C’era la luna la notte
che è morta mia madre
le nuvole si
muovevano lentamente nell’altra metà del cielo
e il freddo
di febbraio era pungente quanto basta per tenermi sveglio
mentre
guidavo per andare là dove avrei trovato
solo un
corpo che aveva smesso di soffrire.
Non avevo
fretta né i rimpianti di chi non ha saputo dare
e se ne
accorge solo quando è troppo tardi.
Sentivo che
nulla di ciò che avrei potuto fare o dare
avrebbe mai
potuto risarcire il suo dolore
o essere
pari alla sua gioia. Così, ero sereno
come non lo
sono mai stato in questa vita di cinquant’anni
che è
giusto il numero degli anni che lei ha impiegato per morire.
E lei mi ha
fatto il suo ultimo regalo:
è
morta quando doveva morire. Non un giorno prima,
non un
giorno dopo. Prima o dopo non avrei capito
il senso
della sua morte, mi sarei disperato, provato rimorsi
o
l’indifferenza di chi ha paura di stare male, avrei detto, pensato
e sentito le
cose che in queste situazioni tocca a tutti
di dire,
pensare e sentire. E non mi sono stupito
né
creduto di avere allucinazioni quando mi è sembrato
di averla
vicino a me, giovane e bella e senza dolori
come non
l’ho mai vista, che mi carezzava i capelli
come non ha
mai potuto fare. Mi sono fermato,
ho guardato
la luna, le nuvole, gli alberi scuri della notte.
Fumato anche
una sigaretta. Poi ho ripreso a guidare.
Quando sono
arrivato, ho salito piano le scale, e sono entrato
con
discrezione nella stanza dove sapevo che avrei trovato
solo un
corpo che aveva smesso di soffrire.
L’ho
guardata che non respirava, gli occhi chiusi di chi è morta
senza
accorgersi che le era finalmente giunto addosso quella morte
che aveva
sempre invocata senza mai volerla veramente.
E mentre
baciavo il suo volto che si faceva freddo
ho sentito
che la morte non è la fine di tutto.
Le ho detto:
grazie.
Poi ho
potuto anche piangere.