Una
mattina
di metà Aprile, fuori c'è il sole
ma stranamente
in questa stanza c'è un gelo di pieno inverno.
Un uccello
ha fatto il nido nell'incavo della persiana
ed entra
nei miei sogni, petulante, svegliandomi prima dell'alba
e parlandomi
a tradimento di te in una lingua misteriosa che non conosco.
Una montagna
di lavoro mi attende al tavolo, ma stamattina
non ho
voglia di lavorare e ascoltando gli assoli di Piazzolla ad alto volume
penso a
come sia strano che i piatti nel lavello non si lavano da soli,
e che da
un momento a un altro l'erba potrebbe crescermi sulle pareti della
cucina
o la barba sul palato e le gengive,
e come
lasciarsi andare sia l'unica cosa che mi riesca veramente bene.
Quell'"essere
di nuovo felici inconsciamente" di Lawrence, letto non so più
quando,
continua a frullarmi nell'orecchio, insieme ai gorgheggi dell'uccello.
Ieri tornando
a casa, le striature del tramonto rosso-blu-cobalto
mi hanno
acceso di meraviglia come un quadro dell'Action Painting,
e ho sentito
come la realtà sia più imprevedibile
di tutta la letteratura
di questo mondo
e che le
parole sono come porte o varchi nella foresta per i nostri sensi
carnivori
a caccia
di colori di là da venire ancora ignorati dalla spettroscopia
umana,
per dipingere
tele che saranno sempre cattive imitazioni dell'arcobaleno.
Poi, scesa
la notte, la frizione è partita sulla superstrada e mi sono
trovato
solo,
le quattro
frecce inserite, tra un lampeggiare di fari che mi bombardavano
da tutte
le direzioni e le vibrazioni prodotte dai TIR imbizzarriti come
mastodonti.
Non sapevo
di quanto le strade fossero luoghi di una solitudine assurda
finchè
non ho sentito un fiotto di sangue salato panico salirmi su per la
carotide
e irrorarmi
il cervello. Allora ho spento il motore, ho spento le frecce
e, rilassando
la testa sullo schienale, ho lasciato che immagini di te
mi salissero
su per la schiena come ondate successive di piacere-calore mammifero,
quasi mi
fossi fatto una pera lì sulla statale, aspettando i soccorsi
che tardavano
ad arrivare. Era un pò come se ti fottessi nel buio sul ciglio
della strada,
in attesa che un camion ci prendesse in pieno e ci spazzasse via
nell'attimo
del venire insieme, roba da Crash. Le stelle,
che non
so se hanno mai provato tali sensazioni, brillavano con una
disperazione
insolita, ma mi rassicuravano, a modo loro, sul mio essere vivo.
Strano a
dirsi, la calma che mi ha dato la visione
di una
fine così dolcemente cruda ha rallentato in me la tensione,
l'angoscia
sterile di corse sparate di notte
su fatiscenti superstrade verso nessun
dove.
Alla fine,
quando il carro attrezzi è arrivato, mi sono sentito un uomo
nuovo
con i miei
trent'anni passati, il mio vivere per cose inutili come la poesia,
l'amore
che mi brucia dentro per te e ho capito che in questa mia inspiegabile
mania
di suicidarmi
giorno per giorno, non smetto di avvicinarmi a te e alle stelle.
E' stato
allora che ho riacceso il quadro del cruscotto, sono sceso dall'auto
e ho detto,
con la voce che mi tremava: buonasera.