Sans
passion il n'y a pas d'art
Calamus
Documenti
Emilio Villa, audessous
di Emilio Piccolo
1976
|
Angoscia
del commento: un foglio trasparente lo separa dal silenzio, dalla
decisione
come caduta nella follia, nell’infanzia di chi non sa parlare e
avverte
il rischio della voce come espropriazione, mar gine di una risposta
esaurita
da sempre nella sua propria istanza, nel canto delle sirene che
invitano
alla morte o all’ossessione del desiderio coatto. Perché si
tratta ogni
volta
di ricominciare da capo, di cancellare la metafora dell’occultamento,
della Tavola cifrata nella sua distanza totemica, che
costringe
il commento al ritorno in sé alla sua funzione servile, al
privilegio
secondo della cucitura, come afasia della voce dopo la dizione,
definizione
metafisica del centro assunto a fenomeno. Così l’emissione
pneumatica
realizza il genere e il permanere, nella rappresentazione, del
sacrificio,
dell’angustia del soggetto saldato all’organizzazione del
processo
metaforico, alla riduzione del volume come concentrazione
eterogenea
del tempo, che sovraimpressiona dimenticandolo, chronos ed aion,
a
disinnescare
la virulenza del referto, che ostinatamente si sottrae alla
linearità,
cui si vuole ridurlo, del discorso: accumulato su se stesso,
stravolto
e interrotto per non essere acquisito a discorso, illuministicamente
ri-conoscibile. E allora il commento non può non vivere
all’infinito,
la sua infelicità, manoscritto infinito che ha perso ogni
certezza
di prescrizione, tautologia scentrata della trasparenza, di un
nodo di
opacità che resiste alla dissolvenza, esso stesso
dissolvenza
in progress,
limite che continuamente si rende assente, decentrandosi,
sottraendosi
ai prolegomeni, defungendo come testimonio e garante tra
lettura
e scrittura, intendendo ad una inauguralità, (contro ipostasi
idealista
di mondo-storia), che l’accesso alla de-formazione dell’interrogazione
pura, come possibilità sempre differita e differente
dell’Altro,
della genesi sottratta alla serializzazione logica, al filo
(dis)continuo
del progetto, dislocato e minimalizzato. Di qui l'inganno
come ipotesi
di energia: la sua ri-petizione, la sua demonica, incantatrice,
figura di travestito che gioca con le maschere, nel lavoro
lungo tra
regime diurno e regime notturno dell'immagine fino a stravolgere
il tempo
che nella grammatica, parlandola, la scandisce. L’antagonismo
demonico
che si realizza (tra Thoth e il travestito dell’inganno) marca
allora
la perdita progressiva e felice del sapere, la sua deiezione nel
corpo onirico
del delirio, che lo reperisce, quand’anche non lo taccia,
come
citazione
(di citazione), pretesto, assoluta causalità della
significazione
storica, elocuzione archeologica che denuncia l’ordine come
controfigura
terroristica della delega reciproca di mondo e parola: asobica
ateticità
delle curve, lungo le quali avviene, in una sorta di enimmatica
erranza,
l’incontro-scontro con Villa, Emilio Villa.
La scena:
il profilo clandestino del bianco. E poi il rombo, l’apparizione
demente
del caso. Villa ama il suo demone, una facilità profonda lo
possiede
in un movimento che lo trasgredisce ad occhio contumace, ad una
latitanza
dalla memoria che cancella se stessa e la sua interpretazione,
rivelando
la sfasatura che la costituisce e sollecita nella dismisura:
esistenza
dimenticata nel riposo, nell’entropia dell'invisibile Villa ama
il suo
demone, e lo mima, per entrare nel regno dei demoni: come quelli,
non sopporta
i concupiscenti eunuchi della storia; e ciò senz’altro la
prova di
una sua mancanza di pregiudizio verso la semplicità del testo.
Una versione
metaforica, un disgregarsi della puntualità come seduzione.
