Artiglio e spore
Frattali
Carceri di terra murata
Sulle
ali del tempo
Non
Esitare
Sole
maestro
Ruderi
Arsura
Gravina
Epistrofe
Antropia
entropia
Yulbachar
Epistrofe
Gravina
Precipizi
di agavi e ginestre
Naufragio
Hiroshima,
racconto d’inverno
Enigma
Messaggi
Rosa
dei venti
Artiglio
e spore
Alle radici dell’albero più
amato
ha impresso
segni duri il metallo
che affiora
da giacimenti oscuri.
La terra offre una tregua
finché
c’é tempo
non perderti
nel ricercar progetti
se un filo
lega Stromboli ed
Hiroshima.
Un luccicare d’astri
dentro gli
squarci della luna
gobba
rinnova una
certezza
propone nuovi
enigmi.
L’ulivo sui pianori
stringe
accanito nella roccia
i resti di un
artiglio
su cui
passarono gli eccessi.
Mentre spuntano antenne
tra sassi che
danno il cambio
all’ombra
alle stagioni ai passi
di chi si
ostina a ricordare
gettando
spore di speranza
tra i fiori
dell’oblio.
Frattali
L’auspicio di un inizio
un refolo tra
i tuoi capelli
e i miei
infrange gli
occhi spenti
le finestre
sprangate
nel vuoto del
silenzio verticale.
Delle parole al bando
ho fatto una
ghirlanda
e l’ho
gettata al mare
in questo
navigare contro
mentre si
insinua un fiore
nel cavo
assolato del sogno
dura il
ricordo come un nodo
tra i tuoi
capelli e i miei.
Rivedo i sentieri deserti
volti che
abbiamo amato
e case
immobili
che non
riconosciamo più.
Eppure guarda
quel salto
del delfino
dalla
profondità del tempo
ci sussurra
i legami
recisi della nostra
storia.
Forse ci invita a decifrare i
codici
di una
tempesta sostenibile
mentre il tuo
velo
sfarzo
sottile di libellula
capta gli
istanti del naufragio
e vibra nel
vento frattali d’amore
tra i ginepri
ossuti.
Carceri
di terra murata
Sono i segni del tempo
le minuziose
righe che piegano
la falesia
un calendario
aperto
come le rughe
sul volto cupo
di chi si
esercita tra queste
mura
ad alternare
il passo come il
lupo
scrutando
grappoli di case
cintate di
petunie azzurre.
E l’ orrizzonte è un muro
calcinato
la sera
quando i
profumi trapassano le
sbarre
e il mare
bussa nelle fondamenta.
Sulle
ali del tempo
Il gatto è fermo al sole
aguzzo
si stringe
sul terrazzo
l’angolo di
casa
dove regnava
il lievito la muffa
e queste mani che modellarono
le guglie, i
minareti
ancora
imprigionate nell’argilla
vogliono
carezzare
la forma
della luce, l’anfora
le metamorfosi
dell’ombra
proiettata sulla calce.
Presenze antiche e nuove cozzano
il mondo
tace, s’aprono dissonanze
dentro le
crepe del silenzio
affondano i
boati.
D’un tratto una chitarra
arpeggia sui
ricordi
tutte le note
m’insegnano a volare
sulle ali del
tempo.
Non
Esitare
Non esitare
a costruire
un argine
in questo
vivere
le dilaganti
attese.
Ai nostri piedi il tempo
getta le
foglie
d’incomprensibili
responsi.
Quando le cose si allontanano
serra le
labbra
lascia che il
vento
canti il tuo
dolore
nulla si
perde mai del tutto.
Sole
maestro
Allenta i nodi
la rissa dei
concetti
di là
della barriera è
l’alto mare
il tempo ruota e ruota l’asse
la macchina
celeste
torce le
radiche
ed i sentieri
ai nostri passi
lascia scorrer se puoi
fragranze di
cedro sui torrenti
fiumi di sole
tra le cieche imposte
non oltrepassa i limiti la luce
e sia
così il tuo sguardo
che brilla
come resina
nel salso del
Maestrale
sia meridiana l’ago
del pino
reclinato sulla cala
dove lo
zoccolo del tempo
percuote
l’ombra alle radici
e l’anima del
seme insonne
che fiuta il
muschio nella polvere.
