VICO ACITILLO 124 - POETRY WAVE
Electronic Center of Arts

Direttore: Emilio Piccolo


Sans passion il n'y a pas d'art


Calamus
Almanacco di poesia


Gabriela Fantato

   
La condanna
Un amore dal passato
Ripamonti 16
Invocazione
Una stanza in rosso
Ancora nella casa d'infanzia
Prigionia
Postazione
Bracieri
La casa viola
Un tempo immobile
Prigioniero di echi
In quella casa
Storia bianca
Capodanno
In salita
La casa demolita
4 luglio 2005
Per un addio

La condanna

-punta al collo- dicevi- al centro
d'equilibrio tra sangue e voce
(la condanna si fa destino, urlo
 a tenere quel poco nella gola)
-proprio esatto, chiedi, proprio
nel rosso della stanza-
Scivola piano il mondo dentro 
al morso che mi dai
dentro questo male che ti regalo
tra pollice e indice 
nel punto che fa diga alle sillabe
(la parola è solo un livido nel buio 
 dentro la bocca, spalancato).
Forse è amore questo o solo
vita: specie a specie
sintassi per la salvezza antica
di un corpo dentro al corpo. 
Io resto appesa al respiro 
tra le lenzuola lisce di noi
legati al gesto ripetuto 
(e ci perdiamo in altri passi).

Un amore dal passato 
a Francesco I

ancora ti conosco nella ruga
a dirme le tue motociclette
e il muro crolla sul bianco
dentro al torso della mela 
(invoco l'abbraccio che monda
  quel fiume non più asciutto)

ascolto la tristezza farsi stoffa 
molle, nel cassetto di cucina
dove la fuga è fuga e nient'altro
e il coltello separa i pezzi, i corpi
(il tuo sorriso sa l'ombra umida
 dove la ferita apre castelli)

carezzo la pazienza del buio
nei tuoi racconti lunghi, rosario
appeso dentro le nostre ore
di un viaggio che non faremo
(la preghiera si consuma
 in questo addio del sole)

la sera chiamo ancora l'abbraccio
quelle labbra non più magre
ad aprire tutte le finestre
(ci sono chilometri tra piedi e mani
 anni prima di capire 
 la solitudine che saremo)

Ripamonti 16

Fossi un pittore fermerei 
quest'attimo, la precisione del respiro
il battere delle arterie in via Ripamonti
(ogni angolo è perso nelle spalle
 ogni piazza ha spigoli 
 a separare il giorno e minuti).

Conto le fermate: una, due
- sono nove, dicevi, di arrivi 
e sempre partenze a tagliare
quel bacio sulla casa-
Mi afferro al punto, gancio 
stretto che tiene la mano
e suona l'una di un giorno
(mangiamo un antipasto
 di olive e parole
 nel desiderio che piano
 lima la radice).

Invocazione

tienimi il brivido alle dita
quel battere tre volte
per farsi riconoscere alla casa
chiusa a muro e l'inverno di cemento

regalami l'innocenza della pelle
quella carezza bianca come i sandali
di un'infanzia dentro gli occhi 
a tentare il passo sulla riva 

ti darò la mappa delle strade
tra il sangue e la precisione della mente
(quella solitudine che fu pavimento
 dei miei sette anni senza vento) 

ti regalo questo giorno che brucia
nel tram e sbanda intera la sua corsa 
proprio là, dove il salto corre
alla porta che apre piano la casa

Una stanza in rosso

Forse è vero, sarei una lama 
a farmi solco, innondarmi 
rughe e figli adulti al male
in queste vene senza pudore.

Lascio maturare piano la vite
sul tronco delle gambe, nell'incavo
delle tue mani al collo 
dentro un'estate asciutta
di fame lunga a chiamare
il passo del condannato
quel colpo che lo strappa
(la voce che salva nell'addio).

Ti regalo quest'infanzia persa
nelle lenzuola e un salto
a quelle mie radici nella testa.
Tu respirami pesce di acqua buia. 