Fluttuante
e straniera, la sua parola in deriva e la grammatica non può non
accettarsi
come lacerazione di simulacro e fingere la conoscenza
dell’impatto,
il ritorno fondamentale dello scempio: derivata, la sua
direzione
quella del chiasmo, una episteme rappresentata, duplicazione
pubblicatadella
grazia, da cui divaga l’avventura come
contaminazione apocrifa,chimismo che metamorfizza i dettagli omessi, il
luogo comune della
visibilità
empirica stravolta dalla tentazione alchemica. Medusa
allora
vittima del suo inganno e l’identità, forzata alla conoscenza
progettata
come processo, risulta un dato irrisolto, un’opacità della
complicazione/complicità
del discorso nelle sue imbastiture, cartesianamente
indotte alla tautologia metafisica del nome, al suo residuo
feudalistico,
che si riappropria dell’assoluta sciolta transitorietà del
divenire,
metabolizzato al regesto proliferante del catalogo. L’ipoteca che
ne sortisce
il deterrente della definizione, la magia contraffatta della
ricchezza
interiore, che salda al fascino della pura idealità la gibigiana
del
quotidiano,
in un rinvio allo specchio come immagine dell’io e dell’altro,
coinvolti così nello stesso discorso di ripetibilità, di
interlinearizzazione
di idios cosmos e di coinos cosmos, senza cui non c 'è
storia
né metastoria. E allora ciò che ri-vive, nella
falsificazione storica,
l’iniziazione dell’istante, che folgora nel passato il recupero
generale
del senso, proiettando nel disegno re sistente e insistente del
futuro
le metamorfosi senza corpo dell’adeguazione, elevata a criterio
generale
di ermeneutica e pratica commestibile. Incantesimo del ritratto
invertito,
che sorprende una latitudine di posa insospettata, scandendo il
tempo di
una ricerca del volto nel fondo del bicchiere, (che si
sovraimpressiona
al bicchiere), suturando la distanza, promulgando la leggenda
dell’unità che dilapida la corporeità dello smarrimento e
del non capirci
nulla nella compiutezza della deviazione.
Lo
splendore
di una simile pratica impagabile, e il privilegio della nostra
parola,
stornata alla disperazione del commento, non può che
metastatizzarne
il riflesso, costretta a dirsi, a celebrare in un delirio
di scatole
cinesi l’oniricità complice del suo corpo. Certo: la mimesi
violenta,
e la copertura analoga degli spazi rischia l’articolazione, in
cui la
costante puntualità del caso di-vaga a funzione conoscitiva, a
pura modalità
sublimante degli scarti suicidi, degli enimmi in opposizione.
L’eterogeneità
si ritrova come in-differenza (di word e world), e il
suggerimento
castrato nell’insopportabilità della caduta dal rigore. E
tuttavia
ciò che resta relegato al margine o anche al centro un volume, un
defilarsi
del travestimento, con cui, ridotte le distanze e invertite le
parti,
rinviare alla lontananza del suo profitto la metafora normale del
senso come
potere, atto storico di violenza. E allora
la figura del delitto investe, innanzitutto, la volontarietà
della morte,
il contrabbando dell’origine finalmente contraddetta, falsificata,
occultata
sotto la biffatura frenetica e ripetuta del cambio istantaneo, di
una
maschera-corpo
che vomita voci innominabili, brandelli di occhi non reperibili,
relitti coassiali di memorie senza fisionomie. Ma Villa
ama il suo demone, si è detto: il suo lavoro è senza
fine,
come un telaio
di Penelope, in cui ogni esodo è una iniziazione, un rito di
passaggio,
una fornicazione innocente. Così ogni forma è forma della
caduta tat
tvam
assi — nella unificazione biblica del simbolo-cosa, o anche la
dissolution
de la série dans le group en fusion, di un rigor mortis che
congela
la vita nell’oltraggio della eternità. Una e-lusione estetica,
una trama
tessuta
in una tragedia in cui togliere i vestiti è togliere i
vestiti
nuovi dell’imperatore. E tuttavia, anche privi delle convenzioni
fisse a
riferimento, non si può vivere senza fine il senso della colpa e
dell’espiazione
e la metafora esautora il limite temporale del reale,
sopravvivendo
ad esso. È evidente: per Villa il post-fatto intrattiene con
l’evento
lo stesso rapporto intercorrente tra la fanciulla e il suo canuto
amante.
Eppure, rappresa nell’incubo, la memoria (s)materializza le tracce
dell’oggetto,
conuna bellezza quasi didascalica, in una tensione di lavoro
violento,
in cui il montaggio proiettico sfugge, come un crurispicium
oracolare,
alla verosimiglianza, e il naturale è l’irriconoscibile, il
segmento
non inverabile nella prospettiva clinico-oculistica del luogo
comune,
dove l’iscrizione dell’azione mistifica il suo carattere di
doppio-dopo,
promuovendo la simultaneità fittizia dei tempi. Solo così
il territorio
limitrofo, ovvero la possibilità dei riferimenti, si sottrae
alla
riproducibilità
tecnica, alla povertà dell’in-conscio (s)velato come
macchina
a senso unico, incapace
di scarti: progetto di ri-petizione, ri-petizione
di progetto.
