1.
La nuit est au courant (Jac Berrocal)
2.
infrantumi
3.
squarcicatrici
4.
tarkovskij
5.
violenza albanese
1.
LA NUIT EST AU COURANT(Jac Berrocal)
nel
brusio della gente che parla
un urlo secco mal soffocato
una schiena che si piega
cede a
se stessa
e un assalto
inspiegabile
ritorna
di notte
e tutti
corrono in due direzioni opposte
lo lasciano
solo e poi
il ritorno
ancora
a correre
le strade
si schiariscono
sotto i muscoli
dietro
al sudore
e sbuffi
tre dietro l’altro non un respiro
far silenzio ma correre e saltare quei gradini
e ancora
due direzioni diverse
e il cuore che batte
la schiena
piegata
il colpo
l’assalto
improvviso
e la corsa
anche se
la velocità non può aumentare
anche se
il sudore scorre via
una voce
nell’orecchio mi grida qualcosa
qualcosa
non va
io correvo
zoppico
il piede si stacca cado per terra e
ci resto
sento l’eco
del sangue che scorre
mi lascia
solo
e pulsano
le tempie
mi gira
la testa ed ho la bocca
invischiata
ubriaca
e stanca
non c’è
più il cuore
i pensieri
raddoppiano
e tossisco
via
le ultime
cose
e si sente
si sente la differenza
ma qui
di certo non mi trovano
il bar
swinging bar
odori di
sigarette e nemmeno un profumo
tutte schiene ai tavoli
niente
facce niente occhi
c’è
lo specchio buio che riflette
sensazioni di spostamenti
e il juke
box marcia da solo
rotola
morbido come se fosse
stato gettato
sott’acqua
attutito
come nel
pane fresco
ancora sono
indeciso e mi sposto dal bancone
al tavolo
più vicino
l’acquario dei pesci
il gabinetto
e piccole lanterne alle pareti
e comunque
nessuno mi guarda
e svengo
a terra
il risveglio
è di un soffio di treno
che passa
davanti alla pensilina
io steso
male
cerco di
recuperare gli arti
il
riconoscimento
mentale il pensiero che
mi striscia
dentro
e mi guarda bene
la testa
che gira ancora e i piedi quasi per terra
stordito
ma cammino e dimentico il piede
ancora,
di nuovo,
again insomma
esco dalla
scena rumori fuori campo
e il cuore
che si rimette in moto
con qualche
sincope
ed accelerazione
prendo queste
strade piene di cartelloni
colori
e di nuovo
vedo cappelli senza faccia sotto
meglio
il cappotto
sta chiuso
non ho assolutamente freddo
sento
stridere
le anche
ma sarà
qualcos’altro
non ne
ho voglia
i pensieri
svicolano
e resto
di nuovo solo a girottolare
canticchiando
nei vicoli con l’eco
per sentire
altri suoni che vengano dietro a me
e ricordo
anche i doveri
i perché
i semmai
i vorrei
e rientro
a camminare nei miei piedi
che uno
dopo l’altro mi riportano nella grande piazza assolata
è
giorno ma volge alla sera
il tramonto
dipinge gli occhi
d’oro
abbacinato
non vedo nulla
e di nuovo
mi gira la testa
arrivo prima
io a una parete
che lo
svenire a me
e vinco
mi guardo
intorno e la cerco
seducente
un’ombra
di diavolo
negli occhi
e raggi
di sole
tutto intorno
chiazze
rosse sulle mani
tranquillità
“deve andare
così”
miro con
gli occhi tra le scapole della gente scollacciata
mi placo
di ricordi spessi come fagioli
e lancinano
mi battono due volte le tempie
mi distraggo
di nuovo
e la situazione mi si fa irreale
idea fissa
– ricordi – fitte – mal di testa
e via di
nuovo basta,
riparto
cammino
la devo
cercare dappertutto non lì
neanche neppure
cammino
cammino
tra idee
– ricordi – pensieri
e continuo
ad osservare tra le scapole