Ruderi
Sui colli nei crateri
correvano le
vigne
tra gialli di
ginestra e zolfo.
Sono rimaste pietre allucinate
a ricordare
l’ombra
dei passi
arroventati
fuggir la
dismisura
l’avanzar del
fango
tra resti di
colonne
case e templi
saccheggiati.
Ordini vecchi e nuovi
intrecciano
memorie
ma il tempo
è scandito
dal maglio
uniforme della storia.
Fibule e affreschi
codici
balsamari lapidi
frutteti
e lo
scompiglio delle connessioni
rapprese
nella lava
rudere
anch’essa
che andiamo
somigliando.
Arsura
Qui tra i canneti e il mare
continua ad
agitarsi il soffio
d’una
speranza srotolata al vento.
Tra le contorte radiche
avanza la
natura
nell’alito di
un bacio senza
meta
che spira
sulla brace del ricordo.
Non questo mare
ti dico
l’innocenza
le onde i
colori d’un impulso
vibrato su
tendini di seta
a custodire
il nucleo di un principio
che viaggia
nell’eternità.
Mentre vedo precipitare i ghiacci
e nei
crepacci tetri l’aborto
della terra
s’affaccia
alla memoria il pozzo
aperto al
ticchettio del cielo
il tetto di
una casa
legata
all’affannoso zinco
dei secchi
grondanti nell’arsura
torna il
respiro fermo
nel gioco
interminabile del tempo.
Gravina
Arabesco spuntato dal vento
burrone di
pietra e conchiglie
fugge l’ombra
calvalca
ostinata sui muri
color della
cenere il giorno
poi la notte
ventagli di luna
scandisci sui
fuochi rupestri
trascinando
all’amore
le labbra
increspate
nel grido
assetato del tufo
che invoca le
lacrime al cielo
ed intreccia
i destini
le porose
pareti
a un
passaggio di nuvole rare
stillando il
sudor dei millenni
ed infine la
pioggia
che ingronda
l’intaglio del sasso
nelle vuote
cisterne
dove ancora
risuonano gli echi
le mani
il lavoro
costante nel tempo
della rossa
gravina
sospesa su un
esile fiume
che arranca
verso il mare.
Epistrofe
Dovremmo ritrovare il cielo
il movimento
della terra
e le radici
la vecchia
casa che passando
scoprimmo con
stupore
tra fichi
d’India rose e lecci.
Nell’angolo consunto al sibilo
del mare
scoprimmo la
profondità
del tempo
si strinsero
le nostre menti
sparse come
quel fiore rotto
sui ciottoli
d’argilla nella
polvere.
Dal fondo della nostra storia
protubera
come alito di muschio
su un
focolare spento la memoria.
Dalle foreste che spiantammo
fin dentro ai
nostri desideri
non
apprendemmo mai
responsi di
un ritorno.
La luce inanellava ancora gli
astri
senza parlare
ci perdemmo come
foglie
nell’aria
carica di sale
l’odore del
Ponente fa impazzire
quando
sprigiona i sogni.
Poi ritrovammo strati di vernice
sull’innocente nuda pietra
la geometria del panico sui volti
intenti ad ordinare il mondo
che adesso esorta a ricordare.
Antropia
entropia
L’arpa dei sogni ripasserà le dita
sulle logge bruciate
e ci sarà ancora nella nostra memoria
il voltar pagina ostinato
ai bordi di un cratere
che imbosca il buio dell’apparenza.
Chi farà il conto
di quel ch’è andato perso
non era lo stato più probabile
questo grigio tepore d’indistinto.
Cosa rimane dietro lo scarrocciar di luci
che squarciano la notte?
Su questa terra illuminata a giorno
vorticano le idee
tra ormoni e adrenalina fissi al vuoto
verso monotonie più stabili
migrano le parole
e il senso della differenza.
