Senza titolo
Senza titolo
“Ma
io ti chiamo ancora, in piedi,
(mi stremano
gli
spifferi, vedi),
e il tuo
sguardo mi
respira
come
pietraserena; e ieri,
anche,
sull’argine del
buio
mi dicevi:
lascia che le
mie
labbra
almeno. Invece
io,
più
sotto, gli
occhi sudando,
avevo perfino
le ginocchia
già
pronte per
balzare
in alto;
le ho
lucidate bene, dico,
e, al suono
delle tue
braccia
aperte, poi
mi sono
tuffato
nell’angolo
più
acuto,
dove il mio
corpo
barcollava,
gonfio di
semi,
spingeva spingeva.”
…qui, dunque, vicino
al mucchietto
dei libri,
la mano in
tenzone con
l’oscillante,
semivuota
tazzina da
caffè :
io
che sfiatavo, senza più
calma, nel
tepore dei
tuoi “smettila,
dunque,
o ci
vedranno”. Eppure,
senti:
non conoscevo
il festoso
saluto dei
lunghi
giorni già finiti,
non sapevo
cosa fosse il
far
di conto
col respiro
stupito: non
conoscevo,
credimi,
il levarsi da
terra
tramortito,
lo sfinente
chiarore
dell’ultima
battuta.
Ora di certo
ti sforzerai
di
accogliermi sotto
una luce
provvisoria,
come il
passo disarmante
della
pioggia, come uno
sguardo
che
prodigo
m’invita e
d’improvviso
s’allontana e muore.
Ho il passo di vetro,
ora che
m’affaccio
curioso, ma
col timore
del risveglio:
con gli
avanzi dei nomi
che fanno
già
tremare la
pace delle
labbra:
è
questa, mi
dicevo, l’ora.
Potremmo,
felici, svuotare
le mani:
scioglierle,
adesso,
come
armi
inservibili: ora
soltanto,
mi ripetevo,
si potrebbe
aspettare
silenziosi
l’aprirsi
della vita,
distesi in
una dolce
finta,
come un
docile cavo
sorpreso dalla luce.
“…Le tue calzette, senti? mi tagliano
gli occhi, poi francamente non t’aspettavo. Ero sotto le lenzuola,
sconcertato
dai miei verbi e dalla carne in subbuglio. Comunque, ho paura di
entrarci,
amore mio. Vedi. C’è a tratti un fiato insopportabile che mi
schizza
sui piedi: mi si lancia addosso come un pugile astioso.
“Poi mi
diceva, ieri,
l’infermiera
(la più bella, che ha i denti come specchiere e le ascelle
odorose
di limone) mi diceva: lo sai? che quasi? (qualche parola l’ho
perduta,
perché sbatteva così forte l’uovo che ho dovuto, a un
certo
punto, chiudere gli occhi). Io le dicevo, poi, di pitturarmi la camera
più chiara: così le formiche le vedo meglio.
È
tutta una questione di colori. Sono formiche deliziose: amano prendere
il sole distese sui miei escrementi.
“Potresti
respirarmi
più
forte, più forte. Vieni vieni. Sono già semivestita.
Perché
m’impugni le gambe come fossero spade? Dice ansimando. È
ovvio
che sono invidiosi, i medici, quando mi apri il corpetto i lacci la
vestaglia,
quando t’insinui come una trota ansiosa in mezzo alle mie cosce,
cominci
dal maglione poi scendi e mi dici che baciarmi è come far
vibrare
l’occhio di un limone, dici”.
È così
calda la
stanza: meglio è dormire
nell’acqua,
dopo i gelidi
nastri
chiusi
sopra la
vista,
perché
l’estate
dolorosa
l’opera
continua, più
feroce, col
richiamo dei
volti
che la lingua
m’assilla:
ora la mano
spezzata
è
dalla luce, la
memoria
come terra
d’incenso
che pronta mi
consegna,
con ostinata
cura, ai
gusci
della notte:
ma è colmata la
distanza,
il mare si
separa dal tuo
viaggio,
solo per poco
tu
riconosci ancora
l’insegna, la
panchina,
il succo
dolcenero
delle strade:
è
tutto
rimandato,
oggi non vuole,
si rimanda
perfino –
sospiro,
occhi
stupiti, - la tanto
attesa
esecuzione.
Perfino l’ombra lunga
mi conosce
con infinita
cura : lascio
nell’angolo,
in attesa di
un docile
riflesso
luminoso,
il vecchio
mantello
e le bandiere
:
partire
potrò
più
facilmente,
adesso;
come un
piccolo
animale ora
mi
stenderò,
tremante, su
per le
scalinate:
così
potrò
sgusciare
silenzioso,
rompere
gli occhi
sulle strade
soffocate
dalla luce,
ritrovare gli spaghi
cadere a
piacimento
…ma poi la gola ,
vedi, non può
che fissare
i frammenti
che non vede:
mi
sono perfino
travestito da
calmo
giorno perché
possa tentare
una fresca
risalita: ora
–così
allarmato, scrutando,
mi
consigliavi –devi
deciderti
infine, legarti per bene,
finché
non si
cancelli
questo nero, minuzioso taglio
che t’assedia
la bocca: e
gli
acidi fili da raccattare
ancora,
quanti ne hai:
ora perfino,
che lei mi viene
incontro e mi
dice
cortese che
“l’amore è saltare
i battenti,
è
cadere nella
terra dei segreti”.
tra le mani
rovesciato soccorrevoli,
segnate dal fuoco
nell’offerta,
che mi
staccano
adesso luminose, ruote
dolcissime
vedi che
adesso,
ti tagliano pure:
quando
è tutta
perduta
nell’allaccio più duro
che nel gioco
si ripara
nell’acqua,
nella legata,
amara terra,
con la sua
lingua
di furia coi gesti
dolci neri,
contro ancora
la
caduta sottile che
germinata
irrigidisce
vedi, che
s’apre alla cenere
dei tagli,
all’impuro
dimorare
dove arrossisci
almeno:
perché il
tuo
volto chiuso che ascolta
già
punteggia le
dita, dietro le bende pure, come
sospiri
che
infiniti ascolti,
ora socchiuso, certo,
senza richiamo alcuno
“e queste macchie ora
che dolci
si consumano
e scendono
sopra
le mani e
sbirciano nel
freddo,
misurando la
luce; e mi
spingo
al tuo mare,
adesso, e
gli occhi
ti respirano
e t’assediano
come sirene
gentili:
oh la notte che vuole
smarrirci con la sua
boccapiena, e così
sia…”