Ancora nella casa d'infanzia

ti ho visto mentre volevi
colpirmi con quel tuo giocattolo
a spigolo dentro il cuore
(spalanchi il diametro d'infanzia
 nello spazio che scivola senza
 finestre in questi metri di sale)

ti negherò il tetto, la salita
la cappa del camino da cui fuggire
(sparizione nel nero dell'inchiostro) 
ti darò altre notti dove la vita 
è punto della tempia, balzo
senza tela a contenere

Prigionia

Ti regalo un bracciale
gancio nella pelle a contenere
-mi dai quest'infanzia d'argento,
mi metti le manette . Non volevo-
(il clic segna la sconfitta, il morso
 stretto tra le mie dita)
-mettimi quel cappio, dici, dammi
 quel doppio attorno al cuore così duro-
(carezzi le grinze, quella cenere
 di sigarette e d'anima) 

Incido piano la mia legge dove
si apre una linea esatta, senza voce
-ti manderò la chiave impedita
  quella tra ieri e mai-
(mi farò racconto a pendolo
 cantilena di questa prigionia).
Domani resta un foro, corridoio
tra le stanze e un silenzio.

Postazione

Alla batteria a picco
nel verde - casamatta del '40 -
ho visto i bordi di me
quel paesaggio interrotto 
tra scogli e lecci
quel ponte sempre spaccato
perché il nemico resti di là
e la porta a spina di cactus
senza nome al cielo
(l'allarme batte un lamento
  di volpe rossa, a pelo lungo).

Sul muretto di cemento a frantumi
tra un foro e il tetto 
ho alzato ancora l'ultima grata
alla mia gola di lontra
senza più tana, senza
una guida al sentiero d'amore
(resta un tunnel tra me
 e te che guardi, cerchi lontano).

Aspetto immobile che torni
l'abbraccio d'inverno 
a consolarmi, enorme

Bracieri 

Dici- qui bisogna stare 
in attesa che passino le ore
in sonagli dentro mattine
bambini in destino
e sassi in fondo alle fotografie.

Nella solitudine raccolgo
ancora le lastre di granito
a costruire soffitti e sillabe.
Aspetto la stagione 
quando verrà il temporale
dentro la tua saggezza

La casa viola

Dentro la panchina, al parco
ti ho portato in mucchio 
tutte le mie case, il solaio 
e la cantina, perfino lo scalino 
rotto dentro al fianco.
Ti ho aperto quella stanza
dove il letto si allunga rombo 
nell'infanzia senza le finestre
(come monaci i binari 
 nella stazione di Milano).

Ti ho portato per mano
quasi in corsa nella casa sghemba 
della sera, senza l'angelo 
sopra il comodino
senza un'acqua a dissetare.
E’ viola questa casa, con le candele
accese e un angolo dentro al male
(è gialla ancora di silenzi
 arrotolati nel cassetto) 
mi parla di rumori e allarme
dice di restare, dice
l'attesa che si fa saliva.

Chiamo spesso il sonno
ad abbracciare sillabe e respiro.

Un tempo immobile 

c'è una furia piccola dentro
ai tuoi denti mentre mi cerchi
là, dove il respiro si fa pudore
e ancora mi cresco bambina

c'è un mare dentro all'ombelico
e si fa grotta la mia paura 
sottobosco la tua pazienza 
e ti sento madre e padre 

restiamo distesi tra le lenzuola
a perdonarci questa fame
d'abbracci e saliva
ancora soli in fuga verso est

Prigioniero di echi

Lui ha intagliato il suo cuore
tra sillabe e nastrini
per la scatola grande della gola.
Ha cancellato piano tutti
i sorrisi come un gioco bambino
svanito alla riva d'agosto
(le spalle a triangolo disegnano
 quello spigolo al mondo)
- un'impronta dirà del corpo
  sparito e la morte così gentile?-

Nel bordo della sua mano resta 
solo un gancio appeso all'unghia 
a tenerlo stretto alla stanza
(lo spazio del giorno è una soffitta
  affamata di giorni e fotografie).
La bocca si è consumata ad ogni pasto
tra il morso e quell'unico bacio
(nella gola ancora quel nome, 
 quel nome da pronunciare) 

In quella casa 

Ci affrontiamo in giocattoli di ferro
dentro un'estate ghiacciata 
nel gradino d'uscita
inchiodati nei piedi e nelle mani 
a quel sorriso dentro una cucina
immobile di caffè. 