Senza più nostalgia vibrano i ponti
gli occhi sospesi sugli sbarramenti
soltanto folli
solo apparenti anch’essi
come i tramonti sospirati
già stretti tra le pieghe del millennio.
Con la freccia del tempo nel cuore
continuano a viaggiare le illusioni
dipinte in queste rive
dove gli sguardi inorriditi
vagano ripetendo
qui mira e qui ti specchia
secol superbo e sciocco.
Stridono i rettili sgusciando
dai corpi policordi dei santùri
naufragati nei deserti d’Oriente
e in altri continenti
arsenali invisibili, distanti
sagome arrugginite sfondano i miraggi
mentre rifulgono le stelle
sullo squamoso corpo dell’estate.
Sulle creste di luce
anche i nostri travagli
sono spuma soffiata dal vento.
S’aprono metamorfosi imminenti
prospettive inattese risalgono dal magma
sotteso a commessure a ricuciti blocchi.
Sbarra alle prefiche le porte
spalanca i timpani
alle sirene spetta il canto antico
ad esse i desideri tornano immortali
come un mare in tempesta
che alza le braccia al cielo
e inforca sulla rotta
l’astratto seguitare.
Yulbachar
Come la spola del telaio le dita dei tuoi figli
tieni serrate al filo del tappeto Yulbachar
sempre più rare sono le case con un tetto
le corde del rebab e la saggezza del vasaio
sono disperse nell’argilla dei fragili mattoni.
Vanno verso l’ignoto i carri carichi di corpi
Yulbachar non fermarti
spalanca le pupille non addormentarti
strofinati la pelle con la sabbia o col ghiaccio
dura a morire questa stagione priva di colori.
Di là delle pareti un pò di luce
per un’altra vita
resisti innalza gli occhi sopra i monti
i demoni del freddo torneranno a scuotere
il rigido pastrano della guerra
e schiariranno le caverne che abitano in noi.
Le valli imperiture
sotto lo sguardo obliquo dei cavalli
che da decenni valicano i passi sanguinando
le gemme gli occhi raggelati gli anni tuoi
non s’apriranno mai finché tu non ritrovi un volto.
D questa parte vedo la tua bellezza ritrarsi
tra le pieghe del burqa su un ruscello
dove torni in segreto la notte Yulbachar
per giocare con gli orfani tra i ciottoli perenni.
Epistrofe
Dovremmo ritrovare il cielo
il movimento della terra
e le radici
la vecchia casa che passando
scoprimmo con stupore
tra fichi d’India rose e lecci.
Nell’angolo consunto al sibilo del mare
scoprimmo la profondità del tempo
si strinsero le nostre menti
sparse come quel fiore rotto
sui ciottoli di argilla nella polvere.
Dal fondo della nostra storia
protubera come alito di muschio
su un focolare spento la memoria.
Dalle foreste che spiantammo
fin dentro ai nostri aneliti
non apprendemmo mai
responsi di un ritorno.
La luce inanellava gli astri
senza parlare ci perdemmo come foglie
nell’aria carica di sale
l’odore del Ponente fa impazzire
quando sprigiona i sogni.
Poi ritrovammo strati di vernice
sull’innocente nuda pietra
la geometria del panico sui volti
intenti ad ordinare il mondo
che adesso esorta a ricordare.
Gravina
Arabesco spuntato dal vento
burrone di pietra e conchiglie
fugge l’ombra
cavalca ostinata sui muri
color della cenere il giorno
poi la notte ventagli di luna
scandisci sui fuochi rupestri
trascinando all’amore le labbra
increspate nel grido assetato
che invoca le lacrime al cielo
ed intreccia ai destini
le porose pareti del tufo
a un passaggio di nuvole rare
stillando il sudor dei millenni
ed infine la pioggia
che ingronda l’intaglio del sasso
nelle vuote cisterne
dove suonano gli echi
e di nuovo le mani
il lavoro costante del tempo
nella rossa gravina
sospesa su un esile fiume
che arranca ostinato verso il mare.