E allora
non desta meraviglia se l’oscura punta d’essere, l’essere
dell’essere
del crescere del salire, e struggere e segregare senza pietà,
senza armonia
il punto emblema della freccia disgiunta dallo sforzo è
esperito
alla confluenza delle raffiche sublimi, se dopo il dopo è dopo
aggallante
in un flusso di infallibile realtà, nei giorni acerbi che
sommano
giorni ai giorni quotidiani nella araldica prosodia delle tangenze,
dove
metà
idea e metà frutto, metà rischio metà fame,
metà
intero metà tutto,
metà morte metà pane, dove è l’etimo immaturo,
l’etimo
colto, l’etimo
negli spazi avariati, nei minimi intervalli, nelle congiunzioni,
l’etimo
della solitudine posseduta, l’etimo della sete. Così
l’oggetto è il suo destino e il farsi, come intervento
nell’apertura della
gabbia,
segno graffiante della lacerazione, diegetica e survoltante,
non
può
che circuitare nella incommensurabile semenza delle vertigini
adombrate,
nella fuga vertiginosa dalle relazioni, dalle traiettorie, dalle
radiazioni,
dalle concezioni, luogosenza storia, luogo dove tutti e dove
la coscienza
e dove il dove, gli illimiti itinerari. Perché,
insomma, tutti i sotterfugi di Zeus gravitano nella preistoria
isterica
del bisogno, riducendo le metafore interdette nella conclusa
sacralità
del cibo, della merce che si ri-getta nella giaculazione
in-differente
ai topoi. In ogni caso l’oggetto conosce se stesso e Pandora
è
sempre pronta a contrabbandare la sua partenogenetica verginità
nel cambio-ricambio
di una identità sociale, incantatrice potente della
speranza,
ristagnante al fondo di una fuga fittizia dall’altro, altro dal
fogliame
e dagli stinchi, altro dall’onda e dalla polvere subsonica, altro
dall’altro
oltre l’ultimo altro. E così all’infinito, verso la
univocità delle iscrizioni
differenti nel Libro, nell’utero materno dove le odissee
si
riallacciano
nella requie materna dell’eternità, somigliando così
profondamente
ai radi ragionamenti che faremo sul punto di morire, in
articulo,
con l’ombra degli amici, a fior di mente. Ma, inghiottito
dalla voracità predace della fanciulla, il canuto amante
non
può
non fare i conti con i segni speculari del disfacimento, con
l’impotenza
lucida del suo travestimento. Il clou dello spettacolo, il
salto senza
rete e senza ritorno, è sancito altrove, dalla mano ignota di
un travestito
da morte che lo richiama, per subito deciderlo, all’unica
identità
possibile, quella clownesca della morte, nell’assenza di ragione e
di
pietà,
del metro che misura le pertiche tradizionali: o voialtri che
sapete
che rosa che rosa ma che rosa che state aspettando, se foglia e
rifoglia
rifoglia biondina, l’amore si sfoglia, l’amore e la vita?
Siamo
cioè
su una pista di registrazioni incrociantesi, lungo le quali il
terrores’incunea
nello spettacolo seriale del travestimento
quotidiano, allulendo
ad una chora dove non è più possibile precisare da che
parte siamo
e
il cui orizzonte fisico-storico, pur nella sua costante ossessiva
di muraglia
cinese, di continuo rinvia a curve non poste, ad accessi
inusitati
attraverso il trucco e l’effetto, non definibili in base al
plus-valore
di coscienza, né tanto meno intuitivo, in ogni caso semantico.
Ma Villa
continua: pur costretto come è a pro-nunziare il suo nome, a
porlo dinanzi
alla parola-corpo che è, profila una microfisionomia in eccesso
(di contro
all’immobilità sublime della Maschera), di magoni, di rancori
giulivi,
di singhiozzi, di sgraffi, di letanie senza testo, irrespirabili
nell’ignaro,
gelido, decrescente talamo dei nostri aliti a ridosso, scapola
a scapola,
perché scapa la caca de sgnapa ghe se scepa la ciapa del bus del
cu.
