La
condanna
Un amore dal passato
Ripamonti 16
Invocazione
Una stanza in rosso
Ancora nella casa d'infanzia
Prigionia
Postazione
Bracieri
La
casa viola
Un
tempo immobile
Prigioniero
di echi
In
quella casa
Storia
bianca
Capodanno
In
salita
La
casa demolita
4
luglio 2005
Per
un addio
La
condanna
-punta al
collo- dicevi- al centro
d'equilibrio
tra sangue e voce
(la condanna
si fa destino, urlo
a
tenere quel poco nella gola)
-proprio
esatto, chiedi, proprio
nel rosso
della stanza-
Scivola
piano il mondo dentro
al morso
che mi dai
dentro
questo male che ti regalo
tra pollice
e indice
nel punto
che fa diga alle sillabe
(la parola
è solo un livido nel buio
dentro
la bocca, spalancato).
Forse
è
amore questo o solo
vita: specie
a specie
sintassi
per la salvezza antica
di un corpo
dentro al corpo.
Io resto
appesa al respiro
tra le
lenzuola lisce di noi
legati
al gesto ripetuto
(e ci
perdiamo
in altri passi).
Un
amore dal passato
a
Francesco
I
ancora ti
conosco nella ruga
a dirme
le tue motociclette
e il muro
crolla sul bianco
dentro
al torso della mela
(invoco
l'abbraccio che monda
quel fiume non più asciutto)
ascolto
la tristezza farsi stoffa
molle,
nel cassetto di cucina
dove la
fuga è fuga e nient'altro
e il coltello
separa i pezzi, i corpi
(il tuo
sorriso sa l'ombra umida
dove
la ferita apre castelli)
carezzo
la pazienza del buio
nei tuoi
racconti lunghi, rosario
appeso
dentro le nostre ore
di un viaggio
che non faremo
(la preghiera
si consuma
in
questo addio del sole)
la sera
chiamo ancora l'abbraccio
quelle
labbra non più magre
ad aprire
tutte le finestre
(ci sono
chilometri tra piedi e mani
anni
prima di capire
la
solitudine che saremo)
Ripamonti
16
Fossi un
pittore fermerei
quest'attimo,
la precisione del respiro
il battere
delle arterie in via Ripamonti
(ogni angolo
è perso nelle spalle
ogni
piazza ha spigoli
a
separare il giorno e minuti).
Conto le
fermate: una, due
- sono
nove, dicevi, di arrivi
e sempre
partenze a tagliare
quel bacio
sulla casa-
Mi afferro
al punto, gancio
stretto
che tiene la mano
e suona
l'una di un giorno
(mangiamo
un antipasto
di
olive e parole
nel
desiderio che piano
lima
la radice).
Invocazione
tienimi
il brivido alle dita
quel battere
tre volte
per farsi
riconoscere alla casa
chiusa
a muro e l'inverno di cemento
regalami
l'innocenza della pelle
quella
carezza bianca come i sandali
di
un'infanzia
dentro gli occhi
a tentare
il passo sulla riva
ti darò
la mappa delle strade
tra il
sangue e la precisione della mente
(quella
solitudine che fu pavimento
dei
miei sette anni senza vento)
ti regalo
questo giorno che brucia
nel tram
e sbanda intera la sua corsa
proprio
là, dove il salto corre
alla porta
che apre piano la casa
Una
stanza in rosso
Forse è
vero, sarei una lama
a farmi
solco, innondarmi
rughe e
figli adulti al male
in queste
vene senza pudore.
Lascio maturare
piano la vite
sul tronco
delle gambe, nell'incavo
delle tue
mani al collo
dentro
un'estate asciutta
di fame
lunga a chiamare
il passo
del condannato
quel colpo
che lo strappa
(la voce
che salva nell'addio).
Ti regalo
quest'infanzia persa
nelle
lenzuola
e un salto
a quelle
mie radici nella testa.
Tu respirami
pesce di acqua buia.