Precipizi
di agavi e ginestre
I
Dei nostri luoghi antichi
resta soltanto un altro scorrere del tempo
nel lento sussurrare di una lingua scissa
che intreccia luce ed ombra
sul nostro proseguire.
Nel verbo del silenzio
l’inizio è la profezia di un seme
che spinge verso l’utopia
e ciò che non è ancora
entra nel sogno ad occhi aperti.
Mentre vedo l’esilio di popoli e culture
forme di vita asserragliate in cellule lontane
eppure mai così vicine al tracotante ingegno
che ora pervade gli argini
e fa sfiorir l’incanto di tutte le facciate.
Nella putredine d’asfaslto rotolano i sogni
sospinti dalla Tramontana
lì dove i precipizi orlati di agavi e ginestre
attesero le brezze
che il fiato dell’estate alzava sui terrazzi.
II
Vi lasciammo messaggi e promesse
le voci che adesso s’infrangono
sopra i rigidi ammassi di lava
urlando albemarine e cicli
ad un dio assorbito a clonare
ninfe cristalli pitechi e cerberi
nella brama di cifre e di codici.
Tra stelle luminose pietre e tempo
saprà la mente ritrovare il nesso
l’arco teso nel corpo di un amore
che la ragione va smarrendo.
Sono stravolti gli occhi
nell’arida foresta dei concetti
mentre la furia delle sparizioni
avanza come tarlo tra i vestiti
sbiadisce immagini corrode i libri
aperti alle remote tracce incise nel basalto.
Gli stormi del tramonto
planano sulle scogliere di novembre
piombate in fretta ad arginare i golfi
dai monti che sapevano di vento
mentre si espandono tra fossili e catrame
le maree dei frammenti di guerre lontane.
III
E della condizione umana l’eco è la speranza
che si trasforma in musica e sventaglia note
ma l’orizzonte è ancora il vuoto delle mani
corrugate a intrecciare senza posa
i ghetti e le barriere della solitudine
con le galassie giunte fino al canto
tripudio delle metamorfosi
strozzato come l’arte di avanzare
sopra sentieri a scacchi tra i muri di confine
e le bocche di fuoco serrate nei crateri.
C’erano porti e biblioteche
su questi litorali abbandonati
sento ansimare Sisifo
in un lontano scalpitio di sandali
blocchi impossibili nell’afasia dei volti
si adagiano sui fondi solforosi
dove pulsano gravide caldere
e i corpi nudi vogliono librarsi
sopra il crudo profumo di un agrume.
Insieme agli uragani spariranno
le guglie d’annerito marmo le aquile possenti
l’acciaio protervo e le chimere
inartigliate al vuoto di un mistero
dove s’incrocia il demone al possesso.
IV
Ho acceso un fuoco rami di risulta
nell’angolo imbiancato di una stanza
prigione e rimedio contro il freddo
sopra traversano gli uccelli
e schiere d’ali ragioni inafferrabili
passano ad agitare nuvole d’autunno
che scuotono negli occhi i desideri.
La discrepanza sta nelle parole
che non osammo pronunciare
per noi parlano gli alberi
i segni ancora freschi nella roccia
l’uscio consunto tra le mani
sul rossoterra di una soglia
rimasta a fronteggiare l’esodo
e le burrasche che non comprendiamo.
V
Ritornano irrisolti dai satelliti
gli antichi quesiti di una nuova scienza
che involucra celeste spazzatura
sulle città inondate di relitti
dove proliferano enigmi senza corpo
trite discordie di istinti e conoscenze.
Tra queste secche ciò che è nuovo
insabbia
e va spegnendo il credito col tempo
mentre titanici artifici solcano senza prora
l’immensità di mari sconosciuti.
Non valgono un naufragio
le fortune segnate sulla mappa di un atollo
e le polene inalberano il seno
per un istante per amore
c’informano che l’etere è in tempesta.
Dov’è che troveremo approdo
l’istante vivo della luce il fiore
la rosa nel turbinio dei venti
che commutava i flussi della vita?
