Un
antico oggetto in ascolto
Il
filobus
Nella
rete del mercatino rionale
Preghiera
del due ottobre
Pignasecca
Fuori
orario
Paternità
Un
antico oggetto in ascolto
Rosamaria
è questa voce assurda
che promana
dal mattino dorato
fino ad
ogni mortale abbandono…
Io non sono
che un antico oggetto in ascolto,
frastornato,
diramato
nei labirinti della città arcigna.
Qui affondo
radici incerte
nello strazio
congelato dei battiti d’ala disperati,
meditando
impossibili fughe verso il cielo
(chissà,
la luce del tuo volto, ora,
oltre i
caseggiati!…)
E qui m’incarno,
nei ricordi
ricostruiti alla vigilia dei sogni
su questo
antico letto vespertino.
Suonami
una musica circoscritta,
o dolce
voce di memorie collaterali,
un canto,
anima mia,
che sia
motore d’un giorno vuoto e fiacco,
naufragato
in questa agitazione rumorosa
alla deriva
su pezzi di vita scompagnati
(che disordine
è questo, che blatera nel mio cuore?…)
Alla fine,
Padre!,
spogliami
dei miraggi superflui
ancor prima
che – sazio dell’ultima carne –
il buio
possa sorprendermi attonito
con la
bocca piena di polvere di morte
e il cuore
senza più l’eco lontana
d’un briciolo
d’amore…
Il
filobus
Terribile
improvviso lo scoscio del trolley
– ballonzola
uno di qua,
uno di
là oscilla per fatti suoi –
è
rotto l’incantesimo, geme il filobus
meravigliandosi
fermandosi di botto.
Ha sbagliato l’inesperto vecchio autista
allo scambio
del quadrivio
o la sdrucita puleggia con dispetto
non ha
più seguito il suo filo conduttore ?
Scende a terra il capitano, abile
marionetta
con i fili indirizzando le aste
sul giusto itinerario.
Riprende
poi femmineo un ronzio e vibra
arrampicandosi sui giri elettrici
il motore
invisibile – un “iiih” verso l’ultrasuono –
Rassegnata obbediente si rimuove
la verde
vettura
lungo la catena del corso cittadino.
Nella
rete del mercatino rionale
Nella rete
del mercatino rionale non ho trovato
smagliature
per fughe oltre questo mio stare
dentro,
disperato d’altre possibilità. Non c’è
un’alternativa
al girovagare intorno,
non
v’è
che una circoscrizione nota. Mia cara,
la nostra
è solo vita d’atomi contingenti,
fedeli
al tempo e alla terra, tese di braccia
all’avventura
inedita. Ma non ci sono indie
né
eldoradi.
Come vuoi che abbia quindi un senso
trascendentale
la nostra casa di adesso–qui,
la nostra
scaturigine dal grembo della terra
in questo
blablà confuso tra mille odori
e vedute
brevi? Non potremo mai staccarci
da queste
bancarelle, da questo mercato
che è
la nostra quotidiana Mecca.
Non congiungerti, mia cara, al grido roco
dell’ortolano,
non cadere nel pozzo enorme
delle
illusioni:
i colori i profumi l’aroma il cielo
il vento
il sole la gaiezza
di questo
mercato, è tutto racchiuso nel cuore,
ma la verità è Dio in persona
nascosto
oltre ogni possibile sfera o atomo di vita.
Perciò
non sarà la nostra mano ad aprire l’universo,
questo
nostro girotondo nel mercato e nelle piazze
non
finirà
che mai
(se mai è la parola che vale il paradiso,
asintoto
d’ogni felicità di noi
qui, abitanti
del quartiere spezzettato…)
Preghiera
del due ottobre
Defusco
Giovanni
operaio
della terza linea
nato a
Cardito il venti aprile quarantotto
matricola
treduecinquetreunoquattro
Questa deriva.
Questo
cancello che separa.
Questa
certezza dell’usuale senza alcuna meraviglia.
Questo
fardello, questo rudimentale eldorado.
Questa
fatica.
Questo
così sia.
O Signore,
non darmi
il nulla quotidiano: la mia vita
è
questa pezza di tuta grassa
da indossare
sopra i sogni, le speranze.
E non conto
i giorni: trascorrono insensibili e unti
dopo ogni
blanda cena casalinga.
O Signore,
non darmi
mediocrità: la mia vita
è
anche un piccolo morso di pane
racchiuso
in carta stagnola,
è
il break delle dieci e trenta,
un
caffè
e una sigaretta,
la
chiacchiera
sul goal mancato,
questo
andare e ritornare mille volte
sul medesimo
bullone.