Cancelliamo i mesi che vengono 
a portare orizzonte al calendario
in quest'infanzia assegnata 
(come sillabe perdute s'inseguono
 i desideri alle ginocchia)

Le rughe della mano sono
cantilene appese ai muri.

Storia bianca

La ragazza in bilico cammina
sopra coltelli di ogni giorno
(scopre la punta delle ginocchia
 sente il corpo franare sulla voce)
-vieni, bisbiglia, vieni amore-
il suo ventre sa l'ondeggiare lieve
quel restare immobile in attesa
a pregare un abbraccio che mondi 
(attorno fogli casti aprono menzogne).
Della pietà lei nutre la sua sparizione
quella fame lunga d'amore
-vieni al cuore rosso, vieni-
apre la gola e si regala intera
nelle braccia a croce aperte, a chiodo
si offre conficcata.
Chiama quelle mani sottili a prendere
a strappare la vita ai fianchi
invoca la sapienza che salva.
Sorella morte.

Capodanno
a Milo

Abbiamo mangiato insieme
per questa fine d'anno
segnata nelle scarpe 
come una strada nella mano.
Rideva Daniele-ti ricordi?-
lanciando fuochi di petardi 
( chiamava le sue stelle
  venute piano piano nella sala)

Abbiamo stretto in mano la moneta
offerta di passaggio
sedendo nella piega che sempre
taglia a picco sul presente. 
Ridevi piano tu e controvento
annusavi il tempo che si spezza
pioggia su gocce, nel tombino
avanti solo un passo 

Sei andato via - era mezzanotte -
enorme il campanile nella testa
voragine che attende
alto, al bordo di un amore. 

In salita

Andiamo su questa strada
a passi cadenzati dentro la vendetta.
Conosco la tua ostinazione
alle regole di marcia, conosco 
l’assenza, quel passo di soldato
ostinato al compito.

Il sentiero divide lo spazio
tra schiena e cuore, là dove si apre
una radice nella gola, punto
sottile tra condanna e respiro.
Domani forse sapremo 
la parola d’ammutinamento.

La casa demolita

Erano già entrati nella casa
a ripulire i muri dal passato
a segnare porte dentro alle porte.
Non si erano accorti che il dolore
pietrifica la soglia, là dove il balzo
si fa intimità dei corpi, dove 
la voce sa il nome esatto 
di pane e tramonto.

Adesso la loro casa si apre 
spaventoso foro dentro al passo
e le travi lamentano la resa
strappo netto alle radici
tra questa giovinezza e la poca vita.

Adesso abitano quelle stanze
senza lune a rischiarare
solo la cifra è siglata nel tappeto
e l’occhio non smette d’interrogare.

4 luglio 2005
 

Il sentiero sul lago

Sulle rive, c’è un sentiero. Se lo prendi 
e giri a destra, trovi il buio,
il passo senza traccia. Un umido di felci 
e pozze coi girini. Questo è il lago, 
quello coi ragni  a fior d’acqua che scattano 
se sposti la loro immobile esistenza. 
C’è un odore di terra fradicia, 
di legno che dà la casa alle formiche rosse,
le tiene strette.

Siedo e i rami si alzano in attesa. 
Vorrei sapere la pazienza della foglia 
che si fa verde ancora e poi è di nuovo
inverno: senza sosta. Vorrei scivolare 
zolla tra le pietre, farmi radice dentro 
al nero per ascoltare i segreti mormorii. 
Vorrei, ma i gesti sono 
crampi e la bocca non smette le parole. 