la gente
poi piano
piano mi si fa chiaro tutto
e
comincio
ad incastrare le cose
ordine
con ordine
e tutto
sembra tornare
capisco
mi torna
ecco
adesso lei
dà senso a tutto il mio squilibrio
mi dà
equilibrio
orarii
sonno regolare
la cerco
per questo
gli occhi
si fermano in una vetrina
e mi vedo
di nuovo solo
a piagnucolare
dentro
ma aspetto
i miei tempi
mi lascio
fare che esca
prima o
poi finirà
ed infatti
rientra tutto dentro
mi sposto
e cammino
di nuovo
la gente
comincia a disfarsi
tra un
po’ una panchina
ma intanto
mi sento
la barba sul viso
e il segno
del tempo che passa
tra le
natiche
ecco la
panchina scomoda
di pietra)
ma la uso
e gli occhi
di nuovo a scrutare
come un
aspirapolvere acceso
che lei
ascolti il mio richiamo
il mio
canto tra tutti gli altri
e si venga
a sedere qui
ed ecco
arriva una a corsa
una corsa a perdifiato
disperatamente
lasciata andare
i miei
occhi la agganciano
e mi segue
ci intrecciamo
io parto
sul suo slancio
e l’eco
stavolta ha senso
stanchi
perdiamo passi
poco male
ecco un
posto
ritorna
il bar
pieno di elefanti che
barriscono
sirene
di terra
le seguiamo
e ci fidiamo
io di lei
e lei di me
ad un
tavolino
parliamo
come filosofi
mentecatti
come attori
consumati
sigarette
spente
ovunque
le lancette
trottano
e ormai
la notte
è al corrente
di tutto quanto
2.
infrantumi
ho partorito mia figlia mentre ero ubriaca.
mi sono sempre sentita invischiata con le mani o con i piedi in
qualcosa
di più grande di me, che non potevo controllare o fuggire - mi
sono
imbarcata in un viaggio all'estero come sedermi al bar a bere.
ho sentito vibrare tutto dentro di me - pulsazioni del cazzo ossessive
e tonde - porticine che si chiudono
respiri
senza allontanarmi
mai ho respirato l'aria di quello che poteva che poteva essere altrove
- di martedì - strappato alla valigia trafitta da quella picca
medievale
scovata nella cantina piena di ragni e
pidocchi
in cui nella seconda guerra mondiale ci rifugiavamo dalla luce del
giorno
troppo spessa
sacrificata
continuamente e premuta da schiaffi sul viso e colpi di tosse lontani -
sentivo ronzare le orecchie spesso e niente di così insulso come
quella carne sopra a strusciare e
slabbrare
come brace sudicia
costruivo
le giornate a sentimenti sovraesposti magra e bianca
e nuda contratta secchiata d'acqua a
nessuna
temperatura sulla mia pelle morfinica che parrebbe tagliente le ossa
del
bacino ne stirano la superficie e mi piaccio
mi scordo
le cose si riavvolgono
i ricordi sbagliati di quel che non
è successo quei treni
persi per un piede pesante di chilometri assonnati le
canzoncine
che mi ricordo di non so chi la faccia
improvvisa
dietro una porta di un angolo tra i miei passi lenti frammentati
incerti
pestati incespicosi falsi in queste strade bianche di gesso impauriti
sfasciati
in salita dei muscoli traditi felici
sto in piedi
pensierosa cerco di schianto un'idea apposta dietro la prossima onda
che
sbatte indistinta sfrigolando la polvere con le dita sopra i piatti
dipinti
d'argento che si sbreccano tra le onde corte di una radio lasciata a
macerare
sul fondo e l'omino dentro la mia testa sente un suono dietro la
schiena
e sente di svenire con gli occhi che stirano nervi per il contrario mi
arriccio le maniche e vibro tutta a squarciagola mentre sono pezzi
