,
comunista, “storico”. L’indulgenza ipocrita con cui l’universo
mondano tollera la presenza degli amanti maschera a malapena
l’astio
e l’intolleranza per ciò che sempre l’amore trasmette
d’eversivo,
e lo
maschera
facendosi forte sulla comicità patetica, sulla goffaggine degli
amanti.
Coloro che incespicano tenendosi per mano. Coloro che “si
illudono”.
La mondanità pregusta la vendetta storicamente preparata.
Finirà,
quell’amore, come tutti gli altri, nel risentimento e nel vuoto; si
accomuneranno,
quei comunisti, alla comunità dei relitti e della
desolazione.
Ah sì, l’orrenda mescolanza prepara effettivamente in anticipo
una sconfitta
certa. Finché la vita non sarà liberata, ogni battesimo
è
un memento
mori, ogni abbeverata un avvelenamento.
La misura
individuale si conclude nella morte, solo la specie, la comunità
totale,
possiede la misura della vita verso la quale procede. Ma la vita
realizzata
riscatterà dalla morte l’individuo, non appena gli
consentirà
di superare
la dimidiazione, di fondersi, indiviso, con la totalità, nel
flusso
del processo.
Tutto,
“a conti fatti”, è illusorio nell’amore, se si tratta di fare i
conti.
L’essere amato equivale davvero, per chi lo fa oggetto d’amore, alla
verità
dell’essere: le equivale nel senso che ne è la cifra simbolica,
la moneta-figura.
L’oggetto è l’equivalente generale dell’essere, in una
circolazione
di capitale fittizio in cui l’essere ha per requisito
essenziale
quello di mancare. Non si capirà mai a sufficienza la portata
positiva
di ciò che è assenza. Ciò che manca è
potente,
ciò che manca si impone
d’essere, di ciò che manca il processo nutre la sua dinamica
inseguitrice.
Si disperi
chi vuole, di non avere: avrà pure saputo perché
desiderava.
Di tanto
piangere
mormorando in debolezza a margine, sulla vita che è fuggita,
la vita
se ne fotte, scorrendo per miliardi di esseri nuovi, fiume gonfio
inarrestabile.
La lotta passa attraverso i corpi accesi nella forza della
passione.
“Oh!, lungo il cammino delle generazioni, la luce!... che recede,
recede,
... opaca... dell’immutato divenire. Ma nei giorni, nelle anime,
quale
elaborante
speranza!... e l’astratta fede, la pertinace carità. Ogni
prassi
è un’immagine,... zendado, impresa, nel vento bandiera... La
luce, la
luce
recedeva... e l’impresa chiamava avanti, avanti, i suoi quartati: a
voler
raggiungere
il fuggitivo occidente... E dolorava il respiro delle
generazioni,
de semine in semen, di arme in arme. Fino allo incredibile
approdo.”
(C.E. Gadda, La cognizione del dolore, Einaudi, pp. 84-85).
A chi si
lascia spegnere non resta che il suo piagnucolare. Io, io, io.
“... Il
solo fatto che noi seguitiamo a proclamare... io, tu... con le
nostre
bocche screanzate... con la nostra avarizia di stitici predestinati
alla
putrescenza...
io, tu... questo solo fatto... io, tu... denuncia la bassezza
della comune dialettica... e ne certifica della nostra impotenza a
predicar
nulla di nulla,... dacché ignoriamo... il soggetto di ogni
proposizione
possibile...” (C.E. Gadda, op. cit., p. 124) Il cazzo piccolo,
la fica
frigida, il pene-clitoride, la famiglia assassina, gli amici
bastardi:
fosse andata altrimenti, si fosse potuto avere! E potessero
riuscire
a parlarsi: come vedrebbe quanto nessuno ha, come si è tutti
identici
nella deprivazione e nella “sventura”, come a ciascuno accade lo
stesso
mortificante gioco di tarocchi truccati, grazie al quale non uno
riesce
più a scorgere ciò che realmente vive, o potrebbe vivere
non appena sorreggessero
passione incarnata, desiderio concreto, volontà di
realizzarsi.
Contempla invece affamato le illustrazioni dello splendido
Altro,
immensamente profuso di tutto ciò che gli manca. A questo
almeno,
ed è
molto, gli amanti sanno brevemente scampare. Essi si guardano, dunque
sanno
vedersi.
Si desiderano, dunque si riconoscono. Si deludono, dunque
sanno che
cosa cercano. Si odiano, dunque sanno di non bastarsi.
Tramite
l’oggetto d’amore, sparita la complessità del mondo, l’amante
scorge
il fondo dell’essere, la semplicità dell’essere? Addomesticato al
feticismo
religioso, Bataille non distingue tra l’essere e il simbolo, la
“figura”.
È vero che la complessità del mondo — il labirinto in cui
indementisce
ognuno, perdendosi nella propria architettura — sparisce nella
contemplazione
dell’oggetto d’amore. Ma è, questo, l’istante e lo spazio
che coniuga
due mondi, il sito-tempo in cui simbolo e essere coesistono,
liturgia
e verità si combattono compresenti. È quando l’oggetto
d’amore
— il
feticcio
dell’essere — si fa trasparente fino a svelare d’essere una
via, un
movimento, una sovra-agnizione, un’iniziazione, quando perde la sua
opacità
d’oggetto e fascinazione di feticcio, che veramente l’amante
scorge,
non il fondo, ma il principio dell’essere possibile, e la sua
semplicità
luminosa e terribile. È in questo istante che l’amante conosce
la
gravità
dell’impresa, è ora che vede l’amore come conquista e
superamento,
come comunione al di là del sé, lotta per la vita, come
comunicazione
concreta e pragmatica del possibile, come insurrezione.
Gli amanti
corrono per mano verso un’acqua lustrale, esattamente come negli
shorts
pubblicitari verso un sale da bagno o una cocacola. Gli amanti si
accaniscono
a spillarsi l’uscita da sé, esattamente come nei coiti della
pornografia.
Ma nessun mercenario della regia riuscirà mai a profanare la
sacralità
di quella corsa, la solennità di quella lotta, per quanto si
incanaglisca
a dilapidarne le immagini, ad affogarle nel gorgo della
mercede
che lo strangola, fecale. In questo ogni immagine conserva una sua
innocenza:
nel potere resistente dell’evocazione, e al tempo stesso,
nell’evanescenza
manifesta della sua natura di simulacro.
Il
capitale
ha creduto di liquidare facilmente la resistenza millenaria dei
contenuti
radicali manifesti nella sacralità delle situazioni topiche. Non
ha potuto
che saccheggiarne l’iconografia. Sorprendentemente, neppure
questo
gli è riuscito senza danno. Schiacciata sotto i rulli delle
macchine da
stampa,
l’immagine dell’uomo futuro, racchiusa nella corporeità di ogni
essere,
è sempre capace di resuscitarsi. In un brivido, per un istante,
come per
equivoco, in un colpo d’occhio distratto, a tradimento, tra una
trivialità
e uno sbadiglio, tra l’una e l’altra parola del vuoto, un occhio
improvvisamente
ti fissa, un seno respira, una mano pulsa, un ventre trasale.
Un secondo sguardo non troverà che la patina della carta, la
lattescenza
dello schermo; uno slogan si precipiterà a suturare la
fêlure minima
aperta nella corteccia del cinismo d’obbligo. Non è accaduto
niente, e il
lutto
si rassicura: sei morto come sempre, in uno sterminato
campionario
di illustrazioni ferali. Ma non è mai vero del tutto, e lo
è sempre
meno. È tempo di invertire la prospettiva, di saper vedere
l’estrema fragilità
della catalessi imposta dal capitale. È tempo di capire che
l’ineroe
nihilista, questo egotista dell’autodistruzione e dell’annientamento,
ha i nervi a pezzi, e che persiste con crescente difficoltà.
Nessun ottimismo è lecito sulla facilità dell’impresa, ma
è tempo
di
non lasciare accidiosamente ingrassarsi il verme del pessimismo.
Se due
“persone”
non possono mai veramente congiungersi, ma soltanto vieppiù
separarsi, è dunque vero un altro proverbio della “realpolitik”,
secondo
il quale l’estasi dell’uno comprende necessariamente la
disillusione
dell’altro? Si tratta ancora una volta della consumazione di
un
sacrificio?
Da quando la schizofrenia è una condizione del sociale,
ciascuno
si guarda vivere sentendosi morire. Innanzitutto, chi è il
soggetto
reale: l’io che guarda? L’io che “agisce”? Alla soglia
dell’estasi,
uno dei due deve morire. È questo, il sacrificio necessario.
Ogni sortita
dal sé, è un’uccisione di sé.
A
trattenerci
dal soccombere è la medesima dimidiazione che ci trattiene
dal vivere:
due nemici mortali si guardano con reciproco terrore all’interno
della segreta dove il sé dubita senza fine. Sortirne, significa
sboccare
nella certezza. Uscire da sé significa conoscersi senza alcun
dubbio.
La fusione di cui parla Bataille, la fusione che ti fa individuo,
essere
indiviso, è innanzitutto la scomparsa sanguinosa dell’altro che
è in te.
L’amato
è la comparsa prodigiosa dell’altro fuori di te l’occasione
magica
di un rapporto reale. Ma come è questo, è anche la
“comparsa”,
in senso
teatrale,
di un alter-ego.
“Provami
che non esisti solo nella mia immaginazione”: ossia provami che
non sei
una figura di me. Perché se lo sei, devi morire. Nessuno
può tollerare
un altro sé, fuori di sé. Dunque è vero: “Nel
sacrificio
non c’è solo il
denudamento, ma c’è anche l’uccisione della vittima, o almeno
l’eliminazione,
il bruciamento di un oggetto inanimato.” (Ibid., p. 29).
Ecco:
l’oggetto
inanimato è la “cosa” che l’estasi sacrifica, e che
nell’estasi
scompare. Nell’estasi “muore” la morte. Non ho motivo, qui, di
inventariare
casistiche intorno alle combinazioni possibili. Sapere che
sono numerose
basta a spiegare perché l’estasi simultanea di due amanti
è un
evento
di difficile realizzazione. Occorre specificare che non si sta
parlando
di “orgasmo”?