Ancora
nella casa d'infanzia
ti ho visto
mentre volevi
colpirmi
con quel tuo giocattolo
a spigolo
dentro il cuore
(spalanchi
il diametro d'infanzia
nello
spazio che scivola senza
finestre
in questi metri di sale)
ti negherò
il tetto, la salita
la cappa
del camino da cui fuggire
(sparizione
nel nero dell'inchiostro)
ti
darò
altre notti dove la vita
è
punto della tempia, balzo
senza tela
a contenere
Prigionia
Ti regalo
un bracciale
gancio
nella pelle a contenere
-mi dai
quest'infanzia d'argento,
mi metti
le manette . Non volevo-
(il clic
segna la sconfitta, il morso
stretto
tra le mie dita)
-mettimi
quel cappio, dici, dammi
quel
doppio attorno al cuore così duro-
(carezzi
le grinze, quella cenere
di
sigarette e d'anima)
Incido piano
la mia legge dove
si apre
una linea esatta, senza voce
-ti
manderò
la chiave impedita
quella tra ieri e mai-
(mi
farò
racconto a pendolo
cantilena
di questa prigionia).
Domani
resta un foro, corridoio
tra le
stanze e un silenzio.
Postazione
Alla batteria
a picco
nel verde
- casamatta del '40 -
ho visto
i bordi di me
quel
paesaggio
interrotto
tra scogli
e lecci
quel ponte
sempre spaccato
perché
il nemico resti di là
e la porta
a spina di cactus
senza nome
al cielo
(l'allarme
batte un lamento
di volpe rossa, a pelo lungo).
Sul muretto
di cemento a frantumi
tra un
foro e il tetto
ho alzato
ancora l'ultima grata
alla mia
gola di lontra
senza
più
tana, senza
una guida
al sentiero d'amore
(resta
un tunnel tra me
e
te che guardi, cerchi lontano).
Aspetto
immobile che torni
l'abbraccio
d'inverno
a consolarmi,
enorme
Bracieri
Dici- qui
bisogna stare
in attesa
che passino le ore
in sonagli
dentro mattine
bambini
in destino
e sassi
in fondo alle fotografie.
Nella solitudine
raccolgo
ancora
le lastre di granito
a costruire
soffitti e sillabe.
Aspetto
la stagione
quando
verrà il temporale
dentro
la tua saggezza
La casa viola
Dentro la
panchina, al parco
ti ho portato
in mucchio
tutte le
mie case, il solaio
e la cantina,
perfino lo scalino
rotto dentro
al fianco.
Ti ho aperto
quella stanza
dove il
letto si allunga rombo
nell'infanzia
senza le finestre
(come monaci
i binari
nella
stazione di Milano).
Ti ho portato
per mano
quasi in
corsa nella casa sghemba
della sera,
senza l'angelo
sopra il
comodino
senza
un'acqua
a dissetare.
E’ viola
questa casa, con le candele
accese
e un angolo dentro al male
(è
gialla ancora di silenzi
arrotolati
nel cassetto)
mi parla
di rumori e allarme
dice di
restare, dice
l'attesa
che si fa saliva.
Chiamo spesso
il sonno
ad
abbracciare
sillabe e respiro.
Un
tempo immobile
c'è
una furia piccola dentro
ai tuoi
denti mentre mi cerchi
là,
dove il respiro si fa pudore
e ancora
mi cresco bambina
c'è
un mare dentro all'ombelico
e si fa
grotta la mia paura
sottobosco
la tua pazienza
e ti sento
madre e padre
restiamo
distesi tra le lenzuola
a perdonarci
questa fame
d'abbracci
e saliva
ancora
soli in fuga verso est
Prigioniero di echi
Lui ha intagliato
il suo cuore
tra sillabe
e nastrini
per la
scatola grande della gola.
Ha cancellato
piano tutti
i sorrisi
come un gioco bambino
svanito
alla riva d'agosto
(le spalle
a triangolo disegnano
quello
spigolo al mondo)
- un'impronta
dirà del corpo
sparito e la morte così gentile?-
Nel bordo
della sua mano resta
solo un
gancio appeso all'unghia
a tenerlo
stretto alla stanza
(lo spazio
del giorno è una soffitta
affamata di giorni e fotografie).