L’acqua cerca il sole che la scaldi 
e io invoco un abbraccio grande 
e molle, come il fondo del lago che raccoglie
i sassi, le cose  perse: andate a picco 
nella rena. Anche i barattoli di ferro.
Laggiù, sul fondo, si dice dormano 
gli amanti non compresi, chi si uccise 
per dolore o per la paura che prende 
a volte, verso sera. Ascolto il lago, le sue 
fiabe di gioia e di spavento. 
 

In poche ore
 

E ci sono attimi sbagliati
già domani. Ripassi il conto,
il gesto e gli anni chiusi, sigillati
nel  tuo contrabbando di fotografie.
Al cuore tieni i ganci per fermare
i sorrisi e le bocche. Forse un mattino
ti sveglierai e tutto sarà chiaro, 
ordine preciso nella testa 
pronta al colpo, sottomessa 
come l’ape al miele. 
Forse combattere sarà stato solo 
una disobbedienza pagata, 
un salto mai imparato, come quando 
c’era la cavallina e tu ferma, 
pesantemente ferma a terra.
Forse sarà tutto chiaro, sarà una sera 
come tante e verrà la fine
nel giro di poche ore.  

Da Una geometria forse

I

Forse il peso che sento nelle spalle
è questo mugolare - la materia
parla ostinata, a sottintesi -
è un ronzio che striscia dal metrò 
alle case (al piatto, al tavolo da pranzo
all’occhio, alla narice abituata al senno).
Nemmeno i balconi sanno tenere 
il sibilo che sale dai tombini 
e non si ferma. Una finestra sta ficcata 
dentro il cielo con la promessa
d’aprirsi. Succede, come sempre, 
succede - di sbieco si vede il taglio - 
la bellezza che resiste.
Ne sono certa. Verrà di nuovo 
aprile, verrà nel fusto dei platani 
un’estate d’aria e d’erba cruda.
Nient’altro. 

II

La terra è tutta solchi, una marcia.
Un mettersi a sognare dove i pioppi 
sono una palude vasta, con dentro 
l’adriatico e un’adolescenza 
negli zigomi. I sentieri invece 
non ricordano il sollevarsi 
e cadere in una fotografia offuscata 
che non dice più dove andare. 
Non sanno la geometria 
della fatica - eppure l’orizzonte è 
questa insufficienza - una faglia 
dall’altra parte dello sguardo 
e la memoria si fa spavento, 
un grigio nella luce. Resta una terra 
mobile, con le radici aperte sino 
al mare anche la notte, sino al gelso 
nel cortile di mia madre.
Il debito è nelle spalle 
- precisione di un ritorno - e sembra 
tutto chiaro nel cadere. 
 

In memoria

Accadeva un pomeriggio
il balzo, un farsi aria. Poi nulla.
C’era quel rosso del vestito
e sangue tra le braccia
– non lo dire a tua madre – bisbigli
non farle capire quel tonfo
in un autunno stupito di nuvole.
Fingo l’indifferenza come nulla,
proprio come la sera svanisce notte
improvvisa – non piangere – consigli
come un ladro al complice.
Nascondo la crepa dentro al cassetto
delle stoviglie, nella linea di piastrelle.
A volte, si chiede soltanto
una canzone più dolce
tra la Bovisa e i treni di Milano.
 

La città sparita

Forse è sparita nel cappotto
o in sandali d’estate
la strada tra Loreto e il centro
nel tempo che teneva stretta
l’infanzia nel cuscino.
Forse non ci sono più
via Larga e l’acqua dei Navigli
dove ci s’incontrava a notte
in un presente tutto da smontare.
– E’ l’insonnia a riparare
il danno? – chiedi e svaporano
i dettagli incisi nel diario.