della
mia pelle che volano intorno a quel tuo sussultare di formica stupida
persa
nei fili di una radiolina cruda messa sul cranio che stronca primitivi
battere ineguali e strafelice mi sbatto per terra fruttuosa e desta nel
guazzabuglio introverso che resta a girare sempre
qui
sempre qui come melodia
spersa
ho l'impulso
qualunque di pietrarmi in cucina a far da
mangiare
sorridendo a uno zero che mi paga l'affitto e io mi tocco i capelli
pieni
di bestie di cemento e fragole ma mi accingo a
tornare
a casa a toccarmi di nuovo piena di farisei tra
ascella
e maglietta
(dimmi)
l'orecchio sinistro spostato gelato che inizia nell'acqua cucita negli
occhi aperti sempre dicevi che sono storta e cruda
giù
per strada lecco le vetrate su cui poggi il riflesso e canto spenta
friabili
insistenti tranci di note
bambini
studiati a ripetizione si incagliano sotto le unghie dell'organista
lesbica
che mi trapana la giugulare con la lingua mentre cerca di toccarmi
l'anima
che non le darò mai che non troverà passandomi
attraverso
che incaglierò sul fondo fino a che non mi strappo il collo
all'indietro
e mi batti sul petto e la schiena per farmi respirare aria asmatica
febbricitante
sento che si spegne che se ne va
sotto
la camicia a quadretti celeste stirata male vedo i resti del pranzo di
ieri avvinghiati dentro un castello infeltrito di buio
stratosferico
una guardiola silenziosa di notte non mi fa sentire al sicuro quando mi
tocchi senza cercarmi
schiaffi
su tutto il corpo mentre rido e dita negli occhi per andare
altrove
stretta intorno a un angolo che mi imprigiona nella stessa città
magnetica stupida che mi schiaccia tra due fette di ferro a panino
frullato
in due secondi fuori da questa finestra schiusa alla calura
indistruttibile
del sole dimenticato acceso troppo a lungo un teatro vuoto e una luce
per
terra mi fan sentire di tavola di legno
cocciuta
sparisco nella piega
in un rituale
stridente ti lego a un palo e io pure con i vestiti e le forbici
impazzite
che spargono brandelli ovunque soffocati cianotici qui senza parole
adesso
vibro ancora e ancora di un blu elettrico secco e mattutino
alzo il volume e crepo la bocca piena di ancora rosso e
friàto
di grandi calamari stronzi pigiati fra pareti di caucciù cantano
roba dei paesi loro senza capirci un cazzo
riempio
i flutti di sputi mentre si sbriciolano le lacrime io monto
un urlo e lo distruggo a morsi respirando a strappi senza
ascoltare
lo strusciare indisponente gracchia a 28 giri e non c'è
più
la puntina seppellita nell'eco di questa buca scavata dal mio respiro a
fatica stendo il ronzìo trasportato
inscatolato
e svanisco
(Starfuckers, Infrantumi, 44:02)
3.
squarcicatrici
guardami
mi fa guardami - che cazzo non ti piacciono le mie cosce? non
più?
Guarda mi sparo guardami le cosce mi fa non ti piaccio più? mi
sparo
all'inguine - mi sparo alla testa guardami mi fa e io gli occhi
spappolati
mi sparo dentro mi fa guardaaaaami! Non più? perché non
mi
dai un bacio qui sulla tempia? ci sparo sopra - stronza guardami qui -
mi ci sparo tutti i giorni dammi un bacio sulla canna della pistola e
io
no che fai t'ho detto baciami qui tra le dita e il grilletto piango -
anch'io
piango vieni qui leccami il grilletto e poi BAM!
4.