Così
l’intervallo tra storia e metastoria che lo condanna all’infelicità
della separazione dal demone amato, da colui che lo possiede
ed è
a sua volta posseduto, è cancellato cancellando storia e
metastoria, variando
all’infinita l’infinita modalita dell’in-visibile, nella
precocità.
di un eden dischiuso à l’instant meme du crime, in cui il faut
secouer
un nautre amour, nell’esercizio dell’immortale paura dove non è
più il
tempo
di lode o di mimica o di frutti o di corpi, ma oracolo appena
mitigato:
rifiutandosi alle politiche interpretazioni che tendono a
definire
per oggi e per il sempre l’ordine del riscatto personale e
l’evento
conico, estroso. E allora ciò che rimane di quell’intervallo
è
la Scena
nuda,
disarmata, ombra e tenda, come ciò che è teso e che
però
è privo
di
consistenza specifica, traversata indeterminata dei progetti
nominali,
che occultano la controparte in gioco, ovvero la sua controfigura,
se il caso è la libertà dalla logica ma anche la
necessità dell’imprevisto,
dove è vincere o perdere, il luogo della scommessa, dove
anche
l’ultimo
brivido della biscia dopo sanguinosa repressione biochimica,
anche il
culo della formica baciata dalle intemerate labbra del ministro e
anche pure
i corni dei corni dei corni dei corni dell’ara del bufalo. Così
che il
fuoco di Empedocle appare come il segno (pre)mitico di una
condizione
che si sottrae alla convenable-mémoire, sancendo la
terrestrità e il suo
hasard, che viola les solutions régulières attraverso la
deiezione totale
nel corpo, nella saliva, nella metempsicosi vulvulare du chromosone,
che
intensifica
la dimensione algebrica del lacero, liberamente misurata
nell’orbita
delle frenesie. Travestire
i travestiti, tagliare la distanza facendosi distanza,
ri-get-tare
ogni significazione come modalità all’oggetto, se ancora ha
senso la
divisione, se in definitiva ciò che lega la fanciulla e l’amante
nella copula
è anche ciò che li divide. Una sorta di allucinazione,
congiura
che effrange i limiti bio-logici del sapere nello spazio contro il
tempo del
Minotauro: un sotterraneo, una gabbia scardinata, che trasforma
il
desiderante
in figura protestata, la cui parola è variazione,
defunzione,
follia purissima follia, chanchantant voix vive fanatisme e les
lions
fébricitants
à Mycène nella manipolazione linguistica dei tempi,
nella
legitimate
confusion da Babilonia a Parigi, attraverso la biblioteca
di Babele,
delle vecchie anatomie civilizzate com li jests del Destin,
ternant
li secrements, el son outradge e a desesprans, perché lo schema
non collima
con l’essenza e il dominio con le leggi dell’essenza: dal nulla al
nulla.
E allora è il corpo trasmutato ad essere, e l’essere
corpificato:
il demone
parla, Villa sciamano, Villa mago, Villa demone che attesta la
vertigine
in bilico sul peccato. Mai così terribile la promessa, mai
così grave
l’insurrezione:
ipse of ferens, ipse et oblatio. Certo: La specie è
cannibalistica:
cum pascit pascitur, et cum pascitur pascit. Ed è in questa
autofagia
da sfinge che Villa va a conficcarsi, nel corpo naturale del
possesso
orale dove l’unità è quella escatologica della
Madre-Terra, telluricamente
protesa alla fetazione infinita della materia, in cui si
possiede
fino a ritrovarsi, a ritrovarsi con i suoi infiniti: avendo ormai
esaurito
le determinazioni del tempo, avendo ormai proceduto all’assassinio
di Chronos,
divoratore di ribelli.
È
tempo di invertire la prospettiva, di ri-scrivere come in una doppia
narrazione,
in cui la fascinazione della regia dilapida l’immagine
nell’occhio
che ti fissa, respira, pulsa, trasale, e si delude: se
deludersi
è truccarsi nel desiderio, sorreggersi nella passione emergente,
crescente
nel soccombere reciproco dei simulacri esterni. È tempo che,
tramite
il flusso della morte nella vita, come il venire alla morte
nell’orgasmo
con l’altro, che è il nostro come nostra è la sua ipnosi,
taccia
la tragedia pre-verbale dell’ansia, il re spodestato che condanna il
sicario
al trono antico. È in questo momento che Villa si riconosce e
scampa,
affermando il suo destino, lo spessore dedaleo che schiaccia nel
potere
risolvente del labirinto la distrazione pietrificata del feticcio.