Una traduzione lenta di ombre
in corpi mi restituisce i bordi
del mattino, tra i platani
magri di porta Venezia.
Un cielo senza rughe
non sa la differenza.
 
 

Per un addio  
Canto per Galileo
 

I.

Si è alzata pezzo su pezzo di vetro 
e cemento la certezza di arrivare a nord 
- si vede l’alba lunga del polo - 
e l’occhio afferra l’orizzonte, lo fa suo. 
Quaggiù l’asfalto è irto di carichi e
pendenze, nessuno prova la tenuta 
del disegno a perpendicolo sul respiro.
Si intuisce lo slancio, la gioia della cima?
Le nuvole stanno ferme, a capofitto 
nella luce che non smette 
- i grattacieli intimano ragioni su ragioni -
e tremano le stanze dentro la tovaglia, 
la cena è allarme nella grazia del dimenticare. 
Tu ti tieni strette le notizie della vita,
io non ho altro che il bianco 
per sentire la gioia che mi manca.
 

II.                        

Se sono destinata al bianco, dimmi,  
dove posso affogare in pace? 
Mi lascio andare nel centro dove le sillabe 
si tengono strette le paure. 
Una sintassi di ricordi. Ai bordi, un’eco 
mi sopravanza.Vorrei essere la corteccia 
di un albero,la molle fibra che lo veste 
e sopra ci scriva chi viene di passaggio. 
Dica il nome con la punta. 
Lo saprà il prato, le formiche rosse. 
Qualcuno poi penserà a intagliare 
un'altra scritta su di me. 
 

III.

Cerco la chiave dello smottamento
- il farsi molle della vita e il foro
dentro le parole - eppure l’Orsa 
è ancora in cielo e l’undici d’agosto 
cadranno ancora lunghe le stelle,
come un pianto. Tutto è inciso. 
Qualcuno va dove non vede 
- eppure avanza - qualcuno acceca 
chi alza la testa. Il cielo non ha più scampo 
e i sogni sono nel bianco dell’infanzia.
Lontana, lontana la fiaba che disegnava 
intera la mia vita.
 

IV.

È così esposta la faccia, così evidente
il perimetro: gli altri possono sentirlo.
La struttura non tiene, i tetti, tutti 
i tetti scendono alle fogne in diagonale. 
Come ospiti in stanze affollate di sedie 
chiediamo traiettorie di andata, a capofitto 
nel ritorno. Saremo raccolti un giorno dentro
la giacca di velluto, nel corpo che s’intana. 
Saremo dentro la terra alla fine 
e il perdono sarà un debito non saldato, 
piegato nelle spalle.
 

Una liturgia 
A mia madre

I.

Il tuo sorriso è una riga sul foglio 
a quadretti dell’infanzia e si spalanca 
la richiesta  - vieni domani?- verrò 
come la pioggia che si annuncia nell’odore 
del cielo, ma la terra l’aspetta per lavare 
il secco che la taglia al centro. 
La pioggia altera la combinazione, 
gli atomi si lanciano dentro la tua gola 
in cerca del mio abbraccio e la pazienza 
lo coltiva dietro la spalla di donna, 
dentro il tuo cuore che invecchia 
e sale di corsa alla cima
- ti prenderò in tempo per il nostro girotondo?-
 

II.

Ti stringi i giorni alle caviglie, tocchi 
la ferita dove il camion ti ha schiantato 
ai fianchi, dove la polio ti ha preso 
la corsa e ha dettato la sua legge nell’osso 
troppo bianco per vincere.
Non smetti di sognare i campi d’acqua 
a est della casa - una fattoria con le stanze 
per il cibo a piano terra - sopra dove 
si dormiva insieme per non scordare il giallo 
dentro i primi anni, i primi aerei di una guerra. 
E’ stata corta la tua infanzia di geloni 
e una primavera senza le calze non bastava 
a tenere la morte lontana - il fronte un buco
nel camino - e svanivano tutti i racconti. 
 