La bocca
si è consumata ad ogni pasto
tra il
morso e quell'unico bacio
(nella
gola ancora quel nome,
quel
nome da pronunciare)
In quella casa
Ci affrontiamo
in giocattoli di ferro
dentro
un'estate ghiacciata
nel gradino
d'uscita
inchiodati
nei piedi e nelle mani
a quel
sorriso dentro una cucina
immobile
di caffè.
Cancelliamo
i mesi che vengono
a portare
orizzonte al calendario
in
quest'infanzia
assegnata
(come sillabe
perdute s'inseguono
i
desideri alle ginocchia)
Le rughe
della mano sono
cantilene
appese ai muri.
Storia
bianca
La ragazza
in bilico cammina
sopra
coltelli
di ogni giorno
(scopre
la punta delle ginocchia
sente
il corpo franare sulla voce)
-vieni,
bisbiglia, vieni amore-
il suo
ventre sa l'ondeggiare lieve
quel restare
immobile in attesa
a pregare
un abbraccio che mondi
(attorno
fogli casti aprono menzogne).
Della
pietà
lei nutre la sua sparizione
quella
fame lunga d'amore
-vieni
al cuore rosso, vieni-
apre la
gola e si regala intera
nelle braccia
a croce aperte, a chiodo
si offre
conficcata.
Chiama
quelle mani sottili a prendere
a strappare
la vita ai fianchi
invoca
la sapienza che salva.
Sorella
morte.
Capodanno
a
Milo
Abbiamo
mangiato insieme
per questa
fine d'anno
segnata
nelle scarpe
come una
strada nella mano.
Rideva
Daniele-ti ricordi?-
lanciando
fuochi di petardi
( chiamava
le sue stelle
venute piano piano nella sala)
Abbiamo
stretto in mano la moneta
offerta
di passaggio
sedendo
nella piega che sempre
taglia
a picco sul presente.
Ridevi
piano tu e controvento
annusavi
il tempo che si spezza
pioggia
su gocce, nel tombino
avanti
solo un passo
Sei andato
via - era mezzanotte -
enorme
il campanile nella testa
voragine
che attende
alto, al
bordo di un amore.
In salita
Andiamo
su questa strada
a passi
cadenzati dentro la vendetta.
Conosco
la tua ostinazione
alle regole
di marcia, conosco
l’assenza,
quel passo di soldato
ostinato
al compito.
Il sentiero
divide lo spazio
tra schiena
e cuore, là dove si apre
una radice
nella gola, punto
sottile
tra condanna e respiro.
Domani
forse sapremo
la parola
d’ammutinamento.
La
casa demolita
Erano già
entrati nella casa
a ripulire
i muri dal passato
a segnare
porte dentro alle porte.
Non si
erano accorti che il dolore
pietrifica
la soglia, là dove il balzo
si fa
intimità
dei corpi, dove
la voce
sa il nome esatto
di pane
e tramonto.
Adesso la
loro casa si apre
spaventoso
foro dentro al passo
e le travi
lamentano la resa
strappo
netto alle radici
tra questa
giovinezza e la poca vita.
Adesso abitano
quelle stanze
senza lune
a rischiarare
solo la
cifra è siglata nel tappeto
e l’occhio
non smette d’interrogare.
4
luglio 2005
Il sentiero
sul lago
Sulle rive, c’è un sentiero.
Se lo prendi
e giri a
destra, trovi il buio,
il passo
senza traccia. Un umido
di felci
e pozze coi
girini. Questo è
il lago,
quello coi
ragni a fior
d’acqua che scattano
se sposti la
loro immobile esistenza.
C’è un
odore di terra
fradicia,
di legno che
dà la casa
alle formiche rosse,
le tiene
strette.
Siedo e i rami si alzano in
attesa.
Vorrei sapere
la pazienza della
foglia
che si fa
verde ancora e poi
è di nuovo
inverno:
senza sosta. Vorrei
scivolare
zolla tra le
pietre, farmi radice
dentro
al nero per
ascoltare i segreti
mormorii.