Ecco: oggetti
inanimati e il bruciarsi della vittima, abbandonato il senso
al
sottovivere,
freddato, scorporato nella figura allegorica dell’eterno
irrevocabile,
come salma di una specie erogata nel tempo perduto. Villa è
al di
là
dei suoi Lemuri, della sua civiltà non trovata, sperduta sotto la
sabbia
di deserti cuneiformi, criptici, indecifrati, visitati nell’orrore
freddo
della lucidità assuefatta al suo delirio, miniato nel vizio
entusiasmante
dell’estasi, nella magia della compraesentia oppositorum. E
l’essere,
suggellato nella crisalide coatta del divieto, in Limine
all’incredibile
incredulità del questo è il mio corpo mangiatene e
bevetene questo
è il mio cervello anche se senza più sangue senza
più
amore, non può che disimpararsi,
digerirsi, defecarsi, sciogliersi nel respiro-non-più-pensiero
che mima il credito, ogni credito futuro, il patto sotteso
del fuori margine. Il vuoto allora è incommensurabile, promuove
un eloquio
d’assenza, uno schermo della commemorazione che spettacolizza nella
liturgia
del commentario la garanzia del milieu, il cerchio come supporto
(non) formale
della regola, la cella ermetica dell’autocitazione, del
parlarsi
in bocca. Villa
si
nasce, fin dall’inizio, come resistenza, strategia di un disvalore
che dis-trae
lo pseudodestino della macchina sociale, denuda l’astuzia
della ragione
lacerandola al volto, al graffio dello stregone che fa
esplodere
il corpo, sottaendolo al luogo immediato dell’umano troppo umano,
da cui
quello è segregato, scempiato, ridotto a puro piacere-consumo,
alla caricatura
dell’interiorità. Esca, larva, frantumo di cortecce straniate: i
conti non
tornano mai e solo il tabernacolo del prestigio può quadrare il
cerchio,
fare del sogno una tattica, del corpo un gioco di retroazioni:
ciò che
si
suol dire, una necropoli. Qui è
l’evidenza, l’allegoria evidentemente inallegorica di una prassi
materialista
che procede al salto lungo dalla civiltà, il raccapriccio per
il cadavere
squisito che suggerisce, a chi rimane, l’assoluto del perso, il
suo
tempo.Ciò
non fa che esaltare la natura dello sforzo, il suo decollare
verso una
scentralità della passione, che, nel fuori margine, fagocita
l’intuizione
della demenza, riappropriandosene e sottraendola al lavoro del
quotidiano.
Eppure prova ed inganno, comunemente intesi, continuano a
ri-produrre
la figura-feticcio della permanenza: Villa non permane, il suo
paesaggio
inosferico decentripeta, nell’allucinazione dei reperti ottici,
l’essere
cercato e cancellato, nominato e violentato, ridotto a giacenza, a
puro sgomento
del mio che vermicolizza la conclusione all’equivalenza, alla
cifra
simbolica,
a una (non) mancanza d’irripetibilità, che di ciò solo
rende conto:
mancanza di desiderio, un recedere nell’indulgenza, plenaria e
bigotta.
Non meraviglia dunque se Villa si rende irriconoscibile, scampa
nella
falsificazione,
anche testamentaria, della sua esperienza: in quanto sua, in
quanto pseudo privilegio di un tracciato iconografico che si
autoconvalida,
confermandosi. Anche se non accade niente, anche se Villa
non cessa
di irraggiungersi nel sempre in là dall’amante perverso che lo
rinnega,
perché da sempre implicitamente negato, beffato, giocato nella
sua stupidità,
nel suo romanticume da genio. In ogni
caso non si sfugge all’attenzione, e la frigidezza è l’esito di
ogni ansia:
la vittima muore e l’aspirante stregone è impotente a berne il
liquame
cadaverico, a divorarne le frattaglie puzzolenti. C’è più
passione in
un morto
in decomposizione che nella nostra stomachevole ricerca di
castrati:
perché non si sfugge alla banalità della propria sortita
e il desiderio
d’essere si paga con l’essere, con la decantazione chimica della
propria
minorità; perché in definitiva anche la faccia del dado
è
un linguaggio
e rinvia ad un tavolo, in un processo senza meta che si chiude
su se stesso,
nella trasgressione della trasgressione, nella invalicabilità
dell’orizzonte.