III.
 
Sono nata quando il destino ti voleva 
ripiegata, come una storia che nessuno 
vuole portare con sé. Ero il gelso nel cortile, 
tu una radura dietro il campo e una 
gran voglia di scappare.
La strada del gallaratese passa ancora 
tra i fossi, slitta oltre il cemento delle case
cresciute di fretta nel Settanta, come un albero 
nel bianco d’autunno. Adesso mi dici 
- la domenica è il giorno più lungo 
dentro la testa - lo so, si fa fatica 
quando le ore sono un conto che
si tira dritto tra la sedia e un’altra.  
 

IV.

La porta di casa adesso è solo una linea 
nel perimetro - soglia non più aperta - 
e il tempo coltiva la sua liturgia, 
ordine esatto tra quaggiù e il cielo. 
Dentro lo spazio non è metri e angoli, 
ma una piega dove ti siedi la mattina e resti. 
La stanza, un salto a occhi chiusi
- c’è sempre un altro gesto da fare -  
ma non lo conosci, sei ancora la bambina 
dell’incanto, i piedi insicuri nel disegno.
Nella notte ti fai tenace, come il gufo
sgomento della brevità dei sogni. 
Le ore stanno chiuse nel fazzoletto 
e non cresce più l’infanzia nemmeno 
nei ricordi. Nemmeno se la chiamo per nome. 
Lavori a maglia, cuci la colpa alla tua gioia
e punti l’ago dritto nelle mie tasche.
Io siedo ostinata a far girare il mondo 
dove crescevano le rose 
della nostra promessa.  

E’ questo 

Non ci sono volti, solo una matassa 
di ginocchia e astucci dentro le cartelle.
Le strade lo sanno e si sono predisposte 
al massacro - lasciano che sia lento 
lo scivolare - una frana a valle dove
la cenere copre i resti con la pietà 
di un dio grande. E’ questo, questo è 
il brivido dei ragazzi che vanno in bilico
nella ruga precoce, spezzati alla caviglia 
tra la terra e un cielo sfilacciato.  

Davanti a me la scriminatura segna 
il cranio della donna: una crepa che divide
i capelli in parti non uguali
- sono fragili i capelli - si vedono 
le ossa. La pelle e il bianco sotto 
dove ognuno custodisce una dedizione 
che non so. E’ questa la radice dei nostri 
giorni, la fedeltà innata di chi cerca 
un piatto perché sia casa e il davanzale 
per metterci i gerani a primavera.

Un tanfo avvolge le piazze, entra 
nei muri e scende sino al terzo livello 
in verticale: sotto. 
- Si muore bene, dici, coltivandosi con
attenzione - come un fiore 
piccolo nel suo vaso. Questa, questa è 
la caduta, un balzo dentro la specie 
che tiene tutti qui - qui, buoni in fila -
poi sarà il varco nelle cellule.
I conti tornano. Io tento le parole, 
una radice nella testa.  
  

Per un addio
Cascina Benedicta, Marcarolo, aprile 1944
per mio zio Silvio  

I. 

C’è un vuoto qui, mancano le labbra 
ma le voci sono stagliate tra i pini, come 
un temporale che non si scorda.
Davanti solo un gesto necessario 
- i testimoni tacciono sempre non interrogati -
Alzo gli zigomi e le spalle, entro nel tempo 
che non tradisce. Nel tempo delle lacrime
- sarà stata l’infanzia dentro gli occhi 
che li ha portati qui, a morire ?-  
Accarezzo le foglie, la radice è solo 
una terra di montagna e riposo. 
La solitudine è sale antico, c’è scritto il primo
addio. Poi tutti gli altri  verranno. 
Sarà un’eco, una preghiera
- vorrei tenere tra le mani la casa -   

II. 