Chi parla
di fusione estatica pensando che si tratti di sincronizzazione
degli orgasmi
può seguitare a credere che nelle rubriche dei sessuologi si
tratti
d’amore, ma chi d’altra parte ne parla come qualcosa che non
riguardi
il venirsi reciproco degli amanti, non sa di che cosa parla.
Si sta
dunque
parlando anche di orgasmo. Per quanto vi si trattiene di
pertinente
alla conquista della totalità, alla fusione unitaria, flusso
liberato
e dissequestro della corporeità. Tuttavia, Reich non ha avuta
tutta la
ragione. Solo una condizione storica di estrema miseria ha fatto
sì
che l’orgasmo apparisse come l’unica estasi possibile; ricorresse, nel
ciclo della
“raretè” come l’esclusivo riferimento concreto e corporeo alla
fusione
e alla conquista di una dimensione totalizzante. Ma è proprio
concretamente
che l’orgasmo si rivela come un valore sancito dalla penuria,
rispetto
al progetto di essere dal quale è pur vero che scaturisce. Come
ogni limite
o soglia, partecipa di due spazialità. Dalla segreta del
sé alla
totalità
del corpo, eppure non è un uscio che si apre, quanto uno
specchio
che fonde. Il prigioniero diviene re, un re nudo, ed è il vero
re; poiché
è nudo, non si può che riconoscerlo. Troppo brevemente.
Il
freddo annuncia
il ritorno degli incappucciati.
“La
vittima
muore, gli spettatori partecipano d’un elemento che ne rivela
la morte.”
(Ibid., p. 29) Ma sono loro, gli spettatori, sono essi i sicari.
Ognuno
conosce, nello strangolamento dell’ultimo e già remoto spasmo,
queste
presenze di esecutori. La fine dell’orgasmo è sempre
un’esecuzione capitale.
La testa cade nella cesta dei giocattoli, il recipiente da cui
sortirono
ab initio gli spettri del pavor nocturnus. Non finisce mai di
riprodursi
la medesima tragedia preverbale. Tutto qui? Soltanto a voler
essere
più realisti del re spodestato. Se Reich
redivivo vedesse la “liberazione sessuale” tremerebbe annientato
nell’angolo.
La vittima muore, dunque, e gli spettatori partecipano d’un
elemento
che ne rivela la morte. “Quest’elemento è ciò che potremmo
definire,
usando la terminologia cara agli storici delle religioni, il
sacro.
Il sacro è esattamente la totalità dell’essere rivelato a
coloro i quali,
nel corso di una cerimonia contemplano la morte di un essere
frammentario.”
(Ibid., pp. 29-30). Sappiamo chi sono, gli spettatori. Va
detto una
volta per tutte che non esistono in nessun luogo spettatori
innocenti
di uno spettacolo, ma sempre esecutori di un rito: liturgia,
sentenza,
linciaggio. Sempre è uno spettacolo di morte. Ancora sempre sono
tutti a
morire. E ognuno muore in atterrita solitudine, ucciso da tutti gli
altri.
Ogni morte solitaria è insieme un massacro, ogni massacro un
suicidio.
“Si
determina,
a causa della morte violenta, una rottura della frammentarietà
di un essere: ciò che sussiste e che nel silenzio che
sopravviene
provano gli spiriti ansiosi è la totalità dell’essere,
alla quale
è
ricondotta la vittima. Solo una messa a morte spettacolare, operata
in condizioni
a loro volta determinate dalla gravità e dalla
collettività della
religione,
è suscettibile di rivelare quel che di regola sfugge
all’attenzione.”
(Ibid., p. 30). Stiamo in guardia: attenzione a questo
insinuarsi
della negatività, attraverso l’ipnosi religiosa di Bataille.
Come ognuno
che veda remota nei cieli la terra promessa, ogni volta che
parla di
vita è un doganiere che riscuote il trapasso. Ma chi sono questi
“esseri”
assorti, “spiriti ansiosi”, e che totalità dell’essere provano,
cui è
“ricondotta” la vittima? Questa assise di carnefici, incadaveriti,
questa
orrida eucarestia del non-essere qui, per “essere” non-qui.
L’orgasmo
pone fine all’ansia, sentenziano i sessuologi, e la ragione che
possono
avere è quella sancita dagli incubi di maggioranze di frigidezze,
di
eiaculationes
precoces, cui l’ansia di giungere alla fine dell’ansia
strangola
in limine ogni decollo verso la potenza. L’ansia di questa assise
di morti
caccia ogni presente lontano dalla gioia. Essi sono, dunque, i
sicari
che presenziano l’uccisione di ogni estasi, essi gli esecutori.
Nessuno
ignora questo venire a morte nella spettacolarità, questo
lasciarci la pelle
al centro della piazza. “Mi fai morire”, dice, tentata a vivere,
la ragazza
che viene. Letto a due piazze, appunto. Lite di condannati.
Questo
soltanto?
Il corpo
è forte. La sua caparbietà. Il resuscitare inesausto
della
fame, non
è
qui una dialettica? La scherma magistrale del desiderio ne è una
lezione.
La sacralità del piacere: la promessa. Nessuno, si dice,
è
capace di
ricordare
la sensazione dell’orgasmo. Là dove si verifica la fusione
istantanea
di corpo e mente, la memoria brucia come una valvola. La memoria
è
il terminale dell’apparato che disgiunge il corporeo dal mentale. La
sensazione
dalla riflessione. È il custode vigilante del non-essere coatto.
La memoria
è la funzione del dimenticare, non del ricordare. Ogni censura,
ogni
rimozione,
ogni rimozione della censura, è opera della memoria. Ogni
oblio del
proprio senso. La memoria è il sigillo di garanzia del memento
mori. Il
sacro, questo apparire disparendo. Apparire dell’essere nella
sostanza,
disparire nella forma che la memoria cristallizza, per celarlo.
Per farlo
morto. Il senso vivo nascosto dalla forma che il senso morto
immobilizza
per occultarlo. Tutto questo “sesso” nel dominio apocalittico
del capitale.
Tutte queste forme denudate di cazzi e fiche. Come sognare,
ancora,
freudianamente, spade, scrigni? Rupi, polle? In tutto questo filo
spinato
di peli pubici. Sperma glacé, glandi tostati, ostii brasati, alla
mensa
ufficiali
dei cresimati. Questo il mio corpo, questo il mio sangue:
Vostro
Padre Capitale.
E tuttavia
davvero può essere il tuo corpo, il tuo sangue. Come sa la
trivellazione
vertiginosa dell’onania. Al di là dell’immagine, ancora la
freudiana
polla, lo scrigno. Nell’ombra della morte. Non sai se sta per
scomparire
o per incombere. Se sei stato per resuscitarti o per ucciderti.
L’acredine
della lotta si essica odorando. Te ne lavi le mani. Tornerà. Ti
inebrierai
di nuovo al sentore di te. Procederai galoppando. Immagini
dietro
immagini. Ma la folgorazione, lo spasmo e la delizia: irrevocaboli,
e
immediatamente
revocati. Quanto competente cinismo nell’iconografia patinata,
e brutale cognizione del dolore. E quanto simmetrico terrore
inane,
nell’iconoclastia sessuofobica dei gauchisti. Non voler vedere, non
voler sapere.
L’ideologia della polla, come l’ideologia della natura,
giusto
al momento storico in cui ogni polla schiuma di tossici, ogni natura
germoglia
profitto e spine. Attenzione, neoadamiti, la vipera è tornata.
Mai
così
cedevoli le vagine, e mai così immemori. La rosa mistica, il
bocciolo
promesso al di là della battaglia contro il drago. Ad esso
procedeva
il cavaliere inastato. Chi ricorda più questi sensi dell’incedere
sacro verso
il piacere quale conquista? Il principe che si suscita,
baciato,
dal rospo; la beltà dormiente nella foresta; la prigioniera della
torre e
la sua treccia... I miti fiabeschi ci mentivano, ma quale menzogna
è
più
disarmante della nudità scevra di magia? Questi corpi desolati.
Grami come
aree
edificabili. C’era più passione nel maniacale libertino che
collezionava
dessous, di quanta non se ne trovino in cuore questi trasognati
neoadamiti, nudi della nudità dei lager.
Almeno,
non se ne inorgoglissero. Covi, in taluni, la “morbosità”,
resista il
bilico
del “peccato”: qualcuno seguiti a sapere che la via attraversa
l’“inferno”,
se dall’inferno vuole uscire. I più timidi. Nel batticuore
dell’erezione
azzardosa, nella trepidazione della vagina difficoltosa. Guai
alle
slot-machine
dell’orgasmo, guai ai flipper dell’eiaculazione. Nessuno
restituirà
loro l’avventura e la conquista scialacquate. La dialettica è
nell’ambivalenza
dei desideri e dei terrori, nel porsi in dubbio del sangue,
nel negarsi-profondersi dei corpi. Ogni ritualità ha
oltrepassato, verso
l’interno,
i confini delle scorze, cortecce, epidermidi. La drammaturgia
è ormai viscerale. Un ciclo sta per concludersi: all’origine,
il corpo
sacrificato proiettò la pena della manque e la premonizione
dell’intierezza
su tutte le figure in cui il sacro prese forma; ormai
l’eclissi
del sacro preannunzia la sintesi dello scontro ultimativo,
conquistata
dalla corporeità prossima all’essere, al di là
dell’alienazione istintuale
e al di là della alienazione razionale. Hic Rhodus, hic salta.
Ma il piede
che si carica dello slancio conoscerà, prima di lasciare la
proda dello
Stige, la forza contenuta nella forma della sacralità: l’orma
profonda
del lunghissimo slancio, verso la conquista reale dell’essere
nella vita,
oltre. Tra gelo e febbre, sentiamo tutti che questo è un tempo
solenne.
Siamo noi gli assorti “spiriti ansiosi”, quando l’attesa è della
forza,
quando il sacrificio che si prepara è quello della morte. Siamo
noi i
sicari,
i giustizieri, finalmente i vendicatori: cerchiamo la gola, i
testicoli
della morte. Sono nostri l’urlo, il salto, il colpo che stronca o
eviscera,
dobbiamo rivendicarli. Corri, corri, spettacolo, alla tua morte
nel tuo
fine.