Vorrei, ma i
gesti sono
crampi e la
bocca non smette
le parole.
L’acqua cerca il sole che la
scaldi
e io invoco
un abbraccio grande
e molle, come
il fondo del lago
che raccoglie
i sassi, le
cose perse:
andate a picco
nella rena.
Anche i barattoli
di ferro.
Laggiù,
sul fondo, si
dice dormano
gli amanti
non compresi, chi
si uccise
per dolore o
per la paura che
prende
a volte,
verso sera. Ascolto
il lago, le sue
fiabe di
gioia e di spavento.
In
poche
ore
E ci sono attimi sbagliati
già
domani. Ripassi il
conto,
il gesto e
gli anni chiusi, sigillati
nel tuo
contrabbando di
fotografie.
Al cuore
tieni i ganci per fermare
i sorrisi e
le bocche. Forse
un mattino
ti sveglierai
e tutto sarà
chiaro,
ordine
preciso nella testa
pronta al
colpo, sottomessa
come l’ape al
miele.
Forse
combattere sarà
stato solo
una
disobbedienza pagata,
un salto mai
imparato, come quando
c’era la
cavallina e tu ferma,
pesantemente
ferma a terra.
Forse
sarà tutto chiaro,
sarà una sera
come tante e
verrà la
fine
nel giro di
poche ore.
Da Una
geometria forse
I
Forse il peso che sento nelle
spalle
è
questo mugolare - la
materia
parla
ostinata, a sottintesi
-
è un
ronzio che striscia
dal metrò
alle case (al
piatto, al tavolo
da pranzo
all’occhio,
alla narice abituata
al senno).
Nemmeno i
balconi sanno tenere
il sibilo che
sale dai tombini
e non si
ferma. Una finestra
sta ficcata
dentro il
cielo con la promessa
d’aprirsi.
Succede, come sempre,
succede - di
sbieco si vede il
taglio -
la bellezza
che resiste.
Ne sono
certa. Verrà di
nuovo
aprile,
verrà nel fusto
dei platani
un’estate
d’aria e d’erba cruda.
Nient’altro.
II
La terra è tutta solchi,
una marcia.
Un mettersi a
sognare dove i
pioppi
sono una
palude vasta, con dentro
l’adriatico e
un’adolescenza
negli zigomi.
I sentieri invece
non ricordano
il sollevarsi
e cadere in
una fotografia offuscata
che non dice
più dove
andare.
Non sanno la
geometria
della fatica
- eppure l’orizzonte
è
questa
insufficienza - una faglia
dall’altra
parte dello sguardo
e la memoria
si fa spavento,
un grigio
nella luce. Resta una
terra
mobile, con
le radici aperte
sino
al mare anche
la notte, sino
al gelso
nel cortile
di mia madre.
Il debito
è nelle spalle
- precisione
di un ritorno -
e sembra
tutto chiaro
nel cadere.
In memoria
Accadeva un pomeriggio
il balzo, un
farsi aria. Poi
nulla.
C’era quel
rosso del vestito
e sangue tra
le braccia
– non lo dire
a tua madre – bisbigli
non farle
capire quel tonfo
in un autunno
stupito di nuvole.
Fingo
l’indifferenza come nulla,
proprio come
la sera svanisce
notte
improvvisa –
non piangere – consigli
come un ladro
al complice.
Nascondo la
crepa dentro al cassetto
delle
stoviglie, nella linea
di piastrelle.
A volte, si
chiede soltanto
una canzone
più dolce
tra la Bovisa
e i treni di Milano.
La città
sparita
Forse è sparita nel cappotto
o in sandali
d’estate
la strada tra
Loreto e il centro
nel tempo che
teneva stretta
l’infanzia
nel cuscino.
Forse non ci
sono più
via Larga e
l’acqua dei Navigli
dove ci
s’incontrava a notte
in un
presente tutto da smontare.
– E’
l’insonnia a riparare
il danno? –
chiedi e svaporano
i dettagli
incisi nel diario.