O Signore,
non darmi
buio: oggi sbattono ali di operaio
nel paradiso
dei pendolari. La mia vita
è
ora questo viaggio verso l’altrove
dipanate
le nebbie dei deserti,
delle fredde
fabbriche del pane.
O Signore,
non darmi
colpa: la mia vita
è
anche questa morte improvvisa immeritata
capitata
al centro del banale grigiore
e infinito
disperato ricercarTi?
Senza ancora
saperTi come e dove?
Liberami
dalle catene almeno.
Dai dissidi.
Dalle rabbie.
Che’ io
possa ora risvegliarmi
alla via.
Alla verità. Alla vita.
O Signore.
Il giorno
dopo
un morire
d’operaio è martirio inutile:
produce
solo pena.
E noi
cancellando
dolori fraterni
dai nastri
magnetici,
avanti
a produrre meccanismi infiniti
di eterna
insoddisfazione.
Pignasecca
Pignasecca
sghimbescia affoga ogni metrocubo d’aria
ai passanti
scartocciati dal fagotto di Natale: a iosa
le facce
variopinte cosmopolite a lungo andare
si mischiano
si rimettono in fila. Stentano macchine
reclamando
un varco di diritto clacsonando intermittenti
insistenti
come la voce querula di Fortunato ‘o tarallaro
che passa
e spassa davanti ai Pellegrini (di tanto in tanto
uno strazio
di sirena che scotenna di brividi la pelle
e recita
automatici rosari di rinforzo
in superficie
di labbra alle vecchiette della spesa…)
Più
in là tenebrosa la ruvida funicolare risale
nel suo
antro oscuro, un biancore a malapena
s’intravede
lassù alla fine del lungo budello,
sarà
una vita che salescende, una vita che
arriva
e riparte, nasce e muore. Infatti
se una
sta giù l’altra sta su per forza,
e come
ogni cosa ha il suo contrario
anche noi
che stiamo qui a Montesanto
abbiamo
nostri fantasmi su al Vomero, gente
appena
leggera vaporosa, appena dolce e lieve
come angeli
d’aria nel paradiso dei terrestri.
Fuori
orario
La quattrocentocinque
al quarto piano
di Semeiotica
Chirurgica,
una due
letti incapsulata
in una
lunga silenziosa navata:
il tuo temporaneo
patire.
Mistico
andirivieni
degli addetti
ai lavori: taumaturgici
candidi
camici, le macchie rosso sangue
qua e
là
– a indicare
l’alta
professionale uguale per tutti
dedizione
/ indifferenza…
e il tuo
cuore inchiodato a capoletto!
dove hai
pure un numero, il duecentodieci
– ben
avvitato
alla parete –
e immatricola
la speranza
per un
domani di felicità,
sanata
la carne che fu d’impedimento
alle quattro
capriole sui prati verdi.
Gli amici
son tanti: fuori orario
ahimé!
Il custode
ad uno ad uno
per
carità
cristiana autorizza
prendendo
buona nota
del patema
di ciascuno.
Paternità
Dicevi dunque
che non c’era più da fare nulla,
questo
malanno è ormai compagno assiduo di sventure
verso
orizzonti
bugiardi e impietosi. Pure,
non so,
padre, quale forza ammiccava
nel tuo
occhio settantenne, consumato
da visioni
di perpetui arrangiamenti,
che cosa
dava l’ultimo vigore
ai tuoi
passi verso una speranza disperata,
tesa alla
preghiera silenziosa
del tuo
ultimo perché.
Dicevi pure
che la pelle si è sgualcita troppo presto,
accucciato
nel letto della sera
frequentemente
chiuso da una fredda
spalliera
d’ospedale. E l’affanno del petto
che cercava
la vita in un metrocubo d’aria ossigenata
era poca
cosa al confronto dell’orrore
d’un prossimo
possibile distacco dal pianeta.
E non potevi
trovare barlumi di risposte
se non
nel nucleo del tuo cuore religioso.
Ora io mi
nutro della tua aria misteriosa
vagante
per mille e mille notti musicali
in una
laguna di canti melodiosi
dove il
tuo clarino era scettro di re
e strumento
di vita avventurosa.
O Signore,
se Tu veramente sei l’alfa di ogni cosa,
anche di
queste squattrinate molecole di padre,
Ti prego
di riunirmi a loro, reintegrate
dal Tuo
enigma di luce, quando sarà l’ora
del gran
rimescolìo di terra e cielo
nell’omega
del mondo.