Sans
passion il n'y a pas d'art
Calamus
Almanacco
di poesia
Francesco Giusti
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Voyage en Italie
Voyage en Italie
La morte sta
nascosta negli orologi
per fermarvi
le sfere in mezzo all’ora;
e nessuno
può dire: domani ancora
sentirò
battere il mezzogiorno di oggi.
Sul tardi
non resta
di questa
sottrazione
che un
annebbiarsi di coscienza
la presenza,
se c’è, scolora
scavo a
parole in quel dolore
cha non ha
parole
e non ha
ragione.
E va bene,
va bene
comunque,
resta poco
si sa,
ma poco
altro abbiamo
da fare, da
respirare.
Manca un
modo di prenderci per mano,
una
strategia per vivere su questo lungotevere
disfatto, su
questo letto di pietra intorpidito
da sonno e
dalla poesia, da qualche pagamento
troppo
lecito. Siamo partiti ormai che è quasi
un anno e
resta poco ancora da dimenticare.
Non manca
però il tempo
per un
caffè, per un ritardo
organizzato,
certo, armonico
col mio, col
tuo disinteresse
e la ricerca
d’altri. Appena
all’angolo
di via Renella.
Dimenticare,
me da me assolto e riposto,
è una
difesa
scolpita
negli orologi, nei calendari
nella
ricerca d’un bar
che sia
deserto per noi
dissertare
poi è nostra competenza
vuota, o
almeno mia:
meccanico
debitore di sogni,
tanto ci
tornerò
per altri
quarant’anni.
Dov’è
oggi? A cercare
qualche viso
che conosca
su un volo
per San Pietroburgo
posto
accanto al finestrino
e non lo sa
che non si
viaggia
se non ci si
allontana
se trovi
sulla Neva
un altro
lungotevere deserto
cercando
un’altra vita
con cui
prendere un caffè
ma
c’è solo la luce diffusa
dalla nebbia
e un uomo
in frac e
cappello a cilindro,
o diversi? E
anche delle donne
senza volto,
che sia cipria
o la memoria
poco importa.
È
l’ennesimo paradiso
artificiale,
stanco, artificioso,
non ne
rimane nulla
quando la
nebbia si dirada.
Viaggio che
ritorna
ad un inizio
lungo
centinaia di chilometri,
a discutere
d’interpretazione
su una
banchina
con un ritmo
da discorso
quotidiano
interrotto
da tre
scalini
alti appena
quanto basta ad perdere parole
a far
scivolare nell’acqua alcuni punti fermi
punti
catturati da una bugia liquida e fredda
senza che la
parte migliore resti viva
e poco altro
ormai abbiamo da darci,
la pena di
iniziare è pena troppo grande
ridare
accordi alle giornate
e vestiti
presentabili ai corpi
allattati da
mancanze mai
davvero
gravi, artifici vani
per
dissimulare confidenze
orientate
alla resistenza
estrema
senza che sia possibile
distruggere
innocenti passeggiate
interrogazioni
ad atlanti, enciclopedie.
E un po’
rinasce Africa, un po’ Cina
questo
continente ininterrotto
di pensiero
che trova amanti
nel silenzio
della geografia
e nei
clamori della storia
e colleziona
piatti sporchi
di pasti
consumati altrove,
forse. Un
viaggio recente
pianificato
in un bar
davanti
all’ennesimo caffè
non conosce
che accenni
d’accenti
lirici interrotti,
di parole
apparecchiate
tra i
piattini e i sottobicchieri
che danno
sensazione
di talento
trascinato
di ambizioni
deluse
di un
ritornare dove
non si
è mai partiti.
E riconosci
d’essere stato tu
a scegliere
un matrimonio cannibalico
col corpo
proprio
e d’altri.
Tento a scrivere
lettere
calligrafiche, mediate
appena
dall’indifferenza
dovuta ad
ogni circostanza
occasionale,
reale quanto basta
a dirsi
vivi. Certo
potrebbe
esserci in quella mansarda
di
Trastevere la certezza
di doverci
davvero
delle scuse,
la linea tirata
sotto al
mento
è la
prova di strade
e spezza il
corpo
il mio se
non il tuo,
le occhiaie,
le emicranie
il vago
senso di dolore abituale
a poco
serve, il corpo
non è
il mio
il tuo
giardino,
foresta,
deserto.
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