Una traduzione lenta di ombre
in corpi mi
restituisce i bordi
del mattino,
tra i platani
magri di
porta Venezia.
Un cielo
senza rughe
non sa la
differenza.
Per
un addio
Canto per
Galileo
I.
Si è alzata pezzo su pezzo
di vetro
e cemento la
certezza di arrivare
a nord
- si vede
l’alba lunga del polo
-
e l’occhio
afferra l’orizzonte,
lo fa suo.
Quaggiù
l’asfalto è
irto di carichi e
pendenze,
nessuno prova la tenuta
del disegno a
perpendicolo sul
respiro.
Si intuisce
lo slancio, la gioia
della cima?
Le nuvole
stanno ferme, a capofitto
nella luce
che non smette
- i
grattacieli intimano ragioni
su ragioni -
e tremano le
stanze dentro la
tovaglia,
la cena
è allarme nella
grazia del dimenticare.
Tu ti tieni
strette le notizie
della vita,
io non ho
altro che il bianco
per sentire
la gioia che mi manca.
II.
Se sono destinata al bianco,
dimmi,
dove posso
affogare in pace?
Mi lascio
andare nel centro dove
le sillabe
si tengono
strette le paure.
Una sintassi
di ricordi. Ai bordi,
un’eco
mi
sopravanza.Vorrei essere la
corteccia
di un
albero,la molle fibra che
lo veste
e sopra ci
scriva chi viene di
passaggio.
Dica il nome
con la punta.
Lo
saprà il prato, le
formiche rosse.
Qualcuno poi
penserà a
intagliare
un'altra
scritta su di me.
III.
Cerco la chiave dello smottamento
- il farsi
molle della vita e
il foro
dentro le
parole - eppure l’Orsa
è
ancora in cielo e l’undici
d’agosto
cadranno
ancora lunghe le stelle,
come un
pianto. Tutto è
inciso.
Qualcuno va
dove non vede
- eppure
avanza - qualcuno acceca
chi alza la
testa. Il cielo non
ha più scampo
e i sogni
sono nel bianco dell’infanzia.
Lontana,
lontana la fiaba che
disegnava
intera la mia
vita.
IV.
È così esposta la
faccia, così evidente
il perimetro:
gli altri possono
sentirlo.
La struttura
non tiene, i tetti,
tutti
i tetti
scendono alle fogne in
diagonale.
Come ospiti
in stanze affollate
di sedie
chiediamo
traiettorie di andata,
a capofitto
nel ritorno.
Saremo raccolti
un giorno dentro
la giacca di
velluto, nel corpo
che s’intana.
Saremo dentro
la terra alla fine
e il perdono
sarà un debito
non saldato,
piegato nelle
spalle.
Una
liturgia
A mia madre
I.
Il tuo sorriso è una riga
sul foglio
a quadretti
dell’infanzia e si
spalanca
la
richiesta - vieni domani?-
verrò
come la
pioggia che si annuncia
nell’odore
del cielo, ma
la terra l’aspetta
per lavare
il secco che
la taglia al centro.
La pioggia
altera la combinazione,
gli atomi si
lanciano dentro
la tua gola
in cerca del
mio abbraccio e
la pazienza
lo coltiva
dietro la spalla di
donna,
dentro il tuo
cuore che invecchia
e sale di
corsa alla cima
- ti
prenderò in tempo
per il nostro girotondo?-
II.
Ti stringi i giorni alle caviglie,
tocchi
la ferita
dove il camion ti ha
schiantato
ai fianchi,
dove la polio ti
ha preso
la corsa e ha
dettato la sua
legge nell’osso
troppo bianco
per vincere.
Non smetti di
sognare i campi
d’acqua
a est della
casa - una fattoria
con le stanze
per il cibo a
piano terra - sopra
dove
si dormiva
insieme per non scordare
il giallo
dentro i
primi anni, i primi
aerei di una guerra.
E’ stata
corta la tua infanzia
di geloni
e una
primavera senza le calze
non bastava
a tenere la
morte lontana - il
fronte un buco
nel camino -
e svanivano tutti
i racconti.
III.