Così
l’occhio non può procedere che all’elencazione visiva dei dati,
alla riaffermazione
della propria presenza: fino ad esserne oscurato o a diventare
idolo. In ogni caso una inessenzialità, un accidente. E allora
non rimane
ad esso se non rifiutarsi aila vista, riassorbire la funzione
nell’essere
sostanza della sua polpa, frustrare ogni frustrazione, fino a
cancellare
la vanitas vanitatum vanitas, a porsi come latitanza. Rupit enim
plus rumpit,
quam rumpo: dove il perfetto segnala l’avvenuta effrazione,
im-personale,
chiusa nel tempo fino a biffarlo; sancisce la sovranità
assoluta
di un non-vedere, non-sapere al di là dei devastati campi delle
immagini,
della Identità brulicante di identità catalogate, poste
sotto censura,
date alle fiamme. La sofferenza
che ne nasce sconfina al di là del semplice patire: gorgo
terribile
che rimacera le frattaglie dell’esistente, fino a sprofondare nel
lezzo orinale
di ciò che circonda, nello splendore da circo intravvisto tra
uno sbadiglio
e l’altro, nel gemere di un coito interrotto. In ogni caso il
limite
rimane, si sposta, decentra le sue posizioni, scompare per
ripresentarsi
nel divenire reciproco, del lascito del corpo nel corpo in
cui l’occhio
latitante coincide con la morte. Certo: la materia è grande,
tremenda,
ha una sacralità che niente può ridurre o compensare. Ci
condanna al
mal
di denti, al piccolo fetido tumore che alligna nei polmoni, allo
scoppio
della merda dalle viscere, al vomito sugli odori dei corpi. Limiti
storici,
limiti bio-logici. Eppure anche l’ideologia, la separazione dal
corpo
comporta
passione; anche l’Identità, anche i fantasmi chiedono
passione,
un coinvolgimento, una eucaristica illimitata fiducia: nel
trovarsi
che è perdersi. Così tout se tient: la maniacale passione
dell’ano e
la saprofita
ascesi mistica. Nessuno ci restituirà un odore, nessuno un
perspicace
rutto. Almeno, un silenzio. Ma la resistenza continua, il
rischio
è contro la regola e i sigilli che chiudono i cavalieri nel
ventre del
cavallo
sono un introibo al dio nascosto, l’istante lungo del
compiacimento:
“Io sono nascosto”. Così la certezza si fa propedeutica, si
rifiuta
alla nostalgia, alla tattica, alla strategia, alla scientificità
tautologica
del beau geste, si espande verso il dubbio e il metodo,
chiamando
alla notte di Valpurga e, insieme, del monte calvo, i segmenti
animati
della scena, per esporli al sacrificio-iniziazione, per
disesorcizzare
le spaccature di classe risolte nella complicità del
rapporto
paraerotico. Ich finde nirgend Ruh / muss selber mit mir zancken /
Ich sitz
/ ich lieg / ich steh / ist alles in Gedancken: i letti del mondo
sono pieni
di sperma solitario. Ma lo spettacolo non corre mai alla sua
fine e
ciò che si cerca — hic Rhodus, hic salta — si disperde nello
smarrimento
anche dell’assurdo. Tutto,
tutto si ritrova: e l’umore sparso rivendica la gola, la lingua, la
mano
l’eccitazione
che l’ha prodotto, in un ri-fluire cosmico del seme
nell’organo,
dell’amore nella memoria. Rimane, ancora una volta, Villa:
nell’ebrezza
della sua giovinezza sottratta al segreto bio-logico, caduta
nell’oblio,
demonica, ieratica, terrorizzante debolezza; nell’ebrezza di un
desiderio
sottratto al peccato, allo splendore mortuale dell’artificio come
espiazione
dell’eccesso di vissuto che coagula le verità smentite, la
spaccatura
vertiginosa della preistoria. Ed è in questa preistoria di
inequivalenze,
che Villa incide la sua malestrevole babelica ultima e non
finale
mattìa: l’innocente non cesserà di consumare il suo
delitto, l’intuizione
est-etica del massacro. Allo stesso modo: la veggenza è senza
termine
e lo sbadiglio non può che ritrarre la sua trivialità nel
tratto improvviso,
nella fusione col dubbio che specifica la sua casistica.
Si sta
dunque parlando anche di Villa: per quanto il pretesto persista
nella sua
citazione, nell’eccitazione di uno sguardo sociale che libera il
venire
a morte della solitudine nella solitudine, nel terrore notturno del
milieu
come esegesi della potenza, della breve cara voce dei poeti
d’Italia,
Alfonso Gatto, o quella di Montale, di Sandrino pederasta, breve
fischio
in statu erecto. Così è tutto un seguirsi di scadenze, di
caparbie, quanto
absolutorie, indicazioni, di sortilegi defilati nella solennità
gigante
del comizio, nel rutto pantagruelico che rinfaccia alla sapienza la
sua generosa
inutilità: perché, in definitiva, l’amor senza mutande
non
ho farem mai
più, se il dies irae, l’ultimo frantumo di umano intelletto nel
ventre
fottuto dei celesti è il dissolversi dell’antico testamento nel
nuovo,
del clamore nell’eco circolare dell’umano, protestato, perfetto,
dato al
fuoco. In ogni caso una parodia, una critica della ragion pura,
pratica
e del giudizio, in cui l’errore sfugge alla resistenza della
storia,
all’olledienza metafisica, tracciando il tragitto tra il prima e il
dopo,
diagnosi
fisio-logica dello speri-mentale come esordio, dispersione
dell’immagine-testo
come luogo/logo surrettizio della legge di puritd. Misit in
abyssum et signavit: il mondo in sé è solo e muto, una
elargizione forbita
di cazzabuboli, una diaspora bogorreica di folgorazioni e miracoli
sigillati
ai venti di orcinali esegsi, una trama perfetta di eschaton
consolidali.