“L’esperienza
mistica legata a certi aspetti delle religioni positive, si
contrappone
a volte a quest’approvazione della morte fin dentro la vita, in
cui vedo
il senso profondo dell’erotismo. Ma la contrapposizione non è mai
necessità.
L’approvazione della vita fin dentro la morte è una sfida, e
ciò tanto
nell’erotismo
dei cuori che nell’erotismo dei corpi: una sfida alla
morte
lanciata
dall’indifferenza. La vita è accesso all’essere; se la vita
è
mortale, la totalità dell’essere non lo è. La vicinanza
della
totalità, l’ebbrezza
della totalità, domina la considerazione della morte. In primo
luogo,
il turbamento erotico immediato ci conferisce un sentimento che
supera
ogni altro, per cui le cupe prospettive connesse alla condizione
dell’essere
individuale cadono nell’oblio. Poi, al di là dell’ebbrezza
connessa
alla giovinezza, ci è dato il potere di contemplare la morte in
faccia,
e di scorgervi infine l’apertura alla totalità inintelligibile,
inconoscibile,
che è il segreto dell’erotismo, e di cui solo l’erotismo
possiede
la chiave.” (Ibid., pp. 31-2). Rifletta ciascuno da par suo di
fronte
a questa parole di Bataille. Ha al potenza ieratica di un esorcismo.
E ne ha
la debolezza terrorizzata. È la parola di un nemico, raccolto in
positura
di combattimento dinnanzi al varco che intende nascondere.
Immediatamente
al di là di questo servo-soldato di Cristo, si apre la via
per
comprendere,
per iniziare ad accedere. Sappia ciascuno vedere questa
figura
di guardiano, così vicino allo spazio della luce da esserne
compenetrato
e scolpito. Scelga ciascuno il punto dove colpire. Questa
parole
che esorcizza l’amore, questa figura illuminata del divieto alla
luce,
è
in ciascuno di noi (nei migliori dei casi). Facendola fuori, si
procede.
“Come ho
detto, l’erotismo appare ai miei occhi come quella condizione di
squilibrio
in cui l’essere pone se stesso in forse coscientemente. In un
certo senso,
l’essere si smarrisce oggettivamente, ma allora ecco che il
soggetto
si identifica con l’oggetto che si smarrisce. Se è necessario,
potrei
dire che, nell’erotismo, IO mi perdo.” (Ibid., p. 37). Certo: è
necessario.
Ma l’Io che si perde nell’erotismo, l’Io che tenta di perdersi,
è
forse il soggetto reale? E chi è colui che si identifica con
l’oggetto che
si
smarrisce? Quelle bataille! Chi vuole perdersi? Chi conquistarsi?
Liberarsi
dell’Io, questa è la battaglia. Perdere le proprie catene, corpi
di tutto
il mondo, di tutta la preistoria. In quel getto minimo? In cui il
cinismo
dei proverbi vuole ravvisare il pianto (omne animai post coitum
triste)?
Ma dov’è, dove è stato nascosto lo scatto, il golpe
dialettico
che rovescia
come una clessidra i termini del tempo, mentre l’impresa è in
corso,
e fa sì che più proceda, più torni sui suoi passi?
Il soggetto è colui che
conquistando l’estasi, realizza il potere di esserci. Colui che
si fonde,
coniugandosi con la totalità. Che importa, per un istante, se
tutto
oggettivamente
si raggruma in un poco di umore sparso, se di tanta vastità
e di tanto fulgore non resta che l’affanno di chi, ritrovandosi, si
sta perdendo?
Ma si sta perdendo: fu un istante. La continuità è il
non-essere,
il tempo di ferro e di carta del capitale, l’obbligazione
contratta
e che contrae, il Nome del Padre, l’affermazione della morte
continua
nella vita intermittente, l’Io tuo signore nella schiavitù
ignominiosa,
l’animale che si raggrinza, la pudenda che si imbavaglia, la
nevrosi
l’ossessione la paranoia la melanconia la ciclotimia: la diagnosi
che “spacca
il cuore della gnosi”. L’Io è colui che non può.
“Ma la
volontarietà
della perdita implicita nell’erotismo, è flagrante:
nessuno
penso ne dubiterà.” (Ibid., p. 37). Di questa certezza
indubitabile si
armarono
i divieti: che non si perdessero, gli IO miserabili, o il tempo
sarebbe
esploso. Sorsero le figure assorbenti dei numi. A dio, a dio! Ma
addio,
numi e dei: siamo al dunque. Più miserabili e più
sperduti
che mai, perché
così vicini alla perdita liberatoria dell’Io, così vicini
ad essere, corpi
fusi
nell’aurora della totalità. Come rideranno, i liberi, i
finalmente
uomini, della goffaggine d’ogni “signore”, essi che saranno la
signoria
e la conoscenza, la potenza creatrice e il fine manifesto.
“L’esperienza
conduce alla trasgressione compiuta, alla trasgressione
riuscita,
la quale, se mantiene la proibizione, la mantiene per trarne
piacere.
L’esperienza interna dell’erotismo richiede, da parte di colui che
la compie,
una sensibilità per l’angoscia che fonda il divieto altrettanto
grande
che per il desiderio che induce a infrangerlo. È questa
sensibilità religiosa,
che sempre lega strettamente desiderio e timore, piacere intenso
e angoscia.”
(Ibid., p. 45). Aufheben, ma degradato alla balbuzie della
coazione
a ripetere. Abbiamo covato impararlo — innorridendo — che le cose
(le “cose”
della sessualità, le miserabili cose) stanno anche così.
Ma per sapere
che non è solo così, saperlo con il furore eversivo del
corpo insorgente,
nella ribellione alla ratio livellatrice; saperlo nel sogno,
nell’incubo,
nello struggimento con cui sentiamo l’estasi abbandonarci,
l’essere
recedere, il volto amato, lo sguardo amato, ricoagularsi, la
vicinanza
allontanare, l’affermazione negare, la verità smentirsi, la
certezza
rovesciare lo stomaco del dubbio. Tutti inchiodati alla “macchina”
dove il
divieto s’incrocia col desiderio? Tutti appesi alla ruggine e alla
cancrena
di questa parodia della dialettica? Militari di Cristo, tenetevi
la vostra
squadra euclidea, i perpendicoli retti, da sempre la croce
ortogonale
sbarra la curvatura degli spazi. Chi può soffrire l’angustia di
questa
ragioneria, come ridurre l’onore del vero a questa equivalenza da
bottegai
francesi? La “sensibilità religiosa”: ma può religare
davvero
qualcuno
a un tariffario siffatto dell’Eros? Certo, essere è
trasgressione: spezzatura
dell’ingorgo, dell’occlusione. Ma l’infrazione-effrazione,
l’uscita
dalla prigione del sé, la perdita volontaria dell’Io, l’accesso
battagliato
all’essere, l’uccisione dello sbirro negatore, l’insurrezione,
la sortita:
a che varrebbero, se non immettessero immediatamente in una
dimensione
inequivalente, se non annientassero d’un colpo ogni ratio
compulsiva,
se non cancellassero ogni misura (se non smisurassero), se non
irrompessero
nella totalità, oltre ogni limite, ogni meccanica causale ed
ogni suo
sistema, ogni bilanciamento speculare, ogni nozione di ritorno, di
ricaduta,
di ripetizione, di riciclazione, di identità, di contrari? Se non
introducessero
alla dimensione sovra-preistorica del processo, se non
rivelassero
il senso unitario dell’incedere, se non dimostrassero lo
splendore,
irriconducibile a qualsiasi pretio, dell’individuo totale,
inequivalente,
l’individuo-mondo, l’essere invisibile dalla “mondanità”
degli
“individui”
dimidiati?
Come il
don Juan Yaqui di Castaneda (C. Castaneda, A scuola dallo stregone,
Astrolabio),
Bataille non vede la grandiosità di ciò di cui parla e di
ciò che
sperimenta,
ma vede la regola: il senso del procedere s’acceca così al
suo stesso
fine, proiettando innanzi a sé, per non vedersi, l’immagine
speculare
della liturgia donde prese avvio, nella mondanità ormai remota (e
così
restituendosi, religato, alle ceneri da cui era sortito).
Coerentemente,
Bataille procede, nel campo minato dell’erotismo, affermando
di cercarvi
ciò che asserisce d’essersi lasciato alle spalle: lo
spiritualismo,
la religione. Procede infatti in un’armatura di crociato.
Non mente,
e torna a suo onore. Nessuno che sia radicale (che abbia attinto
alle radici
del dramma, disfacendosi di ogni psicodramma) consente senza
porsi in
guardia a un uso neutrale della parola religione. Esca Ulisse dal
cavallo
di Troia, lo riconosciamo all’odore. Scopra il volto, respiri lo
zolfo,
affronti il rischio della lacerazione a ogni passo. Ogni astuzia
è denudata
per sempre.
“L’esperienza
interna dell’uomo ha luogo nel momento in cui, rompendo la
crisalide,
l’uomo ha coscienza di infrangere se stesso, non già la
resistenza
oppostagli dall’ambiente esterno. Il superamento della coscienza
oggettiva,
che delimitava le pareti della crisalide, è legato appunto a
questo
rovesciamento.” (Bataille, op. cit., p. 46). Ab initio, la
resistenza
non è dell’ambiente esterno, ma dell’oggettività
interiorizzata, della regola
che ti commette implacabilmente in una costellazione oggettiva,
separandoti innanzitutto da te, e facendo sì che ti “senti” e ti
“guardi”
come l’altro che sei tu. L’ambiente esterno, nel vissuto, viene
dopo:
è
la catena (la concatenazione) causale, la “machina” (per chi vi si
appende,
la croce), il “dato” (cui sei dato, consegnato), lo pseudo-destino. Se ciascuno
non fosse innanzitutto prodotto come il prigioniero nella
crisalide
— la larva dell’essere denegato, la larva che deve e non può, la
“larva
d’uomo”, seme del futuro detto non tuo, seme dell’al di là
mediato
dalla morte,
seme del valore vigente nel disvalore — nessun “ambiente
esterno”
riprodurrebbe, per un istante di più la regola del divieto.