Sono nata
quando il destino ti
voleva
ripiegata,
come una storia che
nessuno
vuole portare
con sé.
Ero il gelso nel cortile,
tu una radura
dietro il campo
e una
gran voglia
di scappare.
La strada del
gallaratese passa
ancora
tra i fossi,
slitta oltre il
cemento delle case
cresciute di
fretta nel Settanta,
come un albero
nel bianco
d’autunno. Adesso
mi dici
- la domenica
è il giorno
più lungo
dentro la
testa - lo so, si fa
fatica
quando le ore
sono un conto che
si tira
dritto tra la sedia e
un’altra.
IV.
La porta di casa adesso è
solo una linea
nel perimetro
- soglia non più
aperta -
e il tempo
coltiva la sua liturgia,
ordine esatto
tra quaggiù
e il cielo.
Dentro lo
spazio non è
metri e angoli,
ma una piega
dove ti siedi la
mattina e resti.
La stanza, un
salto a occhi chiusi
- c’è
sempre un altro
gesto da fare -
ma non lo
conosci, sei ancora
la bambina
dell’incanto,
i piedi insicuri
nel disegno.
Nella notte
ti fai tenace, come
il gufo
sgomento
della brevità
dei sogni.
Le ore stanno
chiuse nel fazzoletto
e non cresce
più l’infanzia
nemmeno
nei ricordi.
Nemmeno se la chiamo
per nome.
Lavori a
maglia, cuci la colpa
alla tua gioia
e punti l’ago
dritto nelle mie
tasche.
Io siedo
ostinata a far girare
il mondo
dove
crescevano le rose
della nostra
promessa.
E’ questo
Non ci sono volti, solo una
matassa
di ginocchia
e astucci dentro
le cartelle.
Le strade lo
sanno e si sono
predisposte
al massacro -
lasciano che sia
lento
lo scivolare
- una frana a valle
dove
la cenere
copre i resti con la
pietà
di un dio
grande. E’ questo,
questo è
il brivido
dei ragazzi che vanno
in bilico
nella ruga
precoce, spezzati
alla caviglia
tra la terra
e un cielo sfilacciato.
Davanti a me la scriminatura segna
il cranio
della donna: una crepa
che divide
i capelli in
parti non uguali
- sono
fragili i capelli - si
vedono
le ossa. La
pelle e il bianco
sotto
dove ognuno
custodisce una dedizione
che non so.
E’ questa la radice
dei nostri
giorni, la
fedeltà innata
di chi cerca
un piatto
perché sia casa
e il davanzale
per metterci
i gerani a primavera.
Un tanfo avvolge le piazze, entra
nei muri e
scende sino al terzo
livello
in verticale:
sotto.
- Si muore
bene, dici, coltivandosi
con
attenzione -
come un fiore
piccolo nel
suo vaso. Questa,
questa è
la caduta, un
balzo dentro la
specie
che tiene
tutti qui - qui, buoni
in fila -
poi
sarà il varco nelle
cellule.
I conti
tornano. Io tento le
parole,
una radice
nella testa.
Per
un addio
Cascina Benedicta,
Marcarolo, aprile 1944
per mio zio
Silvio
I.
C’è un vuoto qui, mancano
le labbra
ma le voci
sono stagliate tra
i pini, come
un temporale
che non si scorda.
Davanti solo
un gesto necessario
- i testimoni
tacciono sempre
non interrogati -
Alzo gli
zigomi e le spalle,
entro nel tempo
che non
tradisce. Nel tempo delle
lacrime
- sarà
stata l’infanzia
dentro gli occhi
che li ha
portati qui, a morire
?-
Accarezzo le
foglie, la radice
è solo
una terra di
montagna e riposo.
La solitudine
è sale antico,
c’è scritto il primo
addio. Poi
tutti gli altri
verranno.
Sarà
un’eco, una preghiera
- vorrei
tenere tra le mani la
casa -
II.
E ci sono attimi sbagliati già
domani,
non lo sai.