Offerti alla sua contemplazione, si parla, è vero: e parlando
l’impazienza
cade nella rete, la chimera è un paradigma irrimediabilmente
perduto.
Ci si confessa, anche: conciliandosi con la propria seduzione. In
ogni caso
crearsi un dio è sempre un problema: un frammento, come tutto. La
parola
s-vela il graffio e lo situa nella messa a morte della mancanza.
Villa,
hapax legòmenon, da parte sua continua a pensare alla nonna
Anelli, da
Golasecca,
alla nonna Redaelli, di Busto Arsizio, che fino alla morte
firmarono
con la croce, con il segno, se prima di ogni genere c’è un
barlume,
c’è un crepaccio, c’è un attimo di sospensione nella
vicenda dell’omogeneità
e della distrazione. Altra volta applaude, zittamente,
demiurgente
sulla via Appia, sull’Appia, apparso come da Atlantide con
tavole
corrose e sconosciute. Più spesso è tentato di sparire
come
Edipo a Colono
o una sibilla che disperde le foglie secche di follia al vento. Al
di là
di ogni imbarazzo, egli si smangia, perché l’idea è
troppo
evidente e non
tollera
una tranquilla sospettabilità. E sta con il triangolo: in
pectore,
in ore, in aenigmate, in speculo, in symbolo, in vacuo, ipse suum
corpus
edens. Uno Speculum Hygienicum, da cui l’universo può tendere i
suoi limiti,
può ampliarsi, e sconfinare addirittura. E allora è
possibile
anche in-definire
il luogo (non) deputato del rito: pro funda immensa infinita
aula
memoriae,
dove lo scambio agglutinante dei reperti esibisce nella
vertigine
dell’eros-ione la fuga del quotidiano. Ma questo ricomincia, e
anche
l’eros-ione
come diseredità del lavoro ovvero dell’alienazione: fino
a porsi
come compimento formale, ricorso alla pura magia della materia, che
ridisegna
nel bianco preistorico dell’im-perfetto la sua sostanza in fieri,
i contenuti
delle sue lacerazioni future, verso la saldatura tra mondo
organico
e mondo inorganico. “Naturalis autem causa esse videtur, quod ad
scientias
praesertim difficiles consequendas, necesse est animum ab
esternis
ad interna, tam quam a circunferentia quadam ad centrum sese
recipere
atque, dum speculatur, in ipso... hominis centro stabilissime
permanere.
Ad centrum verum a circumferentia se cofligere figique in
centro,
maxime terrae ipsius est pro prium, cui quidem atra bilis
persimilis
est. Igitur atra bilis animum, ut se et colligat in unum et
sistat
in uno contempleturque, assidue provocat. Atque ipsa mundi centro
similis
ad centrum rerum sin gularum cogit investigandum, evehitque ad
altissima
quaeque comprehendenda”. Così l’istanza saturnica permea dal di
dentro
la crisi, s-comunicando l’(in)umano e la sua poss(ess)ibilità,
ponendosi
a fondamento di est-etico e sociale, contemporaneamente sottratti
al fonemano
della ragione della storia e della storia della ragione. Villa
indefinisce
cioè una mathesis universalis, una legge spietata del tormento
che
scronologizza
la riflessione duplicata dell’appartenenza, la ratio economica
dell’oggetto, trasmutato ad attributo, a testicolare pregnanza:
mathesis
che irride ai giochi circolari dello storicismo, intendendo
all’oltre
delle forme-limite dell’umano, polverizzando La sua stessa
avventura,
con l’innestarvi l’occhio chiuso della follia, il myster
master
of hyster mistermmouse dell’uomo mondo,
homme-dans-le-non-monde-le-non-mondedans-le-le-non-homme
homme-dans-le-mond-le-mond-dans-l’homme-du-mondedu-non-monde
le-mond-de-l’homme-dans-l’homme-du-mond-du-monde-pour-l’homme
sans-le-monde.
