Incipit
vita nova
Ars
poetica
Lenità
della sera
Nei
campi di
Amandola
Il
pescatore
So che questa sera l’aria
profuma
dei tumulti
dei torrenti anarchici.
Rimango
nell’attesa del tramonto
e guardo in
su, verso le prime
stelle:
le vedo
fiaccolare al vento dolce
della sera
che mi accarezza i
capelli.
Nel manto
blu, nei villaggi del
Mai Più
e del Per
Sempre, luci marmoree
emergono dai
fondali del cielo…
lassù.
Rimango assorto
nel silenzio,
pianta tra le
piante, fiore tra
i fiori,
vivente in
tutto ciò che
mi circonda.
E nel
Silenzio che più
mi ammaestra,
tra la
ginestra e i ricordi di
ciò che ero,
tra il cardo
e l’eco di una primavera,
colgo i
frutti della mia vita
nuova
nei lontani
tumulti della sera.
Ars
poetica
Verdi le mie mani sull’erbe
dei fossi e
sui dossi in penombra
dove le sere
il profumo saliva…
Le ricordo
ancora, virenti
nell’ora in
cui il fresco fogliame
distillava i
silenzi dell’estate,
e ostinate
radicare su zolle
aduste, su
sassi riarsi,
perché
non cadessi: salivo.
Attorno tutto
esultava in bellezza.
Dapprima mi spinse il vento fraterno,
seguendo i
densi effluvi del
tramonto;
la sera come
una donna veniva
a dissolvere
il buon travaglio
e il caldo
sudore, rorido in
fronte,
in novelle
natività di
frasche.
Salivo. Il
rarefarsi della luce
mi
arrestò a contemplare
più lieve
la calma
levità delle
lucciole.
E invero
tutto esultava in bellezza.
Fiori di zendado, magenta e d’oro
vibravano nel
rigoglio, il turchese
degli ulivi
e, sotto il lontano
mare
verde
Veronese, il vasto maggese
assorto tra
prati di alizarina.
Più
lieve mi trovai sull’erbe
e i fossi…
Ma era ormai
tempo di cogliere,
al rarefarsi
della fresca estate,
con le belle
parole della cima
quel nuovo
pensiero che a lei
s’appressa.
Dietro la collina la sera ardeva,
placida
ardeva come un lago,
tra i roggi
tizzoni di vaga brage.
Poi
tornò il vento. E
fui colore.
Lenità
della sera
Fumano i campi e il letame e nivea
la luna dorme
l’acqua dei canali.
Ora si leva
il placato murmure
delle
ghiandaie, ora si giace
tra limpide
erbe la sera che
tace,
che veglia la
quiete dei pollai.
Tramonta il
sole sulle rudi mani,
ed è
il ritorno a casa,
il focolare
e la dolce
sposa al seminatore.
Glauca
traspare la luce dai vetri
delle cucine
nelle umili case,
se il cielo
fermenta di gioia,
se la brezza
frinisce tra i frutici.
Un’ape
frattanto ultima s’annulla,
plasmata col
bronzo del sole,
nel fondo
delubro di fronde.
E la luna
danza nelle cisterne.
Nei
campi di Amandola
Bianca la luna galleggia di spume
nel cielo
azzurro sopra Sassotetto,
o cera algida
dopo aver arso
leggera e
soave tutta la notte.
Ma, sottile, svanisce sempre più;
svaporare,
spengersi sembra,
piano.
Si dissolve
la notte che era
scura
come
l’inchiostro con cui scrivo
il verso.
E vince il mattino, vince, e tu,
bimbo,
osservando
pencolare la sfera
ancorata
sopra i monti, socchiudi
talora le ciglia, teneri abbracci
d’ali nere, e
forse ti stai chiedendo
se anche
sulla luna scende la
neve.
Il
pescatore
Sotto palpebre rigate da stenti
senti
scorrere il vento, e lì
celarsi
due frammenti
di scoglio ancora
ardenti,
fari che si
spengono in alto
mare.
E amare le mani in tasca, e l’esser
solo.
Le ciglia
bianche una folata
increspa.
È
inverno: il sole è
a picco sul molo,
e naufraga
nel cielo di cemento.
Il tuo sguardo fruga lontano le
onde.
Nell’acqua di
cenere sembra suggere
requie, e
come marea ti confonde,
mani in tasca nel cappotto consunto,
la nostalgia del tagliente orizzonte
di cui, in geometria di vita,
eri punto.