Inutile
cercare, nella catena causale, il punto d’origine: il pensiero
lineare
semplicemente non può rendersi conto delle strategie del
processo, in
quanto
ne è il divieto prodotto a percepirle. La dialettica, sa intuire
il processo,
la sua dinamica ciclica, il gioco delle interazioni e delle
retroazioni.
Non qui intendo parlare di ciò. Ogni bambino sa, d’altronde,
di che
parlo: ogni bambino ucciso che resiste a spiegarsi nei sogni,
rifacendosi
strenuamente al principio, che è il principio della sua fine
d’uomo.
Si nasce alla morte, questa è la “vita”, questa la catena
micidiale dei
giorni,
la quotidianità del non-essere. L’introibo è il
sacrificio
di sé.
La continuità il lutto di sé. L’intermittenza dell’essere,
l’insurrezione,
la resistenza, la vera guerra civile, all’interno del
palazzo
dell’Io. Nessun Io gode nessun piacere. Al piacere — sintomo
dell’essere
— l’Io è sempre l’altro. Nessuna liturgia, nessun cerimoniale
schiude
all’Io l’accesso della gloria, nulla introduce il nulla nella
totalità
manifesta. “Esteriorità” e “interiorità” collimano nella
scorza riflettente
della crisalide, corteccia e corpo straniato. Il piacere, la
gioia,
la gloria dell’essere, negazione della negazione, affermazione della
soggettività
denegata, spezzano in un solo movimento i sigilli alla cella
della
corporeità,
le mura dell’edifizio-Io e le porte del Palazzo d’Inverno
la regola
interiorizzata e la legge, sua caricatura; il Nome del Padre e
l’icona
di dio; il forziere dei pubblici segreti e il tabernacolo delle
banalità
più esclusive. C’è ben altro nella dialettica reale, di
quanto
lo speziale
Bataille voglia far intendere, con le sue equazioni e valenze
derisorie,
nihilista coerentemente cristiano.
Per
Bataille,
dall’Australopiteco all’Homo faber, dall’Homo faber all’Homo
sapiens,
il farsi della specie coincide con il rifiuto della violenza
(cfr.,
in op. cit., il capitolo II, Il divieto e la morte, pp. 47-56),
rifiuto
terrorizzato e fascinazione solenne insieme. Che la specie sui
generis
degli uomini si fondi su un inaudito rimando della vita, e che
immediatamente
la violenza stia a realizzarlo nel sistema più
pragmaticamente
annientatore mai conosciuto nel regno animale, il crociato
non sospetta.
Resta da intendere come possa, a partire dal rifiuto della
morte,
capire quale enigmatico rovesciamento presieda al divieto d’essere,
da cui
per trasgressione procede a suo dire esclusivamente ogni incedere
nell’estasi.
La violenza perpetrata contro la soggettività totale (e
totalmente
fusa nella presenza corporea) dell’infante, non è forse
l’evidenza
più certa di una devozione al non-essere che coniuga
immediatamente
ogni sussistenza alla perdita del sé totale, della presenza
corporea,
alla morte, la morte-in-vita, mentre, e nella medesima stasi (il
raffrenamento
coatto di ogni incedere), proprio nella morte si indica con
tutta
l’enfasi
della religione necrofora l’estremo passo che immette alla
totalità,
alla comunità cherubica degli scorporati?
L’evidenza
dispiace a chi non ha l’animo di affrontare davvero la bataille.
Ciò
che il raccapriccio per il cadavere suggerisce ai vivi, è la
colpa dell’uccisione
continuata di cui sono vittime e correi, nella violenza
biofoba
della “vita” quotidiana, nell’“ordine” del lavoro penitente,
produttore
del tempo nato perso e degli spazi delineati dalla carcerazione.
Le salme
che la specie comincia e non finisce più di seppellire sono la
testimonianza
insopportabile di quanto i vivi seppelliscono ogni giorno in
sé:
di quanto resta di ogni “vita” erogata, salma-statua eloquente del
tempo
perduto.
Qui sì, “funziona” una facile simmetria; qui l’allegoria ha
l’evidenza
di un materialismo storico innestato direttamente sulle braci
inconsumabili
dell’istintualità, sotterrata ma persitente: sulla sapienza
sotterranea
della corporietà che matura il suo lungo salto al di là
dell’“animalità”
e della “civiltà” insieme.
Perché
non sia più una necropoli, occorre che la comunità umana
cessi di identificarsi
con i “suoi” morti. Che la colpa di non-essere venga inumata
con essi
nella fine della preistoria, nella fine del tempo di produzione.
La
corporeità
enigmatica della salma, vista dall’orrore di sussistere
scorporati,
alienati alla presenza in-stante, fu la figura di dio, l’idolo
archetipo.
Il terrore fu di chi restava, abbandonato al sopravvivere. Del
quale
guardava
il senso freddato, irrevocabile.
Parte II
[Premessa.
La « famiglia » è uno strumento di produzione,
storicamente
delimitato, della soggettività fittizia. Una superficiale
conoscenza
della storia basta a rivelarla come una funzione accessoria e di
secondo
grado, rispetto alla produzione originaria dell'alienazione della
soggettività
reale alla « persona (maschera) sociale », produzione
radicata
a partire dalla creazione dell'utensile?linguaggio, in cui la specie
realizzò
materialmente l'inizio del movimento che la separò dalla
condizione
animale. La costellazione familiare è dunque già un
prodotto
culturale. I1 suo apparire, ai sensi stessi, come l'origine e la
cosmogonia,
procede direttamente dalla lacunosità dell'immaginazione
alienata.
I1 superamento dell'alienazione non consisterà semplicemente
nell'abolizione
della famiglia, ma nella capacità conquistata di damistificarne
la tenacissima opacità di feticcio dell'origine apparente. Qui e
oggi, la lotta è ancora, ancora per poco, contro il potere della
sua seduzione all'annientamento.]
I1 desiderio
di superare la miseria della coppia è un'evidenza che emerge non
appena inevitabilmente ogni coppia si aliena dalla cognizione
dialetticamente
vissuta dell'estasi, quanto basta a riprecipitare ciascuno dei suoi
componenti
nel vuoto problematico del suo a sé ». Non altrimenti da
come
la caduta individuale nel carcere della presenza alienata al suo senso,
coincide sempre con una restaurazione storicamente imposta
dell'architettura
dell'Io, (il « sopravviversi », dopo un movimento vitale,
esprime
sempre l'alternativa reale della sua ambiguità sensibile: la
presenza
come suicidio immanente e come premessa a ulteriori movimenti vitali),
il serrarsi della clausura « nuziale » attorno agli amanti,
che con tanta efficacia, mostrandoli come un « pieno plastico
»,
li svuota di ogni sostanza, è un prodotto automatico della
macchina
sociale: nessuno può sperare di sfuggirvi definitivamente senza
che sia stata prima distrutta la macchina, definitivamente.
Illudersi
di superare la miseria claustrofobica della coppia aprendo l’« in
sé » della coppia come un barattolo, e aprendolo dal
basso,
significa accontentarsi dello sgorgare melanconico di qualche liquido
seminale,
per svenderlo al primo acquirente come l'elisir della gioia
socializzata.
Non c'è coppia che possa resistere alla clausura del suo «
in sé ». O vi muoiono entrambi i componenti, divenuti
oggetti
del vincolo che li contrae alla necrosi, o vi impazzisce almeno il meno
morto, dando mano allo strumentario del sacrificio fallico, più
o meno metaforicamente. A ragione Cooper afferma che prima di amare un
altro, ciascuno deve riuscire ad amare se stesso. Ma, dell'impresa di
amare,
fa un torto, quando, da questa banalità di base, estrapola
un'apologia
della separazione che ne liquida in limine ogni senso ìdi
superamento
dialettico.
«
Tutto ciò che dobbiamo fare è sperimentare quanto
più
completamente possibile un amore estatico in una completa separazione.
» (Cooper, op. cit., p. 118). « Nel secondo capitolo di
questo
libro ho definito l'amore come basato su un'azione corretta tesa a
stabilire
una separazione. » (Ibid., p. 107). Il passo più
rivelatore
in questo senso, contenuto nel secondo capitolo è il seguente:
«
Il consueto stato di cose è che l'Io bráncola vacillando
nel mondo familiare che è sia dentro che fuori della sua mente,
e poi entra incespicando nel mondo che è al di fuori della sua
famiglia.
Trova che questo mondo cerca di essere il più possibile simile
al
mondo familiare che ha precedentemente conosciuto, proprio come il
mondo
familiare cercava di uniformarsi il più possibile al mondo
esterno.
Sembra che non ci sia alcuna differenza degna di nota tra i due, a meno
che l'Io, l'individuo, non sia capace di inventare questa differenza.
Se
l'individuo si rende conto di questo, che in realtà l'essenza
dell'essere
una persona noiosa consiste nel non aver oltrepassato con
l'immaginazione
per lo meno, i limiti orizzontali della propria famiglia, e nel
ripetere
o colludere con ripetizioni di questo sistema restrittivo al di fuori
della
famiglia; che, in breve, essere una persona noiosa significa essere
membro
di una famiglia, trovare la preminenza della 'loro’ esistenza nel
riflesso
dello specchio anziché in ciò che vi si ridette; allora
l'individuo
può ritornare dove era partito e cercare di incontrare se
stesso,
corteggiare se stesso, e sposare se stesso. [Segue schema topografico.]
Naturalmente quando l'individuo ritorna al suo Io la sua visione
è
distorta da una serie di rifrazioni attraverso gli altri prima al di
fuori
e poi all'interno della famiglia, e, sempre attraverso gli altri,
all'interno
come all'esterno della sua mente (sempre accompagnata dalla percezione
di una differenza se non da una determinante consapevolezza). Infine,
tuttavia,
quando questo progetto è stato portato a termine, l'Io incontra
se stesso in un deserto mondo interiore - tutti gli
altri sono
avvizziti per le irradiazioni del suo spirito, ed egli vaga da solo nel
deserto, trovando sostentamento nella pietra che succhia e nella cenere
che assorbono i pori della sua pelle. Poi, se vorrà un'oasi,
costruirà
una tra le collinette della sua sabbia con le lacrime che versa. Allora
potrà invitare un'altra persona a raggiungerlo per trovare in
lei
sostegno e per fornirglielo. Ma rimarrà sempre nel deserto
perché
questa è la sua libertà. Se un giorno non avrà
più
bisogno della sua libertà, allora anche questa sarà la
sua
libertà. Ma in ogni caso il deserto rimane ». (Ibid., pp.