tarkovskij
rincalcagnato
dentro un vagone male illuminato vedo scorrere l'altro treno che parte
spento & vuoto e penso al freddo dei viaggi d'inverno a una stanza
di un film di tarkovskij a una russa amata di pelle diafana e grande
che
si alza dal letto e sgambetta sulle punte dei piedi ghiacci sul
pavimento
di mattoni scuri di notte nuda verso al finestra brinata e vedo il
calore
che esce a onde dal corpo mentre resta immobile con i capelli sulle
spalle
lisci di fronte a un albero sbiancato dalla luna mentre tutto il
silenzio
è azzurro chiaro e lei all'improvviso si stringe tra le braccia
e vibra dal collo alla schiena e si risveglia dal sonno inconscio e
corre
di nuovo la pelle fino al letto disfatto fredda come la morte e bianca
brivida gli occhi al soffitto chiusi poi si volta al mio viso e li apre
chiarissimi e mi racconta tutto da iride a iride con le labbra serrate
in complicità sorridente fino a che gli ultimi silenzi mangiano
i passerotti e la stanza smette il grigiore notturno e si richiude
sotto
le coltri mi sfiora la mano socchiude le labbra vive sul cuscino rosse
e io chiudo e respiro i capelli esplosi nel letto il freddo pungente
sulla
punta del naso mi giro con calma e ne ritrovo la spalla cadiamo nella
musica
a memoria fluida & calda intorpiditi beviamo l'ultima mezz'ora
prima
che il mondo ci desideri in pasto prima che la luce reclami la nostra
attenzione
siamo nostri
5.
violenza albanese
se una
mattina d'improvviso mi perdessi - calamitato alla rovescia - fuggendo
queste ragazze dalle gambe sveglie prima dell'alba che si addormentano
sui primi treni in partenza - tra i viali scuri della luce bagnata per
terra - tra gli autobus azzurri di spettri - e gli occhi si sfasassero
secondo imprecise funzioni matematiche - e tu mi apparissi davanti
indecisa
come le luci di natale con le pile scariche - e mi incastrassi
inebetito
tra portoni socchiusi in cui luci reali si accendono come fari di
prigione
- con una possibilità rotonda di chiamarti tra le dita - persa
al
tuo affiorare - nuotando a piene braccia verso un'isola nel brodo
inguadabile
- cammino senza metafore per scrollarmi il puzzo di dosso - per
scappare
alle notti che mi vorrebbero steso al fianco di sconosciute invitanti e
comunque in letti non miei - perché se una di quelle gambe
all'alba
parlasse di qualcosa - avesse un rigurgito inaspettato, un motivo di
fascinazione
totale - come le tracce strette e massicce - come i nasi d'accetta -
come
gli occhi tagliati -
mi sento come una tromba in un viale appena svuotato - un fischio tra
le
labbra dentro scarpe rincollate - sfregamenti di gambe e passi di danza
- un'orchestrina raccattata bene che suona quel che le va quando non
c'è
più nessuno - menando colpi nervosi, assalendo il primo che
passa,
e poi anche il secondo - senza un briciolo di calma, mentre esce di
tutto
dalla tasche - persino amore - violentato da una albanese - con la
faccia
di pietra contro la mia impietrita - sapendo cosa fare l'uno dell'altra
- mentre rotolavamo contro l'erba fradicia del nubifragio notturno -
uscita
in cerca di cibo - cantando con le labbra serrate
contro
le mie improvvisazioni di un altro posto - con colpi d'anca ben
assestati,
e un machete impugnato sul serio finché non prendo il ritmo -
poi
è un coinvolgimento di convulsioni come i sassofoni che
piacciono
a me, pieni di direzioni impreviste - ricordandomi del dopo, sapendo
già
tutto come in un tema già scritto, ancorché contorto - i
corpi fuggono nel ritmo in crescendo, e non c'è che da esplodere
ma rimane ancora tutto striato negli occhi neri e pieni di buio - i
motorini
sorpassano gli autobus - poi ci calmiamo senza annaspare troppo - sento
come un disco finito negli orecchi, che gratta con uno
strascichìo
tutto suo - mentre tutto si riavvolge fino alla sensazione iniziale -
quando
lei si alza e mi guarda riabbottonandosi - poi mi allunga una mano a
rialzarmi
- mi abbraccia con un accordo che si fonde pieno - e stentiamo a
scioglierci
- un pezzo alla volta - tra i clacson e i freni stridenti - tra i
frettolosi
e le gambe di prima via da fidanzati verso treni e negozietti - con
avanzi
di voci sudicie - mentre la vedo sparire tra la folla del mercato
all'alba
- tra le urla dei mercanti e le parole aggiunte - e lei che canta il
mio
nome gridando il ricordo del disprezzo e l'incancrenirsi di quello che
non è un romanzo