Ritorna l’erba tornano i colori
rattoppano trincee di guerre fratricide
ritornano le rapsodie di cose e di parole
e gli antichi antenati dei sogni
i ricordi svuotati a morte dai ribaltamenti.
VI
Su un promontorio sopra l’Ade
risalgono dal mare
sorgenti limpide discese da lontano
permeano l’alta cima dei cipressi
e questo errare alle radici
disciolte nella cecità del sole
che attraversa le mura
e fende gli occhi senza paraventi
che assetati cercano tra le carte
il senso che non ha cambiato rotta.
E quell’arsura ci consola
quando la pozza cristallina è sale
sapore della vita disseccato aroma
lasciato sulla sabbia e sulla roccia
che infiamma i cormorani nell’azzurro
dove affondarono le icone di Narciso.
Naufragio
Sul mare sconfinato
dove passarono le braccia
bompressi e sagome di legno
sibila senza posa il vento
aperto è il canto della vita
tra le umide distese.
La mente avanza come il nautilo
avvolta tra i residui del passato
tornano i messaggeri alati
e nel ricordo secco
gli arbusti radicati allo strapiombo.
Spezie profumi incensi
furono rare soste
gli occhi sacrificammo
il nostro olfatto i corpi
erano imprigionati nella meta
ma governammo l’amnesia.
La libertà l’amammo
legati a un albero maestro
l’arte era stretta in un ascolto
che poi non praticammo a lungo.
Nell’aria tersa del naufragio
s’innalza una cometa
massa di luce traccia di materia
che in questa notte fonda s’inabissa
tra le corde di una chitarra sommersa.
Hiroshima,
racconto d’inverno
Radioso mattino d’un agosto
è duro ricordare
il corpo d’albero sfibrato
in quel diluvio che mutava il tempo.
Corrono nuovi calendari
qui non racconto né misuro gli anni
forse saranno gli astri a ricordare
se torneranno ad innalzarsi
inni titanici inauditi pesi
dal corpo fecondo del metallo.
Si estingue un secolo accecante
mentre dai resti di un’apocalisse
Prometeo torna ad aggirarsi
tra le fratture della nostra mente.
Scatola nera delle progressioni
lasciata nel cuore di un atollo
tra le orbite immote del pesce
lo sguardo tondo custodisce intatto
l’inizio del naufragio
ma l’onda lunga non la intravediamo.
Arti cortecce sagome brandelli
tutti i graffiti
sulle pareti prive di sostegno
la seta delle chiome le pupille
convertite in calore
tripudio di una fisica marziale
nel cielo attonito che sogna incontri
e ricadute di fiocchi immacolati.
Nella chiuisa abetaia
scorgo tra i rami inastricabili
la luce viva di una stella
sospesa come un grillo del silenzio
invoca a ricondurre i paradigmi
al verbo dell’inizio.
Saprà placare gli occhi la natura
aggiogati da false metamorfosi
vedo laggiù gli aironi
sbucare da costanti azimutali.
Vengono a rammentarci
la storia inenarrabile
di questa glaciazione in corso
mentre sugli ostinati fiumi
controcorrente migrano i salmoni.
Nel rosa del tramonto
scivolano sinfonie senza spartiti
e i desideri scoccano le corde
sulla tua pelle e sulla mia
quegli anni continuano a bruciare
ma mai ne discutemmo a lungo.
Enigma
L’enigma graffia le parole
le labbra sognano la pioggia
gli occhi
lo sguardo sull’intera vita.
Il meccanismo delle parti
si fa artiglio
divora la trinità del tempo
nel rovescio di fuoco e ferro
sei tu la Sfinge
rimasta a mezza via.
I sillogismi sono fermi
i trionfi dello spazio danzano
mentre perdura il battito del tempo
la viva macchina del mondo
risveglia la poesia.
E dalle impronte sulla luna
segni scrittura al limite del corpo
ancor più luminose appaiono le tracce
di mani nell’argilla che si perdono
nel vento della storia.
Messaggi
Non ti invito a guardare
il tempo lungo
la ghiaia che si modella
nel ritmo infaticabile del mare
frantumi di balocchi alla battigia
o i sospiri che doppiavano il capo
adesso avvolti in pugni di catrame.