41? 42).
La superficialità
tutta mondana di Cooper - in confronto al quale la feroce ideologia del
profondo di Lacan appare come l'alta statura di una maîtrise
monumentale
- si tradisce nella frivolezza dei termini di cui fa uso: « Se
l'individuo
si rende conto di questo, che in realtà l'essenza dell'essere
una
persona noiosa... »; « in breve, essere una persona noiosa
cignifica essere membro di una famiglia, trovare la preminenza della
'loro’
esistenza nel rifesso dello specchio anziché in ciò che
vi
si riflette; allora l'individuo può ritornare dove era partito e
cercare di incontrare se stesso, corteggiare se stesso, e sposare se
stesso.
» Lo specchio, in simile contesto, non è quello tragico e
lampeggiante di Lacan. E’ proprio lo specchio del salotto?comune, dove
un Io così privo di immaginazione da sentirsi « individuo
» (essere indiviso) può cogliersi in tutto e per tutto
come
« persona noiosa », e in questa lussazione della presenza
pensare
che la colpa sia tutta di papà e mamma, interiorizzati al punto
che lo specchio li rimanda in primo piano, anziché riflettere la
desolazione, assai più tragica, del salotto?comune in cui lo
psicodramma
ha il suo luogo « naturale ». Non può meravigliare
che
quest'Io, ritornato donde era partito a cercare di incontrare se
stesso,
non trovi che la
consolazione
di « corteggiare » se stesso e a sposare » se stesso.
Né meraviglia il fatto che « quando questo progetto
è
stato portato a termine, l'IO incontra se stesso in un deserto
interiore
- tutti gli altri sono avvizziti per le irradiazioni del suo spirito
[lo
'spirito' doveva pure tradirsi, onnipresente com'è in ogni
psicagogia],
ed egli vaga da solo nel deserto trovando sostentamento nella pietra
che
succhia e nella cenere che assorbono i pori della sua pelle. Poi, se
vorrà
un'oasi, ne costruirà una tra le collinette della sua sabbia con
le lacrime che versa. Allora potrà invitare un'altra persona,
ecc.
». Questo deserto da turismo del malessere, non poteva finire che
con un « invito ». Tuttavia « l'Io rimarrà
sempre
nel suo deserto perché questa è la sua libertà. Se
un giorno non avrà più bisogno della sua libertà,
allora anche questo sarà la sua libertà. Ma in ogni caso
il deserto rimane ». E’ tempo che ciascuno si assuma le
responsabilità
del « materialismo» delle metafore e delle immagini di cui
fa uso. Al linguaggio è dovuto questo riconoscimento di
verosimiglianza
concreta, oltreché un doveroso scavo nelle sue stratificazioni
archeologiche.
Dietro il deserto « turistico », c'è la spiaggia
infantile,
ma dietro e « sopra » entrambe c'è la più
seria
e consapevole reviviscenza dell'anacoreti, dell'ascetismo religioso. Il
film neo?cristiano si scenneggia secondo queste sequenze: ai tremori
dell'io,
della persona « noiosa » (dove l'attenzione è
puntata
sul fatto che risulta annoiante, piuttosto che al fatto di come e
perché
si annoi), dell'individuo, significativamente indicati come sinonimi
(nel
« nome del padre », tutti i figli sono alter ego), fa,
nello
specchio, da sfondo l'incombente coppia parentale dei fornicatori
castratori,
in una prospettiva che conduce, attraverso l'uscio schiuso della casa
paterna,
a scorci di un paesaggio di stato disposti a svelarsi come la collusiva
e ripetitiva dilatazione di quell'interno familiare. Che fare?
Imboccare
incespicando quell'uscio, beninteso attraversando lo specchio.
Verificato
che tra « esterno » (in senso filmico) e « interno
»
non vi sono differenze degne di nota - « a meno che l'Io,
l'individuo,
non sia in
grado di
inventarne qualcuna » - l'Io?individuo?persona?noiosa torna a
casa
a cercarsi, si trova, si corteggia, e si sposa con se stesso. Avvengono
naturalmente distorsioni visive e rifrazioni attraverso gli altri,
secondo
il canone psichedelico. A questo punto, il protagonista si trova nel
deserto
- gli altri sono avvizziti, per quei fiori che erano, irradiati dallo
spirito,
evidentemente santo, dell'eroe - e di fatto l'Io é l'anacoreta
che
sopravvive prodigiosamente in modo fachiresco. E’ in grado, se vuole,
di
costruirsi un'oasi fra le collinette della sua sabbia con le proprie
lacrime.
E’ in facoltà di invitare un'altra persona a raggiungerlo per
trovare
in lei sostegno, e per fornirglielo. Ma il deserto è
irreversibilmente
la sua libertà. A meno che non senta di non averne bisogno, il
che
costituirà una libertà di secondo grado. Comunque, il
deserto
rimane il luogo sacro all'amento. E tutto.
«
Al di là della distruzione futura, che ricadrà
pesantemente
sull'essere quale io sono oggi, che ancora si aspetta di essere, il cui
senso anzi, piuttosto che quello di essere, è quello di
attendere
di essere (quasi che non fossi la presenza che sono, ma l'avvenire del
quale sono in attesa e che tuttavia non sono), la morte
annuncerà
il mio ritorno alla purulenza della vita. Così posso presentire
(e vivere nell'attesa) quella purulenza moltiplicata che, per
anticipazione,
celebra in me il trionfo della nausea. » (Bataille, op. cit., p.
65). Assolutamente geniale, questa proposizione erompe inattesa dalle
pagine
in cui Bataille rimastica il bolo indigeribile dell'equivalenza tra
interdizione
alla violenza e interdizione all'erotismo. E’ qui che pronuncia il suo
proprio oracolo, qui trae somme che non sono d'evasione fiscale.
L'essere
che ancora si aspetta di essere, il cui senso anzi, piuttosto che
quello
di essere, è quello di attendere di essere (quasi che non fossi
la presenza che sono, ma l'avvenire del quale sono in attesa, e che
tuttavia
non sono): costui è l'Io fallimentare che vive di credito,
erogando
la propria presenza devalorizzata al riscatto di una riscossione sempre
fuggente - come non vedere, in sintesi, nel flash mirabile,
l'autoritratto
del cristiano e l'identikit del capitale fittizio? - finché
«
la morte, annunciando il mio ritorno alla purulenza della vita »,
rende così possibile « presentire (e vivere nell'attesa)
quella
purulenza moltiplicata che, per anticipazione, celebra in me il trionfo
della nausea. » Ecco che cosa, orripilato, seppellisci. La vita
pullulante
dei vermi, dalla dissoluzione del tuo corpo, ti appare melanconicamente
come l'irrisione oscena a tanto perdurare in aspettativa, cumulando
meriti
valorizzati dai dubbi. (Cfr. passo successivo, Ibid., p. 65).
Eccola,
la vita, brulicare quando l'Io è dileguato. Miserere nobis. In
hoc
siano. Sic transit. Il disordine ferino, o il brulicare purulento:
contro
questo, 1'ordine, la regola. Per non vedere, in quel transire di
animali
in vita, la coerenza impietosa ma rigorosa del bigs, il limine da
superare
traversando, vincendo angustia e orrore, l'ordine insufficiente
all'agognata
signoria di se, cui opporre, in un lungo corso di messe a prova,
sanguinose
e temerarie architetture di disordine, verso la sortita al sommo
nell'ordine
superiore della coerenza totale conquistata. Ma la ratio, la
produzione,
il valore, l'accumulazione, la signoria edificata sulla povertà,
le miserabilia: questo è il disordine. Il dominio del morto sul
vivo. La prigionia del desiderio, la schiavitù del bisogno
stravolto,
l'orribile storpiatura degli infanti, la legge della rapina, del
sacrificio,
dell'assassinio, la guerra, l'orrore dell'umiliazione e della menzogna:
questo destino generalizzato di violento disordine, di violazioni alla
coerenza organica, questa Fabrica contro natura di biopatie.
«
Troppo spesso dimentichiamo gli sforzi che abbiamo dovuto compiere per
imporre ai nostri figli le avversioni che ci hanno costituito quali
uomini
». « I nostri figli non partecipano nelle nostre reazioni
da
soli, spontaneamente. Possono provare avversione un alimento, e lo
rifiuteranno:
ma dobbiamo insegnare loro, mediante una precisa mimica, e se occorre
mediante
la violenza, quella strana aberrazione che è il disgusto,
aberrazione
che ci tocca al punto di esserne sconvolti e il cui contagio ci
è
stato trasmesso dai primi uomini, attraverso innumerevoli generazioni
di
bambini sgridati. » (Ibid., p. 66). L'oscenità degli
organi
genitali. « Inter faeces et urinam nascimur. » Di tutti
questi
sacri. e imposti disgusti, ne sanno qualcosa le meretrici.
Come piangono,
gli « uomini », nel gorgoglio del piscio chiamando la
mamma.
Come si allattano all'orifizio. Ma ormai, è cosa pubblica: i
produttori
del vizio surgelato in rappresentazioni (che più sacre di
così
mai ne ha vedute il mondo) hanno saccheggiato tutti i Kraft?Ebing gli
archivi
di polizia criminale i confessionali, gli schedari degli psichiatri; ed
eccole, le « vergogne », fotografate a colori, patinate,
ecco
in controluce il rivolo quasi georgico di piscio, fin nel bacile di
plastica,
eccola la nascita prodigiosa dello stronzo, nel caramello della
ceramica
e del nylon. Dov'è più la nausea? Cosa ne vanno facendo
del
mistero, del divieto, che messa celebrano questi pii maîtres?
Run,
run show! Al cinema accanto, teste volano in un bengala di sangue, mani
di principesse strappano, in un sol gesto gratiae placnum, stomaci,
fegati,
quindi si leccano le dita con lingue rosee, di gattino. Le stesse, sui
glandi. I rivoli di sangue e sperma convergono. Proiettate, proiettate,
qualcosa ne rimarrà. Persuasi di giocare con la sacra merda
(feci?oro),
giocano col fuoco. Che cosa vanno imparando i figli di questi fedeli
della
nuova messa spettacolare? Dove troveranno la forza del disgusto? In
nessun
luogo: è finita, sta finendo, la regola del divieto. E’
cominciata,
sta cominciando, la coerenza del voler vedere. I1 sesso è il
sesso,
la morte la morte. I1 processo, doppiato un limine, avanza a ritroso.