La
re-inserzione
suona dunque come inflessione attestante una pratica calcolata
ed eccedente, che metabolizza, variando, il mentale nell’obliquità
inaderente dello espurgo, che si segnala, moltiplicandosi,
nella scena
agglutinante di membra disjecta, sottratti all’indice di morte,
alla finzione
costituita dal ritorno del metaforico: eccesso di scrittura
(contro
la ripetizione idealista del nome-con-valore-di-divieto, della
retorica
dell’omissione), che cancella la gestazione dei segni di verità,
malgrado
la volontà dei segni, la diga di contenimento di forze disperse
costituita
dal pensiero che pensa se stesso, dalla voce che vocalizza il
suo
suono-idea.
Uguagliarlo tuttavia sarebbe disperderlo, e scrivere dire
la sua
dispersione, cioè annullarlo. Le regressioni sono infinite,
infinite sono
le
stratificazioni che occorre attraversare: Ulisse non è mai
tornato a
casa
e il canto delle sirene continua a inchiodarlo all’albero della
nave. Il
supplizio, certo, è immenso e i viandanti non cessano di sputare
sul suo
corpo cerificato. Là, l’errore; il fascino dell’incerto, la
mascella
aperta al desiderio: qua, il gesto il predatorio di chi si
appropria
del lavoro altrui. Filologi e critici contro Ulisse-Villa. Allo
stesso
modo l’atto unico che costringe gli attori ad accoppiarsi ogni sera
sulla scena
è per l’appunto un atto unico, un labirinto di identità,
un definito
storico che autocircuita l’artefice e il prodotto. Il discorso
come
discordia
non sa che farsene di se stesso: alla Eris greca si sostituisce
la vendetta, tipicamente provinciale, della gelosia, e Ulisse,
travolto
dal suo destino, egli stesso destino, sarà espropriato, al
ritorno ad
Itaca,
della casa, della moglie, divenute identità di altre
identità. Sempre
nel possesso immarcescibile della Storia, nella presenza onnivora,
teatrale
della licenza.
Siamo
così
giunti sul luogo ultimo di un montaggio scentrato, indiscreto
che
incondiziona
la risposta definitiva, il de nobis ipsis silemus della
mitologia
condominiale. Una capacità reale, un folle divenire eracliteo che
scolma
la discrepanza nella volontà unica di rompere l’involucro, il
paradigma
metaforologico della sublimità, del luogo comune, del potere.
Per essere
sempre più in là, fuori, pur continuando a rimanere
dentro, a
usare
i sensi abituali, a esercitare il diritto di piazza. Ed è proprio
questo
permanere, pur non essendoci, pur travestendosi ad ogni istante, per
poter
guardare
senza che la Scena introiti il suo sguardo, che rinvia
Villa,
madre del mondo come atmosfera, madre-drago, madre-mandibola che ci
danno conto
della sua omerica chiaroveggenza e della sua leggenda.
In luogo
di conclusione
Villa,
c’è
Villa, amante perduto, dio delle strade, dio delle porte, Villa,
madre del
mondo come atmosfera, madre-drago, madre-mandibola che maciulla i
rituali
ornati, caverna che procede, oscura, inghiotte sunyata senza cose o
ombre,
senza inizio di giorni né fine di vita, corp lombard, bel corpo
lombard,
non nato nel grembo, assorto nel vagare, addormentato, sognante,
disturbo
nell’universo inerte, Vila, Vila fio, bagài del Ginòtt,
corpo manale,
pozzo cieco, chora d’eroi, labirinto di morti, ladro di fantasmi,
barabbattola
di gibigiane, filo interminato di manaidi, suono sovrapposto
sfasato
scentrato catalogato arroventato bruciato pandemico ierale
micronico
opercolare, Villa, sfera dei possibili mondi che contiene,
circonda,
racchiude come l’occhio che incorpora il pene, spirito buono,
pesce,
uova, sassi, serpente, luce di panorama, chiuso in battaglia, morso,
tagliato,
bevuto, chiavato, oltre il gusto la benda il cartone, nostro
fallico
progenitrix mater dulcissima mater che salti nelle parole e salti
per saltare,
come l’occhio buono del ragno guardaci, guarda l’ombrello, o
tu
spermaceutico,
conta i nostri denti cariati, raccogli i nostri testicoli
vivipari,
perché noi siamo con te e tu con noi dall’orgia dei tempi e
audessous
audessus oh jesù deca delà deda dada danse avec nous
danse
avec nous,
rendici
la pulce che s’annida nella placenta rubataci, rendici il
nomen noumen
numen men, componi la tua ira sugli effemeridi, sugli
ingiuriosi,
sugli dei, pena nera che cresci, tautogeno progenitrix, mater
saeva,
eva.
|
|
Home
|
|