Ripasso il conto,
il gesto
e gli anni
chiusi, sigillati
nel contrabbando
di
fotografie. Al cuore i ganci
per fermare
l’eco rimasto
nella tua gola.
Forse un
mattino tutto sarà
chiaro
- un ordine
nella testa pronta
al colpo -
sottomessa
come l’ape al miele.
Forse
combattere era solo una
gesto pagato caro
o un salto
mai imparato, come
quando
c’era la
cavallina e tu: ferma.
Pesantemente
ferma a terra perché
il cadere
chiude i
sogni dentro un cassetto,
tra i fiori
di lavanda.
Forse
sarà tutto chiaro,
sarà una sera
come tante e
verrà la
fine nel giro di poche ore.
III.
Conosco la geometria del dolore,
angoli
senza parole
e una memoria di
frantumi
come la mica
nel granito. Brilla.
Adesso una
muro si staglia tra
l’erba, come niente fosse,
e fogli
appesi - la benedizione
di date e numeri precisi -
per chi non
c’era in una notte
senza lucciole,
senza il buio
a fare la luna
nella mano.
Vedi,
c’è una scheggia
dentro la bocca
dei vecchi
che furono bambini
La memoria
non ce la fa a tenere
il conto,
ma non la
puoi mollare, sa la
dedizione
al dolore. E’
un crescere la
vita per chi è andato.
Con cura mi
faccio statua, nascondo
le crepe - le
ombre, dove sono
le ombre
e i corpi?-
IV.
Il mattatoio del mondo si è
allargato
e sfibra la
bocca - non so più
il nome per dire
notte e
albero. Vorrei dire
amore e tenerlo
stretto come
la fine dell’estate
al bordo
della
pioggia. Tengo il conto
delle partenze,
- una, due .
Cento e l’ombra
sul muro
di chi
è venuto, la sua
mancanza.
Mia madre
salva i ricordi, li
piega dentro
la sua busta
coi timbri del ’43
- un foglio,
un certificato e
le medaglie
e tutto il
resto - poi non c’è
stato altro
che
esistere, crescere
senza il fratello bello,
quello con in
bocca la risata.
Non
c’è più sangue,
ma occhi asciutti
nel bianco e
la pietà
è una parola che trema
nella bocca.
Cerco le mani
- una carezza
prima di andare
- una carezza.
Ricordo mia
madre, i suoi racconti
come un
abbraccio per la notte
a venire
ma ho
scordato le ninne-nanne
e il guardare
indietro è
un balzo,
la pena del
non finire
V.
Adesso si è alzata la sbarra
con calma
tra un
respiro e la difesa che
ho imparato.
Adesso chiedo
parole per disegnare
il perimetro
tra prima e
questi anni che si
scordano.
- Lontano si
paga ancora con
la vita -
le prede, lo
so, sono ancora
buone per il dopo.
Io continuo a
scegliere i profili
per sapere
chi
sarò tra vent’anni.
Chi saremo,
dimmi, senza la gioia
che cresce
le rose senza
scampo e coltiva
la casa anche
dove c’è
l’acqua pronta
all’inondazione.
Chi saremo?
L’aria tenta
un equilibrio di
pieni e vuoti,
combinazione
di atomi in amicizia
con la
materia e noi restiamo
qui,
a divorarci e
nulla, nulla
che impauri,
solo un addio
scava i polmoni.
VI.
Neppure il silenzio ormai sazia
la sete
e il bosco non tiene più,
anche la città si slabbra
nel bordo dove le ombre non
tacciono.
I corpi, tutti i corpi, dici
- sono case
senza porta - sono un punto
che non tiene. Scivoliamo come
nel passo sulla trave, alle elementari.
Non ho mai saputo la guerra,
eppure
lo zio Silvio è partito
- aveva vent’anni -
non li ha contati alla festa
di settembre.
La sua voce è un ricordo
inciso nel profilo
- gli somigli - dice mia madre
per consolarsi. Erano gli anni
dentro
lo sguardo, anni gialli nelle
foto coi bordi
come onde. Era così lontano
il mare
e non sapevi - ti ricordi?
- era così bello
gridare che sarebbe stato