Dalla
rappresentazione verso la nuova verità. Nel tempo enormemente
dilatato
del pornoshow ciascuno scopre di assistere alla tortura di tutta la
propria
« vita », inchiodato alla sedia della sua perpetua astanza
finalmente rivelata.
La scoperta
della dissacrazione introduce lentamente ai contenuti celati dietro le
figure fittizie della sacralità. Nel momento storico in cui
tutto
trapassa nel mercato, l'anticipazione del vero che ivi sta caricandosi
la trovi sul banco del mercato. I1 capitale, divelta ogni
ambiguità,
gioca di planimetrie, stampa ogni sorte in piano. Sbudella, spreme
fuori,
spiaccica, pressa. Ogni « vita » è un imbuto che
scodella
il terrorizzato « figlio » in quel deserto, in quella
piattitudine.
Ma pur sotto i colpi quotidiani del maglio, pur nella pressione
rotativa
della continuità, i corpi ritrovano spessore. Solo le cose
restano
quello che erano: simulacri di falsa dimensionalità. Squartata,
spiaccicata, dissezionata, esibita, la miseria di essere solo
così
si impara. Niente è più efficace della contiguità
manifesta. Niente fa scattare più rapidi nessi e sintesi delle
analogie
disvelate. Crollano a perdifiato quinte, scenari; si eviscerano i sogni
e le memorie più segrete; e doppi fondi, collette, scantinati,
passaggi
segreti, cantine, soffitte, cessi, sgabuzzini, sottoscala, collette,
cabine,
biscanti, vialetti, androni, angoli di giardini, forre, cespugli, dune,
tutto è come da una potenza centripeta risucchiato sul posto,
violentemente
convocato, strappato alla memoria, dissacrato, disvelato, estirpato
dall'unicità,
dall'angosciosa prelibatezza garantita
dall'unicità,
e qui pubblicato, rovinosamente, impudentemente. E’ fatta violenza
indicibile
al più violento dei « sentimenti »: la vergogna di
sé.
Non dico sia questo il migliore dei modi di procedere, dico che
è
il modo storico, concreto, materiale, con cui la logica del profitto
attinge
alla banalità terribile della prigionia e del dolore, e dico
fermamente
che non poteva esimersene, e che ne pagherà le conseguenze.
I1 dissequestro
della sessualità operato dal capitale non poteva non avere
questo
aspetto di stupro glaciale. Non poteva che rivelarsi devastante e
ammorbante.
Ma perché tale era la materia. La fedeltà obbiettivante
è
indiscutibile. E’ proprio questa fedeltà, che agghiaccia e
violenta.
E’ questo « no, no » di disconoscimento, questo assistere
irrigiditi
come condannati ad ascoltare la diagnosi, che dimostra l'onestà
paradossale dell'operazione. « E’ altrimenti, è di
più,
è di meno »: non è mai vero. E’così. La
materia:
è questa. Ed è bene che si veda, in tutta la sua «
miseria » e « ricchezza » insieme, stampate in piano.
Certo che c'era di più. Anche nel culto dei morti c'è di
più che la morte. Ma è tempo che finalmente si saper pia:
la prigionia è fra quelle figure del lutto e dell'angosciosa
deprivazione.
Quanto manca, è venuta l'ora di conquistarlo altrimenti che nel
cullarsi nel culto vergognoso del sogno proibito.
Guardino,
i radicali, tutto il campionario. Vi riconoscano la propria debolezza e
i punti di partenza dei propri desideri. Ve li troveranno, l'una e gli
altri. Ma guardino senza tremare. Niente sogghigni, niente tentazioni
di
classificazione. Al di là dell'ira, della vergogna, del
disprezzo;
dell'estetica, del « buon gusto », della mistificazione. La
collera è un'altra da quella che fa stornare lo sguardo. La
collera
scenda a far luce negli scantinati. Si trovi, la collera, si riconosca.
Riporti su il bambino che frigna. Su, alla faccia, su, agli occhi. Su a
vendicarsi e vendicare. Su, a dire il vero, finalmente.
Seme e sangue
confluiscono. I1 morto attizza la nostra colpa e incarna eloquentemente
il nostro credito; il vivomorto sequestra nella torre?teatro dell'Io la
chiave dell'estasi. Sentiamo tutti di avviarci verso una resa dei conti
orgiastica, verso uno spasmo dei destini che è esecuzione e
liberazione.
I1 morto che fu dio, perché il vivo s'impietrisse, nell'attesa
di
un proprio amento, finché morte non ne svelasse la scaduta
illusione.
Ma il morto di oggi, dissacrata ogni traccia del procedere, al terminal
nihilista del progressismo, disvelata ogni orma d'onore dai Verbi
spesi,
il morto di giornata, la salma quotidiana gravida di tutti i sensi
morti,
chi è, se non la « machina », l'ordigno in noi
interiorizzato,
che si ricarica di noi, il capitale giunto alla sua putredine? E che
può
fare ormai' se non ostentarsi, potente solo della sua sterminata
oscenità
e barbarie, della sua incredibile (e perciò non creduta e non
vista,
non ancora intiera) banalità spalancata, immane vuoto a perdere,
a fronte di millenni di dolori. Spalancarsi, indicarsi come il gorgo,
il
vuoto, la fine. Rivelarsi. Prodursi come sbigottimento, e
inanità.
Come il trionfo dell'impotenza maniacata. Di questo sono vuoti anche
gli
occhi degli angeli, i militari disarmati del « Beautiful People
»..
La distruzione
realizzata dal capitale è irreparabile. Niente di ciò che
esso ha devastato né può né deve essere
restaurato.
Tutto si troverà, cercandosi. Ma perché possa farlo,
occorre
che il senso di tutto il cammino preistorico si ricapitoli nella
cognizione
della manque. Ciò che ci manca, indica la via. Le mutilazioni
sono
i segni. Nessuna pacificazione col presente è possibile. Coloro
che osano amarsi, scoprono il labirinto in cui si addentrano. Tutto
ciò
che un momento di vero conquista, un momento di incertezza revoca, un
momento
di viltà capovolge. « Prendersi » è una sfida
continua alla perdita: di sì pietra desertica dell'altro,
dell'altro
nel gorgo paludoso di sé. L'amplesso, è un duello tra
pieno
e vuoto, e non certo nel senso codardo della virilità fallica e
della femminilità awiluppante. Ben altra la dialettica!
«
La falsa coscienza... emblematica di quel segreto patto suicida stretto
dal nucleo familiare borghese, quel nucleo che si autodefinisce
'famiglia
felice'. » (Cooper, op. cit., p. 9): Già non più.
Da
quando l'autocritica è il bisturi castratore del terrorismo
terapeutico,
l'autodefinizione è, senza equivoci apparenti, di «
famiglia
infelice », affinché con l'infelicità gli
ergastolani,
identificando la propria genesi con quella delle loro catene, sempre
più
si familiarizzino. La via dell'ospedalizzazion~§e generalizzata
procede
da questo capolinea: la costellazione della genesi diventa sigla, e
sintesi
liquidatoria, del periplo infernale. A morte quei dubbi astronauti
dell'estasi
dai cui orgasmi, se mai ci furono, precipitò l'extraterrestre
nella
culla di Procuste. La luna era di fiele. Purché si inumi
più
profondamente nell'oblio colui che era pur nato. I1 vivo, finalmente,
prende
il luogo del Morto, del Sacrificato, da quando siamo tutti popolo di
crocefissi.
I1 dubbio ortogonale alla disperazione: questa la croce.
«
Che la morte sia anche la giovinezza del mondo, ecco un'affermazione
che
l'umanità è concorde nel respingere. A occhi bendati, ci
rifiutiamo di vedere che soltanto la morte assicura senza posa un
rinnovamento,
in mancanza del quale la vita declinerebbe. » (Bataille, op.
cit.,
p. 67.) Ed è il contrario che si è avverato. E’ l'aver
visto
la morte sopra tutto, la morte come fine, è questo che ha
vibrato
gli uomini, in un movimento non di ripulsa e di fuga, ma di aggressione
armata, di volontà di superamento. Insinuando nei quali,
certamente,
l'orrore, il contrappeso dialettico, il « prezzo ». Ma
orrore
essenzialmente del limite, indicato senza posa dalla prigionia d'ogni
animale
nella sua identità di dipendenza; dipendenza dall'habitat, dalla
sua « natura » e struttura, dagli stereotipi istintuali,
dalla
cecità dei somatismi. Questo era, ed è, avere la morte
come
destino. Questa economia stretta, avara, che avviliva la pienezza del
senso
istante, questa prigionia nella termodinamica della sussistenza, degli
estri riproduttivi, dell'orizzonte metabolico. Questa pochezza della
vita,
questa imperfezione del bigs. Questo essere nel processo, ma cieco alla
totalità del processo. Questo sotto?essere, sussistere in un
sotto?insieme.
Questa coerenza miniata al sussistere, ignara della generalità
delle
coerenze. Questa istintualità accecata ai propri limiti. Le
mutazioni
della vita, sintesi eloquenti della dialettica reale in atto tra
invarianza
e teleonomia, marcano una differenza qualitativa che assegna alla morte
il ruolo di zero (anche in senso aritmetico: di moltiplicatore e di
riduttore).
I1 livello di organizzazione è il segno del senso vivo. La
complessità:
la ricchezza. Anche (e soprattutto) materialmente: habitat (Umwelt)
più
vasto, attività più articolata, con?prensione. Come
confondere
il senso di vita complesso di un primate vivo, col senso di vita
elementare
espresso dai vermi che brulicano nel suo cadavere? Come non vedere lo
scarto
qualitativo, non coglierne il cignificato?
Et tout
se tient. Chi vede l'origine come soggezione atterrita alla morte, non
può vedere che
la morte
dietro ogni fine: non può essere che religioso. Ogni religione
colloca
le chances dell'essente al di là della morte. E’ così che
l'essere coincide con la fine; il fine, con il cessare di esistere.