E ci sono attimi sbagliati già domani,
non lo sai. Ripasso il conto, il gesto 
e gli anni chiusi, sigillati nel contrabbando 
di fotografie. Al cuore i ganci per fermare 
l’eco rimasto nella tua gola. 
Forse un mattino tutto sarà chiaro 
- un ordine nella testa pronta al colpo - 
sottomessa come l’ape al miele. 
Forse combattere era solo una gesto pagato caro
o un salto mai imparato, come quando 
c’era la cavallina e tu: ferma. 
Pesantemente ferma a terra perché il cadere
chiude i sogni dentro un cassetto, 
tra i fiori di lavanda. 
Forse sarà tutto chiaro, sarà una sera 
come tante e verrà la fine nel giro di poche ore.  

III. 

Conosco la geometria del dolore, angoli 
senza parole e una memoria di frantumi 
come la mica nel granito. Brilla.
Adesso una muro si staglia tra l’erba, come niente fosse, 
e fogli appesi - la benedizione di date e numeri precisi -
per chi non c’era in una notte senza lucciole,
senza il buio a fare la luna nella mano.
Vedi, c’è una scheggia dentro la bocca 
dei vecchi che furono bambini
La memoria non ce la fa a tenere il conto, 
ma non la puoi mollare, sa la dedizione 
al dolore. E’ un crescere la vita per chi è andato.  
Con cura mi faccio statua, nascondo
le crepe - le ombre, dove sono le ombre 
e i corpi?-  

IV. 

Il mattatoio del mondo si è allargato
e sfibra la bocca - non so più il nome per dire 
notte e albero. Vorrei dire  amore e tenerlo 
stretto come la fine dell’estate al bordo 
della pioggia. Tengo il conto delle partenze,
- una, due . Cento e l’ombra sul muro 
di chi è venuto, la sua mancanza.
Mia madre salva i ricordi, li piega dentro
la sua busta coi timbri del ’43 
- un foglio, un certificato e le medaglie 
e tutto il resto - poi non c’è stato altro 
che esistere,  crescere senza il fratello bello, 
quello con in bocca la risata. 
Non c’è più sangue, ma occhi asciutti 
nel bianco e la pietà è una parola che trema
nella bocca. Cerco le mani 
- una carezza prima di andare - una carezza.
Ricordo mia madre, i suoi racconti 
come un abbraccio per la notte a venire 
ma ho scordato le ninne-nanne
e il guardare indietro è un balzo,
la pena del non finire  

V. 

Adesso si è alzata la sbarra con calma 
tra un respiro e la difesa che ho imparato. 
Adesso chiedo parole per disegnare il perimetro
tra prima e questi anni che si scordano.
- Lontano si paga ancora con la vita -
le prede, lo so, sono ancora buone per il dopo.
Io continuo a scegliere i profili per sapere
chi sarò tra vent’anni. 
Chi saremo, dimmi, senza la gioia che cresce
le rose senza scampo e coltiva 
la casa anche dove c’è l’acqua pronta 
all’inondazione. Chi saremo?
L’aria tenta un equilibrio di pieni e vuoti, 
combinazione di atomi in amicizia 
con la materia  e noi restiamo qui, 
a divorarci e nulla,  nulla che impauri, 
solo un addio scava i polmoni.  

VI. 

Neppure il silenzio ormai sazia la sete 
e il bosco non tiene più, anche la città si slabbra 
nel bordo dove le ombre non tacciono. 
I corpi, tutti i corpi, dici - sono case 
senza porta - sono un punto 
che non tiene. Scivoliamo come 
nel passo sulla trave, alle elementari.
Non ho mai saputo la guerra, eppure
lo zio Silvio è partito - aveva vent’anni -  
non li ha contati alla festa di settembre.
La sua voce è un ricordo inciso nel profilo
- gli somigli - dice mia madre
per consolarsi. Erano gli anni dentro 
lo sguardo, anni gialli nelle foto coi bordi 
come onde. Era così lontano il mare
e non sapevi  - ti ricordi? - era così bello 
gridare che sarebbe stato


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