Tra i labirinti d’aria guarda
smarrite virano le rondini
nell’etere asfissiante delle antenne
svolazza la miseria
proiettata sulle fitte metropoli
in sintonia con i rovesci
di tutte le parabole.
Rosa
dei venti
I
Vivono in noi non muoiono
profumi d’alga d’Africa e d’Oriente
sapore di radici
salsedine limone dattero
ed il rombar dei mari d’indaco
nell’occhio azzurro del deserto
orbite narici arcate
quel disperato sguardo d’innocenza
i cieli di purezza sole ed ombra
serbammo nei millenni.
Vivono in noi sentieri che si snodano
lungo le mura della pace
al passo delle carovane
di seta e di strumenti a corda
danzano gli entusiasmi
tra i tetti delle case bianche
nelle radure spiantate dal possesso.
II
E sulle squame dell’Egeo ventoso
danza l’oceano stringe in pugno
l’ardita tracotanza dei teoremi
ruggine annoda bitte gomene
burrasche sciolte tra i capelli al vento
che accendono trombe marine
leggere come corpi di odalisca
intorno ai pozzi disseccati
di questo mondo della sera.
E’ impressa con il sale la saggezza
tra le rughe del tempo e della terra
insieme al fiume scorrono gli intagli
tra le gravine e i picchi d’Aspromonte
non regge un paradosso di mattoni vuoti
l’architettura delle nostre cattedrali
nella storia snervante di un disagio
vive l’immagine del mondo.
III
Se un albero residuo è la natura
candela fioca luce d’incurante magma
scaglia lucente serpe che s’immerge
nel corpo ancora caldo dei vulcani.
natura sono i miei
pensieri
-
acqua lumaca foglia al vento
rugiada e fuoco sparsi nelle arterie.
S’incrinano sui volti queste icone
scolorano le maschere inaudite
quando il metallo perde il suo potere.
Passato è il tempo
degli anatemi sulle nostre teste
questo stesso naufragio sembra già passato
mentre perdura il flusso dell’eternità
nel soffio adamantino sopra i precipizi
apre le braccia dimezzate una speranza
und ich verstehe sie nicht!
IV
O Iperione
dall’alto dell’isola di Tino
tutt’intero coglievi un segreto del mondo
eins zu sein mit allem was lebt
felice dimenticanza di se stessi
nel suo corpo verbale la poesia
folgorava la vita immortale
che gridasti alla rosa dei venti.
Parole di sapienza antica
andavano a smarrirsi nelle nostre scuole
wäre ich nie in euren Schulen gegangen!
V
E nella relatività del tempo
spaccammo gli atomi
dov’è che si era aperto quel processo?
Ettore Majorana ci corrisponde ancora
principi d’indeterminazione
nel vuoto certo di una sparizione
l’arco dell’incombenza tesa
a ricordarci le connessioni che ci sfuggono
nell’era dei ribaltamenti.
Cascate di energia trascorrono nel mare
e un indiviso abbraccio ci sussurra
essere uno con il tutto.
Ci naufragava tra le mani quella luce
e sulle nostre spiagge
si sfilacciava l’ odissea dei secoli.
Fuori del tempo proiettammo i corpi
i monasteri le montagne sacre
per una mancia di lussuria
foreste e conoscenze vanno alla deriva
e nuovi sguardi senza più confini
sulle rovine coltivano fortune
in un passar di mutile stagioni.
VI
Ci sarà un’altra estate
coi prodigi del tempo torneranno
correnti terse dentro i desideri
gli arsi bambù le canne d’organo gli ottoni
e una poesia di voci alzate
muraglia contro le muraglie
del dilagante oblio.
Non
chieder dove il filo
dipana
il labirinto dei sentieri
son
sfaccettate come prismi le parole
noi
vi giriamo intorno
in
cerca di un colore ch’è già altrove
queste
stesse ferite che portiamo
viaggiano
sull’ala del gabbiano
nell’aria che sa d’alba e di
tramonto.