Avere
la fine come fine. In un sistema chiuso che suggella al di qua della
morte
il sussistere come un periplo vacuo, un automatismo che il suo fine;
dacci
oggi la nostra preghiera quotidiana affinché il lavoro appaia
meno
insensato, si faccia accettare come un accento dell'insensatezza, un
attributo
della pena del sussistere, un « dovere » che persino ne
riscatta
e solleva, accumulando meriti?crediti, per la festa dei morti, di
là
da venire.
La religione
occulta l'incedere del processo, nella materialità; si accanisce
a stornare l'evidenza dialettica. Chiudendosi come una pietra
sepolcrale
su ogni presente schiaccia nella tenebra del non?senso ogni istante che
proceda verso l'essenza. L'essenza è interdetta al sussistere i:
questo il divieto religioso. Tutto deve venire nel prete sco al di
là.
Il modo più efficace di combattere la trascendenza materiata del
processo: in nome della « trascendenza »,
dell'immaterialità.
Accecare all'evidenza, puntando tutto sulla lentezza efferata
dell'evidenza,
sull'arco doloroso dell'iter - nascita vita e morte - per riconoscere,
in un flash troppo spesso flebile, il senso dell'inganno subito e, nel
medesimo istante, l'incedere certo del disvelamento, il passo della
storia
contro la menzogna. Di questo spreco che è la vita incatenata al
lavoro, comporre il feticismo dello spreco.
«
Se si considera la vita umana nel suo complesso, si constaterà
come
questa aspiri fino all'angoscia allo spreco; fino ali angoscia, fino al
limite in cui l'angoscia non è più tollerabile. »
(Ibid.,
p. 68). « Poiché al culmine della convulsione che ci
forma,
la testardaggine dell'ingenuità la quale continua a sperare che
quella cessi, non può non aggravare l'angoscia, per cui la vita
tutta intiera, condannata com'è al movimento inutile, aggiunge
alla
fatalità il lusso d'un goduto supplizio. Poiché se per
l'uomo
è inevitabile essere un lusso, uno spreco, che dire di quel
lusso
che è l'angoscia? » (Ibid., p. 69). La flessuosità
« dialettica » di un passo come questo, e la sua «
beltà
», non potrebbero stornare più effficacemente la
dialettica
reale della vita come esperienza angosciosa della man?tue, e come lotta
non inane contro la stasi. Ecco che pur di azzerare il senso del
processo
e del movimento, storicamente evidente nell'iter della specie e nel
superarsi,
opponendosi dislocate rispetto allo specchio dell'inessenza, delle
generazioni
che si succedono (sempre cignificativamente diverse nel dolore), ecco
l'angoscia
scivolar fuori dall'alveo della manque in cui pulsa, anticorpo in lotta
contro l'intossicazione della stasi, venire a collocarsi sull'«
accadere
», con la connotazione adornativa del « lusso ». Che
dire di questo detournement « lussuoso » del movimento che
è l'angoscia?
«
La vita tutta intiera, condannata com'è al movimento inutile,
aggiunge
alla fatalità il lusso d'un goduto supplizio. » Chi
può
godere di questo lussuoso supplizio, se non colui, falso uomo, che sa
di
aver patria altrove da questa « valle di lacrime »? Chi
deliba
il calice fino alla feccia? Chi trionfa inastato cadavere, nel livore
del
supplizio? Chi se non il « rospo crocefisso », il corpo di
morte, il cadavre exquis? Questo non?uomo. Il figlio di dio che viene,
a dissacrare la pena, la storica e non inane pena umana di resistere,
di
desiderare, di sussistere angosciosamente, di Conoscersi imperfetti e
mutilati
nella mancanza, e di lottare e da capo lottare, perché al di
là
di se, e non al di là della vita, la mancanza maturi la
pienezza,
la vita
erompa
dalla sopravvivenza, il sogno concreto si realizzi, contro la
concretezza
sempre più fragile dell'incubo reificato. « Al della
convulsione
che ci forma, la testardaggine dell'ingenuità la quale continua
a sperare che quella cessi, non può non aggravare l'angoscia...
» La testardaggine dell'ingenuità. A questo, pur di fugare
il senso della storia, e delle « storie », il verminoso
«
pensiero » religioso riduce l'esperienza combattuta, la sapienza
della lotta, la sola vera e sanguinosa conoscenza. Del non mai inutile
movimento che è l'angoscia, dentro la stasi della non?vita.
L'albero
della conoscenza, il serpente. Questa la trasgressione: conoscersi,
disconoscendo
la fatalità.
La fatalità
è la stasi. La « personalità » vissuta come
il
giudizio inappellabile, la condanna all'ergastolo. Per sempre entro i
muri
eretti dall'alterità. La definizione in negativo, per
esclusione.
La costellazione delle presenze, m cu? ti conosci come assenza, come
involucro
del vuoto. L'IO dettato in nome del padre, sentenza e croce: il dubbio
ortogonale alla disperazione. I1 nome e cognome. La fisionomia
impietrita
nello specchio. I1 viso che tasti tremando, nell'angoscia.
L'angoscia?madre,
l'angoscia?travaglio, il premere contro le pareti per nascere: per
nascere,
finalmente. Lungo tutta la « vita ». I1 movimento spastico,
il movimento?cuore. Nel silenzio, nauseato e atterrito dalle parole. La
parola dis?conoscente. I nomi che negano. La neutralità omicida
delle frasi, gli sguardi che negano il vedersi. Gli occhi che ti
inchiodano
a ciò che non sei. La figura di te: l'altro. Riconosciuto senza
fine - ogni « tu », ogni « ciao » -
mentre
si disconosce e rivolta, senza fine. Gli occhi del padre, della madre,
gli occhi dei fratelli, gli occhi dei figli. L'oggettificazione.
«
Che cos'hai? Parla! » La prigionia, la negazione ineffabile nel
linguaggio.
E la prigionia, la negazione eloquente nel silenzio. Di cui ciascuno
è
l'auscultazione raccapricciata. L'intelligenza sbarrata dalle parole.
Dalle
parole tradite,
monetizzate,
depauperate. Fatte cadere. Schiacciate. Le parole?schegge. Le spere
frantumate.
I1 bagliore sbriciolato. « Come stai? » « Che
cos'hai?
» « Spiegati. » a Non capisco. » «
Perché
mi guardi così? » Tra intendere tutto, a un millimetro, a
un istante, e non voler capire, in un sempre che è la stasi, che
è la fatalità. Ma rotta, divelta, a spasmi, in ciascuno,
in un segreto che è di tutti, velato appena dall'interdizione,
sempre
più trasparente, sempre più imminente, nel
movimento?angoscia,
nel desiderio?angoscia, nel patire che matura il sommovimento,
nell'intendere
che si avvicina, che si vuole. Altro che lusso. A1tro che spreco.
L'angoscia
è l'incedere gigantesco della storia, miniato nella peripezia di
ciascuno. La bancarotta imminente del credito, dell'attesa. La crescita
del desiderio che esige, la lotta dell'istante che rifiuta di
sacrificarsi.
L'erezione appassionata del presente. L'insurrezione silenziosa ma
sterminata
dei corpi. Tanto più forte, quanto più clandestina. Tanto
più certa, quanto più occultata dalle forme dirotte della
derelizione. A mano a mano che il niente sembra trionfare. Più
l'insurrezione
si fa potente, più incombe la desolazione. I1 nihilismo è
la fragilità trasparente del fittizio. La traslucidità
dello
schermo vicino a spezzarsi. I1 disgregarsi dello specchio, in cui il
passato
dilegua, col suo potere. L'assottigliarsi dei muri. L'indebolirsi e il
disperarsi della fatalità, scudiscio ormai snervato d'ogni
tirannia.
L'impallidire dello sbirro: l'agonia dell'angelo custode. La timidezza,
anche, della potenza che si scopre, incredula, dello spazio che cede,
della
catena che si allenta. I1 vizio duro a cedere dell'umiliazione.
L'oscenità
dell'assuefazione. La coazione a ripetersi il divieto.
L'angoscia
L'il memento vivere della corporeità. La testardaggine della
intelligenza
naturale: il diniego a concludersi in quella costellazione di apparenze
oggettive. La consapevolezza
insepolta
di un destino superiore. La denegazione dialettica della
fatalità
negatrice del movimento. Il movimento estatico, uscita dal sì
fittizio,
uccisione del custode?Io, è il contrario della fuga dal corpo. E
la conquista in atto della corporeità realizzata, e della
totalità
coerente come suo contesto naturale. Quando la corporeità
riconosce
il potere trascendente del proprio senso in processo - materialmente
trascendente
- è allora che nell'azzardare (nelle carezze in cui dilegua il
vetro
della separazione, negli sguardi disaccecati, negli atti temerari della
passione) la pienezza attraversa i confini del soma, trabocca
irrompendo
nel mondo, colma col proprio pulsare ogni spazio e tempo,
conquistandoli
a se, realizzandoli come i suoi. E’ così che il corpo
dell'essere
amato si rivela come un territorio, un paese, un'era. Schiude la
ricchezza,
antichissima e futura, della sua vastità; si smisura, abbandona
la segregazione rattristata dei « connotati », dei contorni
umiliati della propria figura, aggricciata nel respiro breve
dell'angoscia,
impedita a espandersi dalla corazza della sua « identità
»,
che è identità necrotica con la comunità familiare
dei carcerieri e con il loro tempo, scandito dalla ciclotimia
produttrice
dell'impossibile.
In limine
all'estasi, è l'incredulità. L'impossibile esercita una
resistenza
feroce. Trafigge, schidiona ogni impulso, lo trae alla cucina del
sarcasmo,
dove ogni carnalità trapassa in macelleria, ogni sangue in
salsa,
ogni linfa in untuosità di brodi. Ogni uccisione sacrificale
è
sempre finita in una digestione. Fuori dal corpo il fuoco, a rosolare
il
morto. Questo il tuo corpo. Il vassoio delle delizie estirpate. Non
viverle,
consumale. Lenisciti, al di qua dell'azzardo. Rimpicciolisciti, nel
desiderio
ridotto ad appetito. Cibati, digerisci, defeca: sii nel ciclo, nella
quotidianità
e nella liturgia.
