1-
Chapeau
2-
Capestrano
3-
Niente
4-
10 haikai augurali
1-
Chapeau
Roma mi
guarda col suo occhio strabico,
da un insieme
di distanze incalcolabili, di labili
percezioni,
di cancellazioni, di nulla: col suo occhio
strabico
stracotto ch’è una rosa di stoffa, gialla,
sporca
di rossetto, e ora simula una stolta margherita
dello stesso
colore tubercolotico, e si lascia
stringere
nella notte che cresce tra cielo e cristallo
-superficiale
vanità- da un nastro assai poco astrale
di carta
plastificata blu, dentro un vasetto Deruta.
Roma fa
prove di sopravvivenza nella notte, con funesto
scialo
di lampi, donne svampite, squagli
di
cioccolata,
mutismi da tagliagole. Affonda
nell’onda
del suo ombelico di pietra dolce, è un manichino
moltiplicato
che mi guarda col suo occhio strabico, cadendo
in una
pozzanghera con tutta la sua flotta
sbandata
che passa da un ritardo all’altro senza mai
approdare
a un castello giusto.
Roma mi
fissa in francese, e non mi vede, col suo grande
visage
tumefatto: e si sogna in un caffè storicamente
determinato,
in un pezzo di Rinascimento postmoderno, indossando
scarpe
di coccodrillo miliardarie e reliquie
che le
permettono più di un pentimento, di una
lacrima
elettronica, un singhiozzo: mentre
con qualche
chilo di goffaggine più del necessario
mi muovo,
vecchio ippopotamo cieco, e mi congedo
da quasi
tutto. Chapeau.
(novembre 1997)
2-
Capestrano
per Francesco Manzini
a-
Il mondo,
parmi, si fa beffe di noi. Francesco amico
così
poco francescano che ti muovi
nella pittura
come una foresta tropicale
allagata
di cemento, con guizzi felini, velocissime inerzie,
acredini
mielate, ansietà notturne (o mattutine), decisioni spaziali
di
geometria
implacabile, in quest’ombra che acceca.
b-
Ma il mondo
è stupido, lo sai. Crede ai fantasmi
e non li
crea. Noi, in compenso, ci nutriamo di carne umana: della nostra
carne
corporale
e mentale, di una fedeltà
portentosa
a un’ossessione che non si polverizza.
E poi,
tu ridi: nella bufera
e nella
festa, col tuo bravo sarcasmo
inaddomesticabile:
e metti in scena
il rovescio
delle cose, albe illividite dei pensieri
che non
camminano.
c-
Così
Francesco, respiri il tuo smog, che è lo stesso
del mio:
di me che amo le tue figurazioni, le tue
cancellazioni,
i tuoi marasmi sanguinosi, dentro
una terra
abolita. Mordi la lana
dei nostri
abiti: ne uscirà solo pus, e qualche rivolo
di memoria
desolata. Ma lo spazio bloccato
dei tuoi
quadri è uno squarcio esterrefatto nella cancrena
quotidiana,
una crasi nella sordità della vita
che non
vive se stessa.
d-
Ascolto
la tua pittura parlata. La sento come un rombo, o come
un fraseggio
leggero. Tratti
con la
distanza appassionata di un esploratore
senza
speranza,
lungimirante e cieco, una materia
sordida
e sottile: e ne fai, in ragione di sincopi
fondamentali,
un grande, misterioso registro di attenzione.
Questo
è respiro e mano.questo è rètina e gioco
Che scherza
con la morte.
e-
La tua,
Francesco, è una scrittura bustrofedica
che si
fa apparizione capestrana: e ora, qui, oggi, in questa
giornata
di nembi senza furore, immersa
in una
bolla di vuoto, ti saluto
con
solitudine
fraterna: tu chiudi gli occhi
sotto l’ala
del tuo cappello di feltro a falde larghe, e insieme
chiediamo
chissà cosa al guerriero
venuto
da un qualche illocalizzabile pianeta sotterraneo
nel suo
buio radiante,
col suo
enigma.
3-
Niente
Tutte le
epoche e le ere, tutte le cronografie, le secolarità, i
millenari
spazi,
le
inclinazioni
del vivere sincopate e lentissime, sono stati attraversati
in un unico
turbine dai saggi e dai mentecatti, con estrema pacatezza
o
velocità
delinquenziale, mentre il vino maturava nelle botti di rovere.
Tutto ciò
che è connesso al fluire degli anni e al morso dei giorni che non
perdonano,
tutto quello
che resta delle cronologie autentiche e di quelle manomesse,
vizi,
virtù,
splendori, insufficienze, insomma tutto quanto scola dalle fessure
di Crono,
tutto ciò che egli defeca o vomita o semplicemente rifiuta, tutto
(o quasi)
si legge ormai su questa mappa delle segnaletiche usurate, piatta,
di un unico
colore, simile solo a se stessa. E’ la mappa del niente, e di niente
parla,
nel suo silenzio che non è silenzio, nel suo fragore che
è
solo afasia.
4
– dieci haikai augurali
Incenerita
violenza
della luce
dentro
le nubi.
Brilla la
neve
al bacio
della luna,
casto
inatteso.
Era la linea
della collina
muta:
era la
morte.
Nella tormenta
ululavano
i lupi
di quel
sorriso.
E’ la campagna
uno scenario
d’ombre,
ma
lampeggiante.
Verde sipario
grigio
d’alberi e rovi,
là,
nel Cerreto.
Si stacca
netto
il falchetto
vorace,
ed è
scomparso.
L’acqua
matura
con la
forza del vino,
dentro
le polle.
Chi nasce
grida.
Chi sceglie
la parola
abita il
vuoto.
Orme non
vedo.
Non odo
voci. Tutto
si spegne
in niente.