Al cuoco
di visceri, il desiderio sa avventarsi, riconoscere il suo possibile
sul
varco, scorgere, nel corpo?a?corpo, in un colpo d'occhio, la
grandiosità
della sortita. i: già al di là. Non appena osa vederlo,
lo
spazio?tempo dell'estasi è già il suo presente. Ogni
gesto
apre, dissuggella, sprigiona, riconosce, libera, comincia. Per breve,
per
minacciato che sia dai più imperativi divieti e dalle
labilità
e impotenze, riconosciamo il senso insurrezionale dell'estasi.
Disimpariamo
a misconoscere i sensi. Crediamo, infine, ai nostri occhi, quando
l'impossibilità
osa negarsi.
La magia
entusiasmante del potere dell'estasi, che è potere e magia di
sintesi,
di risoluzione. L'irrompere spiegandosi e sciogliendosi di ogni
passato?nodo,
il disparire del tempo della prigionia. Dileguarsi della
quotidianità.
Esplodere del sé?oggetto. Fuggire della cosalità. La
presenza
lampante della corporeità superantesi, scatenata verso il di
più
e l'oltre, sfuggita alla morsa dell'alterità, nella potenza del
desiderio. L'evidenza irrevocabile del trascendersi dell'«
animale
» e della « persona ». La pienezza che attraversa il
chiuso della pelle, l'attraversa come si entra in una luce, in
un'acqua,
in un bosco, incedendo senza resistenza, solennemente, fondendosi.
Questo
conoscere aprendolo l'essere suggellato. Questo senso vivo del corpo
d'amore,
chiaro a tutti i sensi, sontuoso. Questo superamento attraversante e
inveente,
questa abolizione solenne della separazione, dell'alterità,
dell'angustia,
della prigionia. Questa identità rivelantesi dell'e
interiorità
» con 1'« esteriorità »: il loro perdere
senso,
il perdere senso dell'è identità » carcerata
nell'Io,
stampata nel vuoto del sé dalle forme ossessive delle assenze,
dalle
« persone », dagli « altri »,
l'identità?intimità
con l uccisione, con il divieto ad essere e a sentire. Questa
dimostrazione
« per assurdo » della possibilità d'essere. Questa
conquista
armata del presente, affinché in essa la volontà potente
si risponda esaudendosi, sgominando l'assise del passato, decapitando
giudici
e sgherri, rovesciando re e regine, strangolando sacerdoti, spie e
metafisici.
Questo far giustizia in se famiglia regale, e questo disparire del
palazzo,
delle sue aule e stanze, dei suoi usci del pianto, dei suoi mormorii e
orecchiamenti di gemiti, delle sue camere di tortura, dei suoi corridoi
labirintici, delle sue cantine, dei suoi topi dei suoi insetti dei suoi
pipistrelli dei suoi vermi dei suoi draghi. Questo profondo respiro
dell'altrove,
in cui il soggetto si rivela a sé. Questa guarigione senza
terapia,
questo lenire resuscitando, questa morte della pietà e del
pianto.
Questa vittoria.
Troppo breve.
Troppo assediata. La vendetta del tempo, della quotidianità
desertica,
contro l'istante. L'ironia, e peggio, il suo contagio: l'autoironia. I1
contagio dell'incredulità. L'astio, pronto a infiltrarsi, nel
rivolo
del risentimento. « Ma è stato vero? » « Ma
anche
tu? » « Ma come me? » Proprio perché l'estasi
può essere quella vittoria, quando il procedervi cade prima di
toccarla,
quando viene meno al suo progetto e alla sua premessa, il dubbio
inquina
la presenza vicendevole degli amanti, ne indebolisce il potere, fa
sì
che riappaia come feritoia nella prigione. Spasmi di dubbio: il cui
veleno
si annida nella labilità con cui si profilano,
nell'apparire?disparire,
sfuggendo l'affrontamento, conservando l'immunità del perdurare
irrisolti. Scarti spastici di prospettiva. I1 corpo che si avviava ad
espandersi,
a farsi mondo, come in una zumata si raggrinzisce. I1 sentire capire
sanguigno,
il con? fluire dei sensi col senso, regredisce a « pensiero
»,
a incertezza. I1 respiro è riconquistato dal progresso
dell'ansia.
Si cessa di trans?crescere, di procedere, con la pelle (premendola
nella
forza dall'interno, attraversando la?affermandola) al di là del
suo delimitarsi. Ci si distacca, col venir meno della propria presenza
corporea. Si giace nel proprio?corpo. Dovunque non qui, comunque
purché
non in presenza. L'altro è già l'Altro. La presenza
è
del boia alieno che giace castrando, raggrinzendosi, non sai se in te,
nell'altro, che si equivalgono, immiserendosi, carcerati
nell'identità
del non?essere, definiti nell'alienità.
La caduta
può essere peggiore della perfidia dei custodi. Quando il corpo,
perduta la « grazia » dell'incedere, nel fuoco interno,
verso
l'uscita dal se, sconfitta la gloria dell'insurrezione, smarrisce
l'onore
del vero fino a convertirsi, al di là del brivido, nel proprio
simulacro,
e precipita nella vergogna di mimare l'avventura, sopprimendo financo
l'avvertimento
sinistro dell'assenza di piacere: allora a muoversi, a galoppare,
è
la macchina, il fallo?coltello, la vagina?tagliola, alacri a
contundersi,
a negarsi ferendosi, mentre le mente, specchio della mancanza, evoca
dalla
castrazione infantile le icone gessose delle più remote
ossessioni
onanistiche, nella luce chirurgica dell'assassinio primario.
L'irrisione
è pronta a svuotare i corpi come circhi evacuati. Gli
atleti?attori,
i gladiatori clowns, cui senza mistero e senza magia sono ridotti gli
esseri
che mossero verso le clarine dell'estasi, trovano, nell'eiaculazione
«
liberatoria », il fischio dell'arbitro che pone fine alla
partita.
E nella delusione risentita, scoprono d'essere stati essi stessi gli
spettatori
disincantati, i barbari masticatori di farse. L'Io riconquista
così,
non appena gli si conceda uno spiraglio di dubbio, lo spaziotempo
dell'estasi,
immediatamente convertendolo in scena, e immediatamente
rappresentandosi
nei corpi, che cessano di muoversi realmente. Pulcinella, rimanga un
segreto.
E’ di questa
competenza dell'oscenità, « cerchia, la riproduzione
mondana
del lager familiare, intesse la sua intimità. Ogni raro apparire
della passione, suscita la folata dell'astio, a scuotere ogni spina
nelle
anime?pruni, a sollevare sabbie disseccate e a scagliarle, con tutta la
violenza dell'odio per il a disordine » della passione,
nelI'intollerabile
dolcezza di chi ha un mondo a fior d'occhi. Mai l'amore incede
incolume,
nella cerchia. La cerchia: che è l'accerchiamento, in cui
ciascuno
è a un tempo volpe e membro indistinto della canea. L'uso della
parola oggettivante è il fissativo che connette gli amanti,
fatti
« coppia », nella comunità fittizia: famiglia,
cerchia,
racket, milieu. Essere nel gioco: preso, a dato », in pegno, in
ostaggio.
II patto esplicito è di non « trascendere »: non
trascendersi
come identità opaca, non smentire la connotazione. Pena la
perdita
d'ogni connotato. L'essere?o?non?essere nell'ambito della cerchia
è
sospeso a questa oscillazione: essere (dato e preso) nella connotazione
oggettivante, o venire espulso dal circuito connotante, gettato in
quello
sfondo raccapricciante che è la « cosalità »
del « fuori », ltoggettificazione dei vuoti a perdere; dei
consumati o non più consumabili, dei deteriorati, dei rifiuti.
Ciascuno,
nella cerchia, è parlato. Detto. Descritto. In presenza o in
assenza.
Sempre in un sotteso terrore. L'economia politica, trapassata corpo ed
anima in psicologia politica, produce la personalità come la
Cosa
che è Detta, la rappresentazione coniata del valore creditizio,
la carta di credito che torna, a ogni giro?girone circolatorio del
giorno?ciclo,
accresciuta di un profitto d'assenza. Essere nella cerchia: sussistere
nella figura di se, erogarvisi co?edificandola, questo prodotto
collettivo
che è la personalità dell'assenza.
II «
lavoratore combinato » ha toccato le radici del patto sociale, si
è identificato nella matrice del valore ersonificato; l'oggetto
per eccellenza è il soggetto fittizio, la merce sublimata nel
mero
contenersi, in una forma, del vuoto. Un corpo, è un supporto. Un
vuoto, la marca del sé. L'eloquio è il sound, la colonna
sonora della produzione di vuoto. Con o senza chitarre, ogni chanson
è
la sigla che promuove l'assenza, che celebra l'onnipotenza del passato
e del non?stato, indissolubilmente dall'apologia del credito futuro.
L'essere
così si pronuncia / produce 'esclusivamente nella
commemorazione,
che introduce senza soluzione di continuità, saltando a
piè
pari il presente, nella promessa. Tra commemorazione e promessa si
tende
lo schermo in cui le figure di sé vengono proiettate a celare il
vuoto nel quale sgorga silenzioso, come da una tubatura che perda, il
presente,
cui è fatto divieto di avvertirsi. Si parla di ciò che
non
si è: per prodursi concatenati nel non?essere, nella liturgia
del
commentario.
Mai la society
fu così assorbita dal cerimoniale del « problema » e
mai così democraticamente uniforme, in ogni sfera della
sopravvivenza
socialmente garantita. Mentre gradatamente tendono ad eclissarsi le
distinzioni
tra le classi, nuove generazioni « fioriscono » sul
medesimo
stelo della tristezza e dello stupore che si commentano, in una
generalizzata
e pubblicizzata eucarestia del « problema ». E mentre il
gauchismo
più « duro » (e a suo modo più coerente)
rivendica
un salario per tutti, sempre più il capitale accarezza il sogno
di saperlo accontentare: depurarsi dalla pollution produttiva fino al
punto
da consentire agli uomini semplicemente di prodursi come le sue forme
piene
di vuoto, come i suoi contenitori, dinamizzati dal loro stesso enigma:
perché ci sono?
Agosto-